Il nuovo libro di Avagliano e Palmieri
Sfollati, profughi slavi ed ebrei in fuga

La caduta di Mussolini e l’armistizio lasciano l’Italia stremata e divisa, mentre gli Alleati e i tedeschi si contendono palmo a palmo la penisola con scontri violenti, bombardamenti, stragi, rappresaglie, stupri, rastrellamenti, saccheggi, sfollamenti. Fame, disperazione, macerie e morte la fanno da padrone. Anche l’assetto istituzionale è segnato da una profonda frattura, tra il Regno del Sud e la Repubblica Sociale Italiana. La linea del fronte avanza lentamente da sud a nord e in questo periodo alla feroce occupazione tedesca del centro-nord si contrappone la convivenza forzata con i liberatori anglo-americani nel Mezzogiorno.
Il peculiare percorso di uscita dalla guerra dell’Italia meridionale è il tema di Paisà, sciuscià e segnorine. Il Sud e Roma dallo sbarco in Sicilia al 25 aprile (ed. Il Mulino), il nuovo libro di Mario Avagliano e Marco Palmieri.
Un interessante affresco costruito sulla base di diari, lettere, giornali, film e canzoni. Ve ne proponiamo un brano dal titolo “Sfollati, profughi slavi ed ebrei in fuga”.

Sulla situazione sociale dell’Italia liberata pesa anche la presenza di migliaia di sfollati e profughi, italiani e stranieri, che affollano la penisola. Famiglie senza casa si aggirano per le campagne, a piedi o con mezzi di fortuna. A queste si aggiungono i profughi slavi e gli ebrei liberati dai campi di internamento o sfuggiti alle misure di persecuzione. Già il 18 ottobre 1943 la sotto-commissione per i profughi dell’Acc organizza un campo per ebrei e jugoslavi alla periferia di Palermo. Un altro campo, istituito dall’Amg a Ferramonti di Tarsia in Calabria, viene ceduto alla sotto-commissione in novembre. A Bari arrivano in sempre maggior numero profughi jugoslavi in fuga dall’occupazione tedesca e vengono ospitati in campi provvisori.
I profughi diventano un problema sempre più serio di cui gli Alleati, in collaborazione con il governo italiano, soprattutto a partire dal febbraio del 1944 sono costretti a farsi carico. Per i profughi italiani vengono individuati e approntati sette principali campi di raccolta, dotati di cucine economiche. Alla fine di marzo il numero totale dei profughi italiani ammonta a circa 60 mila. Solo durante quel mese, circa 14 mila sfollati passano dalle zone di battaglia attraverso i campi di smistamento, dove vengono lavati, nutriti ed alloggiati; dopo aver ricevuto le cure mediche e lasciato le loro generalità vengono inviati nelle varie regioni dell’Italia meridionale e in Sicilia.
Non meno problematico l’afflusso di profughi stranieri, soprattutto dall’altra sponda dell’Adriatico. Una massa di donne, bambini e vecchi, che si trova nella miseria più assoluta e appartiene a non meno di 29 nazionalità diverse. A partire dall’autunno del 1943 migliaia di jugoslavi, per fuggire dall’invasione della Wehrmacht che segue l’armistizio, cercano di raggiungere le coste dell’Italia meridionale su zattere e imbarcazioni di fortuna, costringendo le autorità militari alleate ad adibire a centri di raccolta alcuni campi di internamento approntati dai fascisti all’inizio della guerra, in particolare Ferramonti di Tarsia (Cosenza), Campagna (Salerno) e Pisticci (Matera), e ad allestire nuovi campi di accoglienza nel Salento. Lungo la costa jonica, nei dintorni di S. Maria di Leuca, Tricase, S. Cesarea Terme, S. Maria al Bagno e S. Caterina di Nardò, a partire dal 1944, gli Alleati requisiscono decine di ville private, proprietà di abitanti del luogo che le utilizzano perlopiù come residenze estive. Alla fine di marzo del 1944 sono pronti nove campi per profughi non italiani nell’Italia meridionale. Alla fine di aprile del 1944, il totale dei profughi ammonta a 23.000, di cui 11.000 vengono dal Medio Oriente. Dopo la liberazione a giugno di Roma e del Lazio, il numero dei profughi stranieri aumenta notevolmente: solo a Roma ce ne sono altri 6.000, molti dei quali slavi. Su di essi si appunta l’attenzione del Sim che in una relazione del 1944 giudica pericolosi i profughi croati o provenienti dalla Jugoslavia in quanto potrebbero nutrire forti simpatie nazifasciste o essere spie di Tito.
Vengono allestiti nuovi campi di raccolta. A Roma gli studi cinematografici di Cinecittà, razziati nell’autunno del 1943 dai nazisti, che hanno caricato 16 vagoni merci di attrezzature cinematografiche con destinazione Germania e Repubblica di Salò, e bombardati dagli Alleati nel gennaio del 1944, dopo la liberazione della capitale il 6 giugno 1944 vengono requisiti dall’Acc e per diversi anni destinati ad ospitare i profughi. La città del cinema viene divisa in due zone rigidamente separate: una parte riservata ai senzatetto italiani e l’altra destinata a campo internazionale. Vi transiteranno, in precarie condizioni igienico-sanitarie, più di 5 mila persone tra figli dei coloni italiani in Libia, esuli giuliano-dalmati, sfollati dai bombardamenti di Monte Cassino e di Roma, ebrei internati e rientrati dai campi di concentramento. Tra di essi anche qualche nome divenuto celebre in seguito, come Angelo Iacono, produttore di Dario Argento, o Mario Schifano, rappresentante della Scuola Romana pittorica degli anni ’60. Una vicenda, quella di Cinecittà, ricordata dal film Umanità diretto nel 1946 dal regista Jack Salvatori, nome d’arte di Giovanni Salvatori-Manners, che vede protagonista un medico americano impegnato nell’assistenza degli abitanti di un campo profughi proprio a Cinecittà. Solo all’inizio degli anni Cinquanta gli studios di Roma saranno ricostruiti e torneranno all’originaria destinazione, diventando una sorta di Hollywood italiana.
Il 23 settembre 1944 si verifica una fusione tra la sotto-commissione per i profughi e l’organizzazione analoga italiana. Il nuovo ente si chiama «sotto-commissione per il rimpatrio dei profughi» ed è amministrato dalla sezione degli affari civili. La sottocommissione dei «profughi e rimpatrio» ha il compito doloroso di occuparsi degli sfollati di guerra e di tutte le loro miserie morali. Fino al 1° maggio 1945 più di 177 mila profughi italiani e circa 78 mila profughi stranieri, di 73 nazionalità diverse, passeranno per le sue mani (numeri solo in parte sovrapponibili a quelli della Croce Rossa Italiana, dove sono registrati 90.000 nomi, e al Vaticano dove sono 60.000).
Il 1° aprile 1945 l’Unrra comincia ad occuparsi anch’essa dei profughi ed assume la responsabilità di quattro campi e due ospedali nell’Italia meridionale. Intanto la sotto-commissione organizza il lavoro da svolgere al nord, dove si prevede che un milione di persone varcherà le frontiere per entrare in Italia, compreso decine di migliaia di meridionali diretti a casa.
Una parte dei profughi è costituita da ebrei italiani o stranieri. A partire dall’autunno del 1943, in seguito allo sbarco in Sicilia degli Alleati, la presenza di migliaia di profughi ebrei nel Sud d’Italia diviene infatti un’emergenza umanitaria. Gli ebrei stranieri che, a partire dal 1940, erano stati internati nei campi fascisti di Ferramonti di Tarsia, Campagna e Pisticci, rimangono per molti mesi all’interno delle medesime strutture. Queste cessano di funzionare come campi di internamento per essere convertite in centri raccolta profughi, attivi sotto la supervisione degli Alleati. Altri ebrei vengono invece ospitati assieme agli slavi nei campi profughi che, come si è visto, vengono allestiti dalle autorità militari alleate nel Salento. Anche Bari diventa centro di attrazione per gli ebrei e nel capoluogo pugliese si forma una comunità di circa 1.500 ebrei jugoslavi, cecoslovacchi, polacchi e in piccola parte italiani.
L’Italia diventa una sorta di Porta di Sion e già dal 1944 è teatro della partenza di almeno 65 navi cariche di profughi ebrei diretti in Eretz Israel (Terra di Israele). Ma prima di partire, gli ebrei vivono mesi e mesi nei campi e in altri luoghi di residenza italiani dove nascono bambini, si celebrano matrimoni, feste religiose e funerali, si tengono corsi di formazione, lezioni di ebraico e corsi scolastici.
La comunità ebraica svolge un ruolo fondamentale nell’assistenza ai profughi ebrei, specie grazie all’impegno delle compagnie palestinesi aggregate all’esercito britannico e delle comunità ebraiche di Napoli e di Bari, che nei mesi successivi collaborano con il Mossad le-Aliya Bet (Istituto per l’immigrazione illegale) anche all’esodo in Palestina. Le compagnie palestinesi utilizzano come copertura i circoli per i militari ebrei aperti nei territori liberati che operano in realtà come centrali per l’emigrazione clandestina. E così ad esempio a Bari viene costituito un centro profughi che vede tra i più attivi il soldato Bruno Savaldi, che parla l’italiano. Nei dintorni della città pugliese già a febbraio del 1944 vengono fondati due centri di preparazione professionale (kakhsharot) destinati ai giovani ebrei in attesa di raggiungere Eretz Israel. Anche a Napoli si forma un comitato di assistenza, in contatto con i circuiti internazionali ebraici, che come riferisce il vicepresidente Nino Contini in una lettera del 17 agosto 1944 al rabbino Teitelbaum, in collaborazione con i militari della compagnia palestinese di stanza nel capoluogo partenopeo in pochi mesi ha assistito oltre 2 mila profughi ebrei.
Dopo la liberazione di Roma il centro profughi di Bari si trasferisce nella capitale e il 15 luglio, nei locali dell’Oratorio di via Balbo, tiene la prima seduta con i rappresentanti delle varie compagnie palestinesi dislocate in Italia, stabilendo di istituire in alcune città liberate altri centri di assistenza, scuole, circoli culturali e centri di preparazione professionale. Oltre che a Bari, Napoli e Roma, ne sorgeranno anche a Ferramonti di Tarsia, Firenze, Ancona e Livorno. A Roma, ad esempio, viene riattivata la Delasem, l’organizzazione di assistenza ai profughi, riaperta la scuola elementare «Vittorio Polacco» e costituiti un centro giovanile e un centro di preparazione professionale in località Ponte di Nona.
A ottobre del 1944, in una conferenza a Roma, rappresentanti dell’unità ebraica dell’esercito britannico istituiscono il Merkaz Lagola (Centro per la Diaspora), per la prosecuzione delle attività nei centri per rifugiati. Il mese dopo giungono nell’Italia liberata i primi due emissari del Mossad le-Aliya Bet.
Le prime navi dirette in Palestina, con gli ebrei per lo più stranieri liberati dai campi di prigionia nel meridione, profughi cecoslovacchi e jugoslavi partono già nel maggio del 1944 e nel marzo 1945 dal porto di Taranto. Al secondo viaggio del marzo 1945 partecipano anche diversi ebrei italiani raccolti a Roma dopo la liberazione, tra cui i Sermoneta. La frattura delle leggi razziali e della complicità di molti, troppi italiani alla caccia agli ebrei, ha infatti provocato un trauma indelebile in alcuni di loro, come si legge nel settembre 1944 nella lettera dell’ebrea romana Fernanda Di Segni Sermoneta al figlio primogenito Benedetto, emigrato giovanissimo in Palestina dopo i primi provvedimenti antiebraici:

Per fortuna questi mesi di terrore sono finiti. Ci siamo ritrovati salvi, ed in buona salute, ma con il dolore vivo per il pensiero dei cari lontani che chissà se rivedremo più. Ora ci stiamo riorganizzando, abbiamo aperto negozio già da tre mesi, fra qualche giorno torneremo a casa che era stata occupata da sfollati. Tutto apparentemente tornerà come prima, ma tutto è diverso da prima. Sebbene ora godiamo perfetta libertà ed abbiamo ripreso il nostro lavoro, ci sentiamo qui quasi estranei. Sentiamo che questa non è la nostra patria. Sentiamo che dobbiamo formarla laggiù dove sei tu, dove dovrebbero andare gli ebrei di tutto il mondo. Noi ci sentiamo diversi, vediamo tra questa gente, questi italiani, tante di quelle spie che hanno contribuito alla rovina dei nostri in quel fatale periodo. Non sappiamo più distinguere i buoni dai cattivi. E poi come sarà il futuro di questa povera Italia e per noi?

Mario Avagliano e Marco Palmieri

(24 ottobre 2021)