LA DECISIONE DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI RABBINI D'EUROPA

Rav Pinchas Goldschmidt e la fuga forzata da Mosca
"Ha rifiutato di sostenere l'aggressione all'Ucraina"

Due settimane dopo l’aggressione russa dell’Ucraina, il rabbino capo di Mosca Pinchas Goldschmidt e la moglie Dara Goldschmidt sono stati costretti a lasciare la Russia. Una decisione presa dopo aver subito pressioni per “sostenere pubblicamente ‘l’operazione speciale’”. E soprattutto dopo essersi rifiutati di farlo, ha spiegato sui social la nuora Avital Chizhik-Goldschmidt, giornalista di New York. “Ora sono in esilio dalla comunità che hanno amato, costruito e in cui hanno cresciuto i loro figli per 33 anni – anche se oggi (rav Goldschmidt) è stato rieletto” alla guida della comunità di Mosca. Il rav, presidente della Conferenza dei rabbini europei, e la moglie si trovano a Gerusalemme, ma prima di arrivare in Israele hanno viaggiato in Europa orientale per raccogliere fondi per i rifugiati, il racconto di Chizhik-Goldschmidt. “Il dolore e la paura nella nostra famiglia – ha aggiunto – negli ultimi mesi va al di là delle parole. I suoni della Sinagoga corale di Mosca risuonano nelle nostre orecchie… Non dimenticherò mai il nostro fidanzamento lì nel 2014 e il fatto che abbiamo portato lì i nostri figli, a Shavuot nel 2018… Siamo grati che i nostri genitori siano al sicuro; siamo molto preoccupati per molti altri…”.
Contattato dall’agenzia di stampa ebraica Jta, il rav ha preferito non commentare la situazione né parlare di un eventuale suo ritorno in Russia. A Mosca era arrivato oltre trent’anni fa in tempi complicati. Si trasferì nel 1989 su spinta del rabbinato centrale d’Israele e di alcuni movimenti ebraici dell’allora Unione Sovietica. Fu lui, poco prima del crollo dell’Urss, a ricostituirvi un tribunale rabbinico, il primo dai tempi di Stalin, per occuparsi delle questioni relative alla Legge ebraica e allo status degli ebrei sovietici.

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L'INTERVENTO 

“Benedetto che mi facesti donna”

Un imperatore disse a R. Gamliel: “il vostro D. è un ladro, perché sottrasse una costola ad Adam dopo averlo addormentato”. La figlia del rabbino domandò il permesso di replicare al posto del padre. “Dammi un ufficiale affinché giudichi – disse all’imperatore -: dei ladri sono entrati in casa nostra nottetempo, ci hanno rubato un boccale d’argento ma ne hanno lasciato in cambio uno d’oro”. “Vorrei che un tale ladro mi venisse a trovare ogni giorno”, esclamò l’imperatore. Non fu un’ottima cosa che da Adam sia stata prelevata una costola, ma gli sia stata concessa la donna al suo posto? (Sanhedrin 39a). Passi talmudici come questo esprimono l’idea che la donna sia la più perfezionata fra le creature. Poche righe prima il Talmud aveva discettato sulla creazione dell’essere umano in generale paragonandola a un conio: a differenza delle monete (matbe’ot) che escono dalla zecca tutte uguali, gli esseri umani derivano tutti dal primo uomo eppure sono tutti diversi. Ciò manifesta la grandezza del nostro Creatore.
È recentissima la pubblicazione curata dal Centro Studi Camito-Semitici dell’Università Statale di Milano di una miscellanea alla memoria di Francesco Aspesi, ricercatore presso la cattedra di ebraico dell’Università scomparso nel 2020. Fra i ventisei saggi voglio qui segnalare soprattutto il contributo di Erica Baricci. La giovane ebraista milanese ha studiato un manoscritto del XV secolo appartenuto alla collezione dello storico Cecil Roth (n. 32). Si tratta di un Siddur tradotto in giudeo-provenzale, destinato al pubblico femminile. Sebbene lo studio si soffermi soprattutto sulle caratteristiche linguistiche della volgarizzazione dall’ebraico nello spirito generale del volume, la Baricci non manca di notare quella che è a mio avviso la particolarità liturgica più notevole del manoscritto: la presenza di una Berakhah del mattino in cui la orante ringrazia D. qui fis me fenna, “che mi facesti donna” (p. 44-45). Una caratteristica condivisa da pochi altri manoscritti coevi, alcuni in ebraico, ricopiati a Ferrara e a Mantova.
Il testo originale della Berakhah, recitato in tutto il mondo ebraico dagli uomini è l’esatto contrario: she-lo ‘assani ishah. Quest’uso risale ai Maestri della Mishnah (Menachot 43b), mentre una tradizione medievale più tarda assegna alle donne la formula alternativa she-’assani ki-rtzonò (“che mi ha fatto secondo la Sua volontà”). Spiega il Talmud (TJ Berakhot 9, 2) che la donna è esente da molti precetti positivi legati al tempo. Nel sistema della Torah che sui precetti è incentrato, l’uomo “eccelle” sulla donna in quanto obbligato a un maggior numero di Mitzwot. La ragione di questa distinzione è a sua volta variamente intesa. Abudarham, il grande commentatore medioevale del Siddur, sostiene che essa ha origine nell’esigenza di tutelare l’armonia coniugale: la donna deve essere disponibile ai compiti che l’attendono in famiglia. Per altri pensatori più recenti (Maharal di Praga, Derush ‘al ha-Torah p. 30; R. Shimshon R. Hirsch a Wayqrà 23, 43), viceversa, essa ha meno precetti perché essendo più vicina a D. non ne ha bisogno. Ya’avetz (Mantova, sec. XVI) dà una visione più comprensibile ai “moderni”: la donna è svantaggiata semplicemente perché più vulnerabile. Questa interpretazione è stata ripresa da psicanalisti ebrei contemporanei: R. Rubenstein (“L’immaginazione religiosa”, Ubaldini, 1974, p. 54) spiega le discriminazioni femminili in seno all’ebraismo con il “tormento dei vinti”, l’esigenza di tutelare gli elementi più a rischio di abusi nei casi, peraltro frequenti, di conquiste e persecuzioni.

Rav Alberto Moshe Somekh

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L'OMAGGIO DELLA COMPETIZIONE FRANCESE AL CELEBRE CICLISTA

Tour de France 2024, il via da Firenze
nel segno di Gino Bartali

Sembrerebbe mancare ormai soltanto l’annuncio ufficiale, ma sempre più voci e conferme si rincorrono sulla possibilità che Firenze sia scelta come città di partenza del Tour de France 2024.
Un progetto nel segno della candidatura congiunta presentata dalla Regione Toscana insieme all’Emilia Romagna, dove la “Grande Boucle” è previsto che transiti nelle ore e nei giorni successivi, oltre ovviamente al Comune di Firenze. L’omaggio a una territorio nel quale sono nati, sono cresciuti e si sono affermati alcuni tra i più grandi interpreti di questa disciplina. Tra loro un posto d’onore spetta senz’altro a Gino Bartali, che il Tour l’ha vinto due volte, molto apprezzato in Francia anche per le imprese umanitarie in tempo di guerra, discusse da alcuni storici ma riconosciute dallo Yad Vashem, che gli sono valse il titolo di Giusto tra le Nazioni. “Le silence du Juste Gino Bartali” titolava tra gli altri Le Monde nel 2013, soffermandosi su alcune evidenze portate in questo senso da Pagine Ebraiche.
“Aspettiamo l’ufficialità, ma sarebbe certo qualcosa di molto bello e significativo. La realizzazione di un sogno per il quale mio padre Andrea si era speso a lungo, perorando ad esempio la candidatura per portare il Tour a Firenze già nel 2014, nel centenario dalla nascita di nonno Gino: se tutto ciò andasse in porto come pare sarebbe entusiasmante, l’ideale chiusura di un cerchio” sottolinea Gioia, una delle nipoti del leggendario campione, al giornale dell’ebraismo italiano.

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IL CASO IN GRAN BRETAGNA E LE RIFLESSIONI DELL'EBRAISMO ITALIANO 

Rabbini in chiesa, divieti ed eccezioni

Non è consuetudine che un rabbino ortodosso varchi la soglia di una chiesa. Norme stringenti vietano in genere questa attività, fatta eccezione per un ristretto numero di casi. Alcuni validi universalmente, come il principio che nel fare ciò non si deve mettere a rischio la vita propria o quella di qualcun altro. Altri invece legati a usi e tradizioni che possono differire da un Paese all’altro.
È riferendosi a una di esse, ad esempio, che il rabbino capo di Gran Bretagna rav Ephraim Mirvis ha potuto partecipare alle celebrazioni per i 70 anni dall’insediamento della regina Elisabetta svoltesi di recente nella cattedrale di Londra. Una sentenza del tribunale rabbinico della capitale inglese dispone infatti che tale proibizione possa essere infranta se l’invito a partecipare a una cerimonia religiosa cristiana arriva da un membro della famiglia reale. ”È l’unica eccezione contemplata”, ha puntualizzato il rabbino Herschel Gluck alla Jewish Telegraphic Agency.
E l’Italia? “La situazione viene valutata caso per caso. Il principio è che un’eccezione sia possibile solo nel caso in cui, agendo diversamente, la collettività ebraica si trovi in una condizione di pericolo. Non mi pare che sia un rischio che corriamo al tempo presente” afferma rav Giuseppe Momigliano, rabbino capo di Genova e Consigliere UCEI. In ogni caso, specifica, “tutto sta alla sensibilità e al senso di responsabilità del singolo individuo”. Il rav cita tra gli altri il caso di un concerto in onore di Tullia Zevi tenutosi nella Cappella Paolina del Quirinale, con la dirigenza e i rappresentati ebraici rimasti all’esterno della sala. Era il febbraio di tre anni fa. “Una scelta corretta, malgrado l’invito arrivasse dal Presidente della Repubblica. Parliamo infatti di un concerto, non di un evento di Stato…”.
Rav Luciano Caro, rabbino capo di Ferrara, dice “che non esiste niente di codificato e se c’è perlomeno non ne sono a conoscenza”. Ma che l’indirizzo “è sempre stato questo, con la scelta che ricade di volta in volta sulla capacità critica del singolo rabbino”. Nella sua lunga carriera di inviti in Chiesa ne sono arrivati parecchi. “Ma io, spero con sufficiente garbo ed eleganza, ho sempre dovuto declinarli…”.
Una delle città italiane in cui gli scambi interreligiosi sono più intensi è Firenze. “La frequentazione in un senso e nell’altra è piuttosto significativa, ma ciò nonostante non mi è mai successo di ricevere un invito e di dovere motivare le ragioni della mia impossibilità a partecipare” racconta rav Gadi Piperno, che ne è il rabbino capo dal 2019. “È un segno – il suo pensiero – che il Dialogo molto ci ha fatti progredire sul piano della conoscenza reciproca. Si ha quindi oggi una forte consapevolezza su chi si ha di fronte e su cosa possa e non possa fare. Il tutto all’insegna di un profondo rispetto”.

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UNIVERSITÀ DI NAPOLI, IL VOLUME DELLA COLLANA "ARCHIVIO DI STUDI EBRAICI"

Il ’38 e la cacciata degli intellettuali:
il caso Ezio Levi d’Ancona

Lo studio della persecuzione può fornire ancora molto materiale e diverse riflessioni nuove. Di questo e di molto altro si è parlato nella giornata di studio in ricordo di Ezio Levi D’Ancona, organizzata dal Centro di Studi Ebraici dell’Università di Napoli L’Orientale il 25 gennaio 2022 e i cui atti sono in corso di pubblicazione, curati dal professor Giancarlo Lacerenza per la collana di Ateneo Archivio di Studi Ebraici. Il volume include la relazione di Annalisa Capristo, «Cittadino di razza ebraica». Ezio Levi D’Ancona e l’espulsione dal mondo accademico italiano nel 1938, di cui qui proponiamo un estratto.

Ezio Levi D’Ancona (Mantova 1884 – Boston 1941) fu uno dei 96 professori ordinari (e straordinari) che nel 1938 vennero espulsi dall’insegnamento universitario italiano in conseguenza dell’emanazione delle leggi antiebraiche fasciste. Oltre alla cattedra di Filologia romanza presso l’Università di Napoli perse anche gli altri incarichi di insegnamento che ricopriva presso l’Istituto di Magistero «Suor Orsola Benincasa» e L’Orientale, sempre a Napoli. Così pure, fu espulso da tutte le istituzioni culturali italiane (accademie e deputazioni storiche) delle quali era membro. Impossibilitato a proseguire la propria attività come docente e come studioso e a pubblicare con il proprio nome, nel dicembre 1939 partì dall’Italia con la moglie Flora Aghib per cercare una sistemazione negli Stati Uniti. Dopo molte peripezie riuscì ad ottenere un incarico di insegnamento al Wellesley College in Massachusetts. Morì a Boston per le complicazioni di un’ulcera il 28 marzo 1941.
Personaggio di grande personalità e rilevanza intellettuale, anche se non notissimo, Ezio Levi è quindi prima di tutto un caso “esemplificativo” dello sconvolgimento provocato dall’adozione della politica razzista del fascismo nelle vite degli ebrei italiani, ivi compresi coloro che, prima del 1938, non avevano manifestato dissenso o opposizione nei confronti del regime.

Annalisa Capristo

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TEL AVIV, IL PREMIO DEL MUSEO DEL POPOLO EBRAICO AL GIOVANE ELIA CATALUCCI

“La mia famiglia, in un violino”

Un giovane toscano, il 15enne Elia Catalucci, è tra i vincitori della nuova edizione del concorso “My Family Story” promosso da Anu – il Museo del Popolo ebraico di Tel Aviv il cui evento di premiazione si svolgerà nelle prossime ore. “My family as a violin”, il progetto da lui curato, si compone di una serie di immagini di famiglia dispiegate all’interno di un box a forma di violino. Una delle sue grandi passioni, insieme all’atletica leggera e alla fotografia, le cui corde fa vibrare con una carrellata di scatti che si dispiegano in un racconto che dal buio del nazifascismo arriva fino al presente valorizzando il segno della sua identità e appartenenza ebraica. Elia è nato e vive a Pistoia e studia al Talmud Torah della Comunità di Firenze. In passato ha vinto per ben due volte il concorso di Anu “The Jewish Lens”.

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Ticketless - Insegnanti, io vi esorto a viaggiare!
Carlo Cottarelli è bravo e simpatico. Mi piace ascoltarlo, mi piace la sua voce: parla di economia in modo comprensibile. L’altra sera l’ho sentito sbottare, come ama fare lui, sempre con il sorriso sulle labbra, di fronte al profluvio di elogi che si ascoltano in queste ore in memoria di Enrico Berlinguer (film, libri, documentari, lenzuolate sui giornali). Nulla di personale, ha precisato, ma perché in Italia una minima parte di quella attenzione non la si dedica mai a Ugo La Malfa?
Alberto Cavaglion
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Periscopio - La pupilla
Abbiamo parlato, nella scorsa puntata, di come Dante, nel X Canto del Purgatorio, esalti la grandezza di re Davide, di cui, in una sorta di cortometraggio (nel quale le figure di un gruppo scultoreo si animano innanzi a chi le guarda), è narrato il trasferimento dell’Arca dell’Alleanza da Epata a Gerusalemme. Un passo in cui è espressa la grande ammirazione per “l’umile salmista”, di cui sono sottolineate l’alta virtù dell’umiltà e le doti di artista (poeta, cantore e danzatore).
Francesco Lucrezi
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I primi papaveri rossi a Montecassino
Nel 1943 si costituì in territorio sovietico il II. Korpus Polski [Drugi Korpus Wojska Polskiego], brigata di 75.000 unità subordinata al Governo polacco in esilio e agli ordini del tenente generale Władysław Anders con una divisione operativa nella Palestina Mandataria Britannica; nel maggio 1944 la brigata fu dislocata in Italia e partecipò all’ultima battaglia di Montecassino soffrendo notevoli perdite, nel 1946 fu trasferita in Gran Bretagna e smobilitata l’anno seguente. 
Francesco Lotoro
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