Linguaggio inclusivo

Ludwig Wittgenstein nel Tractatus Logico-Philosophicus scrisse che “I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo”. Se riusciamo a tramutare per via quasi alchemica un concetto o un’idea in parola saremo capaci di “dargli vita” e integrarlo nel nostro mondo. Dove non può arrivare il linguaggio non possiamo arrivare dunque oltre con la mente. Per quanto ovviamente se parliamo di “linguaggio” non intendiamo solo quello verbale. Ma non c’è bisogno di interpellare Wittgenstein o teorie linguistiche, come quella celebre dei due linguisti Edward Sapir e Benjamin Lee Whorf, per comprendere come la lingua influenzi il nostro pensiero e la nostra visione del mondo, o pensiero e linguaggio siano in qualche modo una cosa sola.
In questi giorni sui giornali e sui canali digitali si parla sovente di “linguaggio inclusivo”, in qualche modo più di quanto se ne sia parlato negli anni precedenti. Io ero probabilmente rimasto a quando in qualche comunicato negli anni studenteschi veniva usato l’asterisco per creare un plurale neutro ed inclusivo, né femminile né maschile, e qualcuno o qualcuna storceva il naso. Ma dieci anni fa sembrava ancora un fenomeno di nicchia, interventi in merito dei principali linguisti e dell’Accademia della Crusca erano allora forse impensabili.
Poi negli ultimi mesi al posto degli asterischi hanno fatto la loro comparsa le desinenze – u o le -x, ed infine la scevà dei giorni nostri con il grafema ə. Ho cercato di “mettermi in pari” e di leggere almeno gli articoli principali sul tema, per quanto la mole di testi sia ormai sconfinata, ma nonostante ciò sono ancora dubbioso sul tutto. In realtà il timore è quello di finire nell’ennesima contrapposizione binaria tra due schiere che si insultano tra loro, in questo caso gli ipotetici pro-scevà e i no-scevà. L’uso di un linguaggio inclusivo è una meta alla quale la società nella sua interezza deve senza dubbi aspirare, ma questi espedienti scovati sinora lasciano a desiderare e sembrano pieni di insidie. Solo il fatto che non ci sia ancora un’unanimità sul simbolo o lettera ipotetica da utilizzare, che questa cambi di mese in mese, e che l’uso dipenda da scelte individuali o di gruppi distinti delinea già di per sé il gran balagan. O peggio che il discorso sulla forma abbia preso il posto di quello più importante sul contenuto e sullo scopo da raggiungere.
L’introduzione di una nuova desinenza impronunciabile nella lingua italiana può davvero portare a una mentalità più inclusiva? Credo che l’uso di un plurale neutro non sia un modo per renderci più consapevoli che quando scriviamo o parliamo non ci stiamo rivolgendo esclusivamente ad un universo maschile. Al contrario, sembra quasi che annullando il genere del plurale si finisca per fare riferimento a un unico ed indistinto genere che potrebbe facilmente rimanere nella testa dei più quello maschile. Lingue come il turco, l’ungherese o l’inglese prive completamente di distinzione di genere, non sembrano aver creato mentalità o culture più inclusive. In ebraico (così in arabo) per quanto al plurale prevalga come in italiano l’uso sovraestensivo del maschile è prevista la declinazione al femminile del verbo e di quasi tutti i pronomi personali. Certo è apparentemente più macchinoso coniugare il pronome o il verbo a seconda dell’interlocutore, ma in qualche modo appare un gesto più consapevole in confronto alla scorciatoia di annullare in toto il genere. In italiano potrebbe senza troppi sforzi essere usato un semplice “tutti/tutte”, ovvero l’affiancamento del plurale di entrambi i generi, di fronte a un uditorio misto, rendendoci più coscienti appunto che non ci stiamo rivolgendo a una massa indistinta. Tornando all’enunciazione iniziale di Wittgenstein l’asterisco o la scevà restano due simboli che per quanto appartenenti a un linguaggio (almeno quello scritto) non sono esprimibili a parole nella lingua italiana e appaiono così non pienamente concettualizzabili.

Francesco Moises Bassano