Maestri del pensiero irrilevante
Si può partire da ottime premesse per arrivare a risultati di una sconcertante banalità. Se non completamente scadenti. Il dibattito pubblico, in Italia, è stabilmente occupato da un ceto di conversatori di professione, composto perlopiù da persone, in sé spesso dignitosissime, che tuttavia si vedono destinate a sfilacciare la propria immagine a seguito dell’inflazione dei loro stessi discorsi. I quali si esercitano un po’ su tutto lo scibile umano. Non è infrequente, infatti, che una tale corporazione di fatto (composta da accademici prestati alla pubblicistica, di giornalisti ciarlieri, di politici affascinati dalla perenne ribalta pubblica, di conduttori e conduttrici di talk show e adesso anche di compassati scienziati e ricercatori) si riduca spesso ad essere lo specchio capovolto di quel populismo di senso comune, espresso incautamente dalla società, contro il quale i medesimi “opinionisti” dicono di volersi scagliare. Due facce per una stessa medaglia, quella della futile ovvietà, che neutralizza da subito quanto viene detto. Poiché non solo non ha nessuna profondità ma è destinato ad essere letteralmente divorato dal rullo compressore dell’opinionismo medesimo, fondato sull’irrilevanza di quanto si pronuncia. Vanità e vacuità vanno quindi a braccetto, alimentando una macchina della comunicazione le cui fortune sono inversamente proporzionali al rigore del pensiero. Più aumentano le prime, minore è la coerenza e la consistenza del secondo. Peraltro, la questione di fondo non è neanche la stretta ottemperanza ad un principio di specializzazione (parla solo delle cose del tuo ambito), che comunque dovrebbe consigliare una certa cautela nell’esprimersi, tanto più dal momento in cui l’interessato fuoriesca dal suo campo di studio o riflessione. Semmai, il vero nocciolo del problema è la riduzione collettiva di ogni forma di espressione ad una sorta di chiacchiericcio fine a se stesso, dove l’eclatanza di certe posizioni risponde perlopiù al bisogno di visibilità di chi le esprime e non alla necessità di trasmettere orizzontalmente dei significati condivisibili. L’opinione è oramai una performance attoriale che, a sua volta, si trasforma in spettacolo. Con effetti sorprendenti, a volte di involontaria ironia, in quanto la regola del contrappasso è sempre in agguato. Non di meno, quando si entra in un qualche determinato circuito comunicativo, è pressoché impossibile eludere le sue regole stringenti. Che oggi sono sempre le stesse: alta il tono di ciò che dici, sollecita attenzioni, fomenta clamore. Lo si può fare in molti modi, non necessariamente urlando. Il criterio principe è fondato sul precetto del “sii ovvio poiché qualsiasi pensiero complesso è nemico dell’audience”. L’adeguatezza della perfomance verrà misura su questa premessa. Si tratta di un esercizio attoriale, più che autoriale, su un palcoscenico dove chi è chiamato a recitare rischia di scambiare la sua parte per la realtà stessa. Ma il confondere l’una cosa (una rappresentazione) con l’altra (la vita) è forse il peggiore modo di prendersi in considerazione. Anche per questo si rischia di diventare, ben presto, maestri del pensiero irrilevante.
Claudio Vercelli
(24 ottobre 2021)