Se non leggi correttamente questo messaggio, clicca qui     12 Novembre 2021 - 8 Kislev 5782
LA RETROSPETTIVA ALLA GALLERIA NAZIONALE DI ROMA

 Antonietta Raphaël, identità allo specchio

Una donna in tutta blu dallo sguardo deciso e consapevole. Maniche rimboccate e strumenti di lavoro in mano. Un simbolo di emancipazione femminile in un’epoca in cui l’uguaglianza di genere era ancora lontana. Una donna capace di superare i pregiudizi e affermarsi nel suo presente. Non parliamo del celebre manifesto di Rosie the Riveter (1943, We can do it!), ma dell’autoritratto di una artista che, attraverso le sue tante vite e opere, si può annoverare tra le icone del femminismo dello scorso secolo: Antonietta Raphaël, che nel 1940 firma “autoritratto in tuta blu”.
“Parliamo di una grande artista donna del Novecento, che ha portato avanti con energia e originalità delle tematiche straordinarie, dal femminismo all’indagine sulle sue origini ebraiche. Una donna che parla di maternità e protezione e allo stesso tempo persegue i propri sogni e la propria indipendenza” racconta a Pagine Ebraiche Giorgia Calò, preparandosi ad inaugurare la grande mostra “Antonietta Raphaël. Attraverso lo specchio” curata assieme ad Alessandra Troncone ed esposta, a partire dal prossimo 17 novembre, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, promossa in collaborazione con l’Istituto Lituano di Cultura presso l’Ambasciata di Lituania in Italia.

Una retrospettiva che racconta la poliedrica vita artistica e personale di Raphaël attraverso dipinti, sculture, opere su carta, ma anche documenti, fotografie di famiglia, lettere e pagine dei suoi diari. Un’esposizione che riflette come uno specchio i costanti dualismi che caratterizzano la vita dell’artista di origine lituane, tra le fondatrici della Scuola romana assieme al marito Mario Mafai.
“Questa mostra nasce dal desiderio di Giulia Mafai (figlia di Antonietta e Mario) di fare un ultimo significativo gesto in ricordo della madre", racconta Calò (nell'immagine assieme a Mafai). "Mi disse: ‘Vorrei dedicarle una grande retrospettiva in un grande museo’. E così circa due anni fa ci siamo messe a lavorare insieme”. Un lavoro documentato e approfondito, che ha portato alla realizzazione della mostra nelle prestigiose sale della Galleria Nazionale. “Purtroppo Giulia ci ha lasciati pochi mesi fa. Non ha potuto vedere il risultato dei nostri sforzi. Non possiamo che dedicare a lei l’esposizione”.
“È un passaggio di testimone simbolico. Ora tocca a noi portare avanti l’impegno a ricordare la storia e l’arte della famiglia Raphaël e Mafai” sottolinea Ariel, figlia di Giulia Mafai, che ha dato il suo contributo alla mostra. Quest'ultima "sarà un’occasione anche per ricordare 'le tre sorelle' Mafai e l’impegno profuso da tutte le eredi nel valorizzare l’opera di Antonietta Raphael e Mario Mafai - la riflessione di Troncone - che ancora oggi resta da tutta da scoprire nella sua incredibile attualità".
L'esposizione, evidenzia Calò, segue diversi filoni tematici: l’autoritratto, strumento per riflettere e scavare la propria identità; la femminilità e maternità; le origini ebraiche; l’entourage artistico in cui la grande scultrice era vissuta e a cui aveva dato risalto. Tante prospettive per raccontare un personaggio complesso, dalle molte vite artistiche e non solo. “Ogni volta che mi chiedono chi era Antonietta Raphaël, i miei racconti seguono percorsi diversi", spiegava a Pagine Ebraiche Giulia Mafai in un commovente e delicato ricordo della madre. "È come un fiume che si divide in diversi canali e ogni volta ne seguo uno nuovo”. Perché siamo di fronte a una figura che ha vissuto “una vita intensa, piena, operosa e devota all’arte” ricorda Cristiana Collu, direttrice della Galleria Nazionale. Nelle diverse sale, tra sculture, dipinti, fotografie e carteggi c’è la storia, prosegue Collu, di “un’artista che ha detto la verità, in modo olimpico, senza illusioni, con ferocia e con determinazione, quella che ha speso nelle lotte dei suoi incubi (sempre definiti sogni) e quella che ha profuso per plasmare la materia, dura come quella della pietra e del palissandro o tenera come l’argilla o la pasta di colore sulla tela”.
Ad analizzare la biografia di Antonietta Raphaël ci si rende conto che è una vita fatta “in maniera speculare: una vita fatta di dualismi continui, di confronti tra più piani" spiega ancora Calò, dipingendo con grande nitidezza la complessità del personaggio. Per esempio: "Raphaël è una donna che, dopo aver vissuto nell’East End londinese, non teme di presentarsi in tuta blu da lavoro o pantaloni nella Roma degli anni Venti in cui era impensabile per le donne vestirsi in questo modo”. Uno spirito dunque libero e progressista, ma allo stesso tempo profondamente legata alle sue radici. “Non dimenticherà mai le sue origini, soprattutto quelle lituane chassidiche", prosegue Calò. "Rappresenta e dipinge il padre rabbino a Kaunas; si porta con sé la Hannukkiah paterna che viene addirittura rappresentata dal marito Mario Mafai tanto è parte delle loro vite. E ancora, Antonietta dipinge il bellissimo quadro Mia madre benedice le candele. E sceglie spessissimo di rappresentare temi biblici”. Tanti gli esempi in mostra, da Genesi alle raffigurazioni di Giuditta e Tamar: “Eroine bibliche, donne indipendenti e volitive – sottolineano le curatrici – in grado di declinare grazia e bellezza in forza e combattimento e di sovvertire con le loro azioni un contesto dominato da logiche patriarcali”.
Come del resto è riuscita a fare Raphaël. Nonostante la sua bravura, nonostante fosse la più cosmopolita della Scuola romana, l’ombra maschile del marito e di artisti come Scipione non le permetterà di raggiungere il giusto riconoscimento da parte della critica, ancora molto segnata dai pregiudizi. E così sceglie coraggiosamente di cambiare percorso e passa alla scultura. “Ha una forza fisica straordinaria che le permette di scolpire la pietra con grande abilità. Vestita con la sua tuta blu, con quelle mani forti scardina i pregiudizi, lì scolpisce via. La critica dell’epoca – evidenzia Calò – si accorge del valore di questa grande artista, ma la nomina sempre con una declinazione al maschile: il più grande scultore italiano. Al maschile perché è inconcepibile pensare che sia una donna”.
Raphaël, aggiunge ancora la curatrice, “è una fenice che ha saputo rinascere più volte, come scrive Giulia nel suo libro La ragazza con il violino”. Si è ricostruita più volte il proprio percorso, superando anche il dramma delle leggi razziste e della persecuzione. Periodo buio che aveva peraltro presagito e rappresentato nei suoi lavori. “Di quel periodo è la scultura Fuga da Sodoma in cui c’è tutta l’angoscia di un secolo buio e di una situazione personale difficile con questa madre con i figli quasi inglobati dentro la materia, dentro di sé. Una madre che deve fuggire, così come dovrà fuggire la stessa artista”.

Nella mostra c’è anche l’amore per il marito Mario Mafai, raccontato attraverso l’arte così come nelle parole dei diari. “I due si allontaneranno, ma il legame rimarrà vivo come testimonia il grande ritratto di Mafai che apre la mostra. Un ritratto fatto dalla scultrice in occasione della scomparsa del marito nel 1965 e parte della collezione della Galleria Nazionale”. Il dialogo peraltro con le opere presenti nel museo della Capitale è uno degli elementi di forza dell’esposizione, sottolinea Calò. “Era un’occasione straordinaria quella di esporre all’interno della Galleria Nazionale che ha le opere più belle italiane del primo Novecento e di tutto quell’ambiente (Giacomo Manzù, Renato Guttuso, Katy Castellucci, Helenita Olivares) che ruotava intorno a Raphaël. Quindi abbiamo cercato di creare una sorta di percorso di mostra diffuso”. Il cui punto focale rimane sempre l’opera di Antonietta Raphaël, specchio al contempo della complessità di un’epoca, di una tradizione, ma anche sguardo originale e femminile attraverso cui provare a guardare il mondo.

Daniel Reichel

(Nelle immagini: Autoritratto con tuta blu; Giulia Mafai con Giorgia Calò; Antonietta Raphaël nel suo studio; Er e Tamar; la visita della Prima Ministra lituana Ingrida Šimonytė alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma)

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L'INIZIATIVA NELL'ITALIA EBRAICA

“Luce e Torah, la nostra risposta all’odio”

Nelle ore in cui si ricordava l’anniversario della Notte dei Cristalli luci accese e serate di studio nelle sinagoghe hanno caratterizzato l’impegno dell’Italia ebraica per trasmettere un messaggio di vita e futuro. Nell’immagine un momento della sessione di studio al Tempio Bet Michael di Roma, ideata per il secondo anno consecutivo dallo shaliach del Bnei Akiva Refael Elon. “Ho preso come modello un progetto nato in Israele: tutto è iniziato dal kibbutz Tirat Zvi per iniziativa di una donna israeliana colpita dalle testimonianze sulla Shoah dei suoi genitori. Luci e Torah sono la nostra risposta a quell’orrore”, dice Elon.
Ad animare la serata i ​rabbini rav Roberto Colombo e rav Roberto Della Rocca e il maskil Eitan Della Rocca.

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Italiani ad Auschwitz
È in libreria da pochi giorni il nuovo libro di Laura Fontana, Gli italiani ad Auschwitz (1943-1945). Deportazioni, “Soluzione finale”, lavoro forzato. Un mosaico di vittime edito dal Museo statale di Auschwitz-Birkenau. Si tratta di un lavoro importante, frutto di una lunga e approfondita ricerca che offre uno sguardo nuovo sulle vicende legate alla deportazione dall’Italia. Cosa può esserci mai di nuovo su Auschwitz, si domanderà il lettore. Sappiamo già tutto, le testimonianze parlano chiaro, e poi le ricerche, le visite guidate… E invece no. Negli ultimi decenni, direi a partire dai tentativi di appropriazione politica di quel luogo come simbolo del male e della persecuzione (si pensi al Carmelo e al grande crocefisso installato da Giovanni Paolo II, oppure alla nascita di una narrativa nazionalista polacca, o ancora all’istituzione transnazionale del 27 gennaio come data simbolica universalmente condivisa), la ricerca storica su Auschwitz è stata spesso sostituita da retoriche a volte inopportune.
Gadi Luzzatto Voghera
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Essere tzaddiq
"E Giacobbe uscì da Beer Sheva e andò verso Charan" (Bereshit 28;10)
Rashì commenta questo versetto dicendo che, quando uno tzaddiq abbandona il luogo dove vive abitualmente, tutta la città e i suoi abitanti risentono della sua mancanza.
Essere tzaddiq vuol dire adoperarsi per il prossimo, mettendo addirittura a repentaglio la propria vita per chi ha bisogno di aiuto. 
Quanti tzaddiqim ci sono nella nostra generazione? 
Rav Alberto Sermoneta
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Aspettando l’estinzione
La popolazione della California (che elegge, come tutti gli Stati Uniti, due senatori) supera quella di Connecticut, Utah, Iowa, Nevada, Arkansas, Mississippi, Kansas, New Mexico, Nebraska, Idaho, West Virginia, Hawaii, New Hampshire, Maine, Rhode Island, Montana, Delaware, Dakota (Nord e Sud,) Alaska, Vermont e Wyoming sommati tutti insieme, 22 stati che eleggono 44 senatori. Forse non è giusto, forse non è democratico, ma è così che funziona uno stato federale. Comunque non mi risulta che gli abitanti della California vadano in giro a dire che bisognerebbe cancellare il Vermont o il Wyoming dalle carte geografiche, né che contestino la legittimità dei senatori eletti nei ventidue stati meno popolosi.
Invece nell’ebraismo italiano, organizzato, come è noto, in un’Unione di 21 Comunità, capita spesso di sentir invocare le differenze nel numero degli iscritti per negare legittimità ai rappresentanti delle Comunità medie e piccole (anche se si parla di un solo Consigliere per Comunità, se non mezzo) e di conseguenza alle decisioni prese dai vertici dell’Ucei eletti dalla maggioranza del Consiglio.
Anna Segre
Linguaggio inclusivo
Ludwig Wittgenstein nel Tractatus Logico-Philosophicus scrisse che “I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo”. Se riusciamo a tramutare per via quasi alchemica un concetto o un’idea in parola saremo capaci di "dargli vita" e integrarlo nel nostro mondo. Dove non può arrivare il linguaggio non possiamo arrivare dunque oltre con la mente. Per quanto ovviamente se parliamo di “linguaggio” non intendiamo solo quello verbale. Ma non c’è bisogno di interpellare Wittgenstein o teorie linguistiche, come quella celebre dei due linguisti Edward Sapir e Benjamin Lee Whorf, per comprendere come la lingua influenzi il nostro pensiero e la nostra visione del mondo, o pensiero e linguaggio siano in qualche modo una cosa sola. 
 
Francesco Moises Bassano
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