moked/מוקד il portale dell'ebraismo italiano 20/12/2010 - 13 Tevet 5771

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Benedetto Carucci Viterbi
Benedetto
Carucci
Viterbi,
rabbino 

"Voi avete avuto una cattiva intenzione nei miei confronti, ma il Signore l'ha pensata in bene". Queste, rivolte ai fratelli, sono tra le ultime parole di Josef, e anche tra le ultime parole del libro di Bereshit. Ed è qui forse uno dei messaggi di tutto il libro: essere capaci di accettare quello che  succede, come ha fatto Josef, perché comunque tutto ha un senso positivo.

David
Bidussa,
storico sociale delle idee


David Bidussa
La storia non è un racconto. È una costruzione e solo se comprendiamo la costruzione riusciamo a capire qualcosa del passato e dei documenti che dal passato arrivano a noi. Tsvi Nussbaum è il nome del bambino con le mani alzate che compare nella foto forse più famosa della Shoah. Una foto che ormai è un’icona  e su cui lo storico Fréderic Rousseau ha scritto un libro molto interessante (“Il bambino di Varsavia. Storia di una fotografia”) che la casa editrice Laterza manderà in libreria a gennaio, in prossimità del Giorno della Memoria. Una foto che noi oggi guardiamo dalla parte della vittima, ma che nasce come documento del buon lavoro dei carnefici.  Originariamente infatti, quella foto è scattata dai nazisti per dimostrare la loro solerzia nell’eseguire gli ordini. Chi c’è infatti in  quella foto? Vi si vedono i nazisti, molte persone, che si capisce essere dei prigionieri, una donna che guarda il bambino. Lentamente tutte queste figure sono scomparse ed è rimasto solo lui, Tsvi Nussbaum, a testimoniare un evento che agli occhi di chi guarda quella foto oggi, ha significato opposto rispetto a quello che aveva in testa chi la scattò, e chi in Germania la vide durante la guerra. Si dirà potenza dell’immagine. Non ne sono così convinto. Per due motivi.  Primo: i documenti oltre che una storia del loro uso, hanno un’origine e dimenticarlo è un errore. Significa non comprendere perché quel documento fotografico sia arrivato fino a noi e perché molte altre scene della Shoah, che nessuno voleva che arrivassero fino a noi, non sono state fissate in foto, ovvero in documenti fotografici. Secondo: dimenticare (o non considerare) il primo motivo significa non comprendere che nessun documento parla di se stesso, ma di qualcuno che ce lo propone. E da qui occorre partire per capire che cosa c’è dentro a un documento. Dunque non c’è nessun documento oggettivo, ma ogni documento è intenzionale. E solo se si analizza l’intenzione di chi sta dietro il documento si riesce a comprenderne la struttura, la costruzione, la fisionomia e anche la finalità nell’uso. 
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davar
Consiglio Ucei - Giunta a nove verso il nuovo Statuto
A Renzo Gattegna il Consiglio affida la presidenza 
Consiglio“Dobbiamo continuare a lavorare per un ebraismo italiano unito nel rispetto delle nostre identità, attento a crescere sul fronte interno e impegnato sul fronte della comunicazione e del confronto con la società civile, perché il nostro nome e gli ideali che rappresentiamo possano raccogliere i più ampi consensi.
Queste le prime parole che Renzo Gattegna, chiamato ancora alla guida dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane da un nuovo Consiglio che alla sua prima riunione ha confermato il suo mandato di presidente con una votazione sostanzialmente unanime, ha rivolto ai rappresentanti degli ebrei italiani. Presenti i 18 Consiglieri, nella votazione a scrutinio segreto Gattegna ha raccolto 17 consensi e una scheda bianca.
Ampio consenso, in apertura del primo Consiglio dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, anche per l'ipotesi di attuare immediatamente la riforma statutaria approvata pochi giorni fa dal Congresso riguardo al modello di Giunta a nove componenti che costituirà la dimensione del nuovo governo dell'ebraismo italiano.
Dopo un confronto per cercare la formula che meglio rappresentasse le molte identità ideali e geografiche dell'ebraismo italiano, il Consiglio ha approvato la proposta di una Giunta che vede alla vicepresidenza Claudia De Benedetti e Anselmo Calò. Il Presidente continuerà a seguire personalmente le strategie di informazione, comunicazione e rapporti istituzionali. Gli altri componenti di Giunta eletti sono Victor Magiar, Dario Bedarida, Giorgio Mortara, Raffaele Turiel, Sandro Di Castro e rav Adolfo Locci.
A tutti i componenti del Consiglio saranno attribuiti incarichi specifici e di alta responsabilità. 
“Sono commosso e onorato - aveva dichiarato nella mattinata Gattegna - e sono felice di proseguire in questo impegno, perché nel corso del mandato precedente abbiamo lavorato su molti progetti che meritano di essere ulteriormente seguiti e sviluppati. Ma voglio anche ripetere quanto dissi quattro anni fa: la mia intenzione è quella di essere il presidente di tutti e in questo momento voglio spogliarmi di qualunque appartenenza di schieramento e chiedere ai Consiglieri di fare altrettanto. Il Consiglio appartiene a tutto l'ebraismo italiano, la Giunta lavora per tutto l'ebraismo italiano. Lavoriamo per la concordia interna, perché tutti noi ne avvertiamo il bisogno”. 

Qui Firenze - Legge e negazionismo, opinioni a confronto
Giovani e meno giovani a confronto sull'opportunità di promulgare una leggi che vieti il negazionismo della Shoah. Il dibattito sulla proposta di legge formulata dal presidente della Comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici in seguito alle folli esternazioni del professor Claudio Moffa dell'Università di Teramo si è svolto ieri sera nella Sala Servi della Comunità ebraica di Firenze richiamando un pubblico motivato e partecipe. L'incontro, moderato dal consigliere con delega alla cultura Renzo Bandinelli e dall'avvocato Renzo Ventura (che sostituiva l'infortunato Ugo Caffaz, primo proponente della serata) è stato scandito da momenti di confronto tra i presenti alternati dalla lettura di alcuni interventi di autorevoli esponenti della minoranza ebraica italiana (tra cui Anna Foa, David Bidussa, Amos Luzzatto e Vittorio Pavoncello) che negli scorsi mesi sono entrati nel merito della proposta sulla stampa ebraica e nazionale. Fermi restando ovviamente l'infamia e il biasimo per chi nega la Shoah, in particolare se chi le esprime ha un ruolo di educatore come il professor Moffa, il dibattito si è soffermato non tanto sul senso della proposta di Pacifici, il cui obiettivo è stato generalmente condiviso, quanto sull'efficacia che tale legge (su cui si sono espresse in modo favorevole quasi tutte le forze politiche che siedono in Parlamento) potrebbe avere nell'educazione alla Memoria delle nuove generazioni. Tra favorevoli e contrari il dibattito si è protratto fino alle soglie della mezzanotte fornendo un quadro variegato di approcci alla questione anche in seno all'ebraismo italiano.

Adam Smulevich

Hans Jonas, Hannah Arendt e la loro fede
Hans JonasTale vincolo (con il destino ebraico) era d’altronde percepito anche da Hannah Arendt, una volta che ne parlavamo mi disse infatti: “Davvero singolare. Non riesco a immaginare un mondo senza ebrei. Naturalmente, se siamo ebrei, continueremo a esserlo”. Essere ebrei, quasi un character indelebilis del quale nessuno di noi vorrebbe liberarsi. Lei dubitava fortemente che lo Stato d’Israele potesse sopravvivere, ma in mia presenza citò una frase che una volta pare fosse stata pronunciata da Ben Gurion: “Anche se tutto ciò che abbiamo fondato dovesse perire - il rischio c’è, infatti - sono convinto che ciò che accade qui garantirà la sopravvivenza dell’Ebraismo per i prossimi mille anni”. La citò quasi con approvazione e disse: “Un popolo con una memoria come quella”. Lei dunque si annoverava fra loro. E a casa sua ci fu poi una conversazione, rimasta per me indimenticabile.
Hannah ArendtLore (la moglie di H. Jonas) e io eravamo invitati insieme con Mary McCarthy e una sua amica che viveva a Roma e che, si appurò poco dopo, era una cattolica convinta. Mostrava verso di me un forte interesse e mi provocò con la domanda: “Lei crede in Dio?”. Nessuno me lo aveva chiesto in modo così diretto - per di più, una persona praticamente estranea! Prima la guardai un po’ perplesso, riflettei, e con mia sorpresa dissi: “Sì!”. Hannah trasalì - ricordo ancora che mi guardò quasi spaventata. “Davvero?”. E io risposi: “Sì. In fondo, sì. Qualunque cosa ciò possa significare, ‘sì’ è più vicino alla verità di ‘no’”. Poco tempo dopo mi trovai da solo con Hannah. Si venne a parlare di nuovo di Dio e lei disse: “Io non ho mai dubitato dell’esistenza di un Dio personale”. Al che io replicai: “Ma, Hannah, questo non lo sapevo proprio! E poi non capisco per quale motivo l’altra sera sei rimasta così sorpresa”. E lei rispose: “ Ero sconvolta a sentirtelo dire, non lo avrei mai pensato”. Con quella confessione, dunque, ognuno aveva stupito l’altro.

da Hans Jonas, Memorie, Genova, Il melangolo 2008, pp. 277-278

(segnalato da rav Gianfranco Di Segni)

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pilpul
Davar Acher - Generazioni
Ugo VolliCome è noto, storia nel linguaggio della Torah si dice "generazioni", toledot, e spesso ci imbattiamo in elenchi di generazioni (o dei loro "nomi", shemot), il cui destino è tipicamente definito nella forma verbale di questa loro denominazione. Accade anche, come abbiamo visto nella parashà letta ieri, che questi destini siano definiti più esplicitamente da un atto profetico che benedice o in altri casi maledice, spesso usando ancora la paraetimologia della forma linguistica come guida del senso. Dato che popoli e città sono identificati coi loro fondatori, vi è dunque in questa concezione una continuità fra vicende familiari e storie politiche. Il limite è soprattutto quantitativo: una famiglia diventa un popolo quando si estende e si suddivide, come avviene nella discendenza di Jaakov, includendo elementi diversi - il che non era accaduto nelle generazioni precedenti, da cui la diversità era stata consapevolmente espulsa.
Ogni popolo è comunque considerato da questo pensiero innanzitutto una discendenza, la cui condizione deriva da quella degli antenati. Ciò è particolarmente evidente nel nostro caso, essendo gli ebrei chiamati per tutta la Torah chiamati spesso "bené Israel", figli di Israele: non una metafora ma un riconoscimento di paternità. Del resto noi ancora preghiamo, non solo a Kippur, ma tutti i giorni, proprio invocando il merito dei Patriarchi come argomento a nostro favore. Questo modo di pensare non identifica semplicisticamente una comunità genetica - una "razza" - perché si tratta di un clan allargato, che può includere "stranieri" (gherim), considerati a loro volta come discendenti dei padri eponimi, a patto che vi si identifichino. Il popolo/discendenza contiene anche diversità, conflitti, possibili scissioni ed è suscettibile di perdite. Non è "organico" e votato all'unanimità, al contrario è litigioso e dispersivo. E' a rischio costante di annullarsi, di perdere la sua identità, per l'azione delle altre culture o per le divisioni interne. Ma finché dura si definisce per la continuità consapevolmente conservata, per il filo ininterrotto dei riferimenti all'anteriorità che intesse le narrazioni storiche, in cui il passato spesso anticipa e spiega il presente e ogni generazione si assume il compito di conservare la memoria delle precedenti - dunque della sua storia e della sua origine. Vi è sul fondo della nostra identità un legame fra ascendenza e condizione politica, che si estende molto spesso anche al rapporto con la trascendenza: per esempio quando la stessa teofania del roveto, che farà ripartire il ciclo della storia ebraica, si presenterà innanzitutto a Mosé come la Divinità "dei tuoi padri". Perché la discendenza diventi popolo vero e proprio e sia chiamato dalla Torah così sarà necessario l'elemento in più dell'autocoscienza, dell'assunzione (almeno da parte di un leader) di se stessi come un soggetto politico collettivo, con un'origine (i patriarchi) uno scopo preciso (la terra) e un patto fondativo con la divinità.
Questa teologia politica non è sostanzialmente mutata e determina ancora la nostra vicenda. Fino a che abbiamo una storia come Israele, portiamo il nome di Jaakov e siamo definiti dalle sue generazioni e dal suo progetto, pur attraverso tutte le trasformazioni storiche e culturali. Ogni volta che attiviamo la memoria sociale delle nostre "generazioni", dei pensieri e delle vicissitudini che costituiscono la nostra storia, ogni volta che ripercorriamo un rito direttamente o anche solo leggendone la descrizione (come avviene per la birkat kohanim o per il rito di Kippur), ritessiamo questo filo di continuità, che ci lega col passato, unisce le diverse comunità in cui ilo popolo si è disperso e oggi congiunge soprattutto ogni ebreo consapevole con lo stato di Israele. Chiunque tenti di depotenziare o "universalizzare" questa autocoscienza, in un'etica per tutti (kath'olos, cattolica o comunista), o più debolmente nel senso postmoderno della "società liquida", magari travestita da "accoglienza etica dell'altro", o infine da società laica e neutra, indifferente rispetto a un ambito che sarebbe separato della "religione", definita modernamente come una semplice fede privata - costui propone in sostanza di cancellare questo vincolo e sostituirlo con altre e incompatibili concezioni della storia e dell'identità - in sostanza propone un progetto di assimilazione e cancellazione della nostra specificità storica - cioè delle generazioni.

Ugo Volli

notizieflash   rassegna stampa
Sorgente di vita: Dal Congresso Ucei
all'associazione israeliana Tsad Kadima 
  Leggi la rassegna

Sorgente di vita, in onda questa sera, apre con un servizio dedicato al VI Congresso dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, con una breve illustrazione delle risoluzioni più importanti, dalla riforma dello Statuto al ruolo dei rabbini, dall’impegno per la cultura alle politiche giovanili attraverso le voci di alcuni protagonisti. Segue un pezzo sulla vita, il mondo e le opere di Carlo Michelstaedter, filosofo, poeta, scrittore nato a Gorizia e morto suicida a soli 23 anni. L’intensa, “fiammeggiante” esistenza di uno studente di 100 anni fa, raccontata dal Professor  Sergio Campailla.  
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