“Benedetto che mi facesti donna”
Un imperatore disse a R. Gamliel: “il vostro D. è un ladro, perché sottrasse una costola ad Adam dopo averlo addormentato”. La figlia del rabbino domandò il permesso di replicare al posto del padre. “Dammi un ufficiale affinché giudichi – disse all’imperatore -: dei ladri sono entrati in casa nostra nottetempo, ci hanno rubato un boccale d’argento ma ne hanno lasciato in cambio uno d’oro”. “Vorrei che un tale ladro mi venisse a trovare ogni giorno”, esclamò l’imperatore. Non fu un’ottima cosa che da Adam sia stata prelevata una costola, ma gli sia stata concessa la donna al suo posto? (Sanhedrin 39a). Passi talmudici come questo esprimono l’idea che la donna sia la più perfezionata fra le creature. Poche righe prima il Talmud aveva discettato sulla creazione dell’essere umano in generale paragonandola a un conio: a differenza delle monete (matbe’ot) che escono dalla zecca tutte uguali, gli esseri umani derivano tutti dal primo uomo eppure sono tutti diversi. Ciò manifesta la grandezza del nostro Creatore.
È recentissima la pubblicazione curata dal Centro Studi Camito-Semitici dell’Università Statale di Milano di una miscellanea alla memoria di Francesco Aspesi, ricercatore presso la cattedra di ebraico dell’Università scomparso nel 2020. Fra i ventisei saggi voglio qui segnalare soprattutto il contributo di Erica Baricci. La giovane ebraista milanese ha studiato un manoscritto del XV secolo appartenuto alla collezione dello storico Cecil Roth (n. 32). Si tratta di un Siddur tradotto in giudeo-provenzale, destinato al pubblico femminile. Sebbene lo studio si soffermi soprattutto sulle caratteristiche linguistiche della volgarizzazione dall’ebraico nello spirito generale del volume, la Baricci non manca di notare quella che è a mio avviso la particolarità liturgica più notevole del manoscritto: la presenza di una Berakhah del mattino in cui la orante ringrazia D. qui fis me fenna, “che mi facesti donna” (p. 44-45). Una caratteristica condivisa da pochi altri manoscritti coevi, alcuni in ebraico, ricopiati a Ferrara e a Mantova.
Il testo originale della Berakhah, recitato in tutto il mondo ebraico dagli uomini è l’esatto contrario: she-lo ‘assani ishah. Quest’uso risale ai Maestri della Mishnah (Menachot 43b), mentre una tradizione medievale più tarda assegna alle donne la formula alternativa she-’assani ki-rtzonò (“che mi ha fatto secondo la Sua volontà”). Spiega il Talmud (TJ Berakhot 9, 2) che la donna è esente da molti precetti positivi legati al tempo. Nel sistema della Torah che sui precetti è incentrato, l’uomo “eccelle” sulla donna in quanto obbligato a un maggior numero di Mitzwot. La ragione di questa distinzione è a sua volta variamente intesa. Abudarham, il grande commentatore medioevale del Siddur, sostiene che essa ha origine nell’esigenza di tutelare l’armonia coniugale: la donna deve essere disponibile ai compiti che l’attendono in famiglia. Per altri pensatori più recenti (Maharal di Praga, Derush ‘al ha-Torah p. 30; R. Shimshon R. Hirsch a Wayqrà 23, 43), viceversa, essa ha meno precetti perché essendo più vicina a D. non ne ha bisogno. Ya’avetz (Mantova, sec. XVI) dà una visione più comprensibile ai “moderni”: la donna è svantaggiata semplicemente perché più vulnerabile. Questa interpretazione è stata ripresa da psicanalisti ebrei contemporanei: R. Rubenstein (“L’immaginazione religiosa”, Ubaldini, 1974, p. 54) spiega le discriminazioni femminili in seno all’ebraismo con il “tormento dei vinti”, l’esigenza di tutelare gli elementi più a rischio di abusi nei casi, peraltro frequenti, di conquiste e persecuzioni.
La Provenza e l’Italia ebraica sono state “laboratori” innovativi. Nel XVI secolo le donne ebree di Casalmaggiore suscitavano la riprovazione, o forse piuttosto la preoccupazione del Maharam da Padova perché trattavano gli affari e si recavano alle fiere senza essere accompagnate dai mariti (Resp. 26). Ancora R. Yossef Chayim Azulay (Chidà) di Livorno, visitando Carpentras e Cavaillon nell’agosto 1777, riporta nel suo diario di viaggio che “sotto la Sinagoga (propriamente detta) vi era una Sinagoga per le donne”, le quali “avevano anche un cantore, vale a dire un uomo che recitava le preghiere per le donne in vernacolo” (cfr. Somekh, Chidà, “Ma’agal Tov”, Belforte, 2012, p. 332; cit. in Sperber, “Darkah shel Halakhah”, R. Mass, 2007, p. 197 insieme ad altre fonti ancora).
Nel caso della nostra benedizione, peraltro, non pare che l’innovazione abbia lasciato traccia alcuna nella storia della Tefillah. I Maestri più antichi hanno volutamente scelto il ringraziamento in forma negativa per rammentarci che “sarebbe stato meglio per l’uomo non essere creato” (‘Eruvin 13b; Bach a Tur Orach Chayim 46). Il fatto che l’altra Berakhah del mattino: she-lo ‘assani goy sia stata in alcuni riti “rigirata” in positivo (she-’assani Israel nel rito italiano; she-’assani Yehudì nel rito Appam) è un prodotto della censura (cfr. Mishnah Berurah); inoltre la nuova forma non ne stravolge il significato. Qui fis me fenna, viceversa, appare espressione polemica di alcuni circoli intellettuali che per forza di cose non avrebbe potuto imporsi. I nostri Maestri ci hanno messo in guardia di non alterare il “conio” (matbea’) con cui sono state forgiate le benedizioni (Maimonide, Hil. Berakhot 1, 6), adoperando di proposito lo stesso termine invalso per le monete e per la creazione degli uomini. La Legge rimane Legge: solo D. è in grado di variare nell’uguaglianza senza stravolgere le relazioni. Per il resto “il permesso (di discutere) è dato”: il ms. Roth n. 32 testimonia che sotto questo profilo “nulla di nuovo è sotto il sole”.
Rav Alberto Moshe Somekh
(8 giugno 2022)