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1 dicembre 2017 - 13 Kislev 5778
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Società

L’Italia e i simboli del fascismo 

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Alla fine degli Anni Trenta, mentre Roma si preparava ad ospitare l’Esposizione Universale del 1942, Benito Mussolini sovrintendeva alla costruzione di un nuovo quartiere, nella parte sudovest della città, chiamato Esposizione Universale Roma, che sarebbe stato il simbolo della rinnovata grandezza imperiale dell’Italia. La punta di diamante era il Palazzo della Civiltà Italiana, un edificio elegante e maestoso a pianta rettangolare, con facciata ad archi e sculture in stile neoclassico lungo tutto il perimetro del pianoterra. Alla fine, l’Esposizione fu annullata a causa della guerra, ma il palazzo, oggi noto come Colosseo Quadrato, è ancora al suo posto e sulla sua facciata si leggono le parole del discorso del 1935 in cui Mussolini, annunciando l’invasione dell’Etiopia, descriveva gli italiani come “un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigratori”. In seguito all’invasione e alla sanguinosa occupazione, il governo italiano sarebbe poi stato accusato di crimini di guerra. Eppure il palazzo, lascito di un tremendo passato di aggressioni, è celebrato come icona del modernismo italiano. Nel 2004, lo Stato lo ha definito un sito di “interesse culturale”, nel 2010 è stato parzialmente restaurato e, cinque anni dopo, la casa di moda Fendi vi ha trasferito la propria sede internazionale.

Ruth Ben-Ghiat, New York University

Il testo è stato originariamente pubblicato sul New Yorker.
Traduzione di Federica Alabiso, studentessa della Scuola Superiore Interpreti e Traduttori dell’Università di Trieste, tirocinante presso la redazione giornalistica dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.

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MACHSHEVET ISRAEL

L’impatto di Rudolf Otto sul pensiero del '900

img headerCento anni fa esatti, nel 1917, il pastore luterano e teologo tedesco Rudolf Otto pubblicava un libro di filosofia della religione dal titolo Das Heilige, tradotto in italiano come Il sacro già nel 1926 da Ernesto Buonaiuti. Sottotitolo: “L’irrazionale nell’idea del divino e il suo rapporto con il razionale”. Da allora ebbe numerose ristampe, con diversi editori e curatori. Era un tentativo di sottrarre il ‘fenomeno religioso’ all’abbraccio soffocante del razionalismo (tedesco) che annullava lo specifico dell’esperienza religiosa nell’universale dell’etica. Ancora di salvataggio, per Otto, era il “sentimento di creaturalità” elaborato da Schleiermacher, che servì da trampolino per l’esplorazione dell’idea del sacro come “mysterium fascinans et tremendum”. Citò ampiamente il Tanakh, la liturgia di Kippur e alcuni pijjutim. Da quel momento, la successiva filosofia della religione non fece più a meno di questo testo. Anche il pensiero ebraico ne fu profondamento influenzato. Solo un altro pensatore cristiano ebbe un impatto più profondo di Otto, e fu Kierkegaard (quando venne tradotto dal danese in inglese).
Le idee di sacro e di esperienza religiosa nell’interpretazione di Rudolf Otto è ben presente nelle analisi fenomenologiche di Rav Joseph B. Soloveitchik, in particolare nel testo La solitudine dell’uomo di fede (edito in italiano da Belforte nel 2016). Ad Otto in particolare attribuisco un’idea di Soloveitchik, con la quale non sono d’accordo, e cioè che l’esperienza di fede sia sostanzialmente “intraducibile” in un linguaggio o in un codice linguistico-culturale diverso da quello specifico in cui quell’esperenza è stata fatta..

Massimo Giuliani, docente al Diploma Studi Ebraici, UCEI

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Orizzonti   

I nostri silenzi sui perseguitati di «serie B»   

Anche se il Papa non ha fatto nomi in Myanmar per ragioni diplomatiche, il popolo dei musulmani Rohingya si è riconosciuto nell'allusione papale all'«etnia» da rispettare, massacrata nella Birmania del Nobel San Suu Kit. Di solito il destino dei Rohingya è il silenzio assoluto, con qualche blanda, timida dichiarazione dell'Onu, sulle stragi subite, sul villaggi devastati, sulle esecuzioni capitali a centinaia, sulla pulizia etnica che sta costringendo 600 mila esseri umani, compresi i bambini e gli anziani, a una fuga spaventosa verso il Bangladesh. I Rohingya sono i capofila dei profughi di serie B di cui in Occidente nessuno si cura. Sono i più sfortunati tra gli sfortunati, perché non una lacrima viene versata per loro. Sono le vittime di orribili massacri ma anche dell'indifferenza delle democrazie che esprimono solidarietà a singhiozzo, secondo le convenienze, paladine dei diritti umani a intermittenza. Uno spettacolo indecente di ipocrisia e di retorica magniloquente.

Pierluigi Battista, Correre della Sera,
29 novembre 2017


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società 

I libri di testo islamici
sono un problema inglese    

Libri che insegnano che i mariti hanno il diritto di picchiare le mogli, che le donne sono inferiori e che non devono nutrire particolari ambizioni: è quanto gli ispettori scolastici hanno rinvenuto in diverse scuole islamiche inglesi. Suscitando non poche polemiche. In Inghilterra esistono 177 scuole musulmane, diverse delle quali finanziate dallo Stato: e mentre molte sono considerate di buon livello, in alcune si constata che si inculcano valori in contrasto con quelli britannici. Già di recente gli ispettori governativi avevano criticato l'imposizione del velo, praticata in certe scuole musulmane, alle bimbe delle elementari (di norma il velo non dovrebbe essere indossato prima della pubertà).








Luigi Ippolito, Correre della Sera, 29 novembre 2017

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Shir shishi - una poesia per erev shabbat

I bambini di Teheran

img headerCon l'occupazione tedesca della Polonia nell'autunno 1939, circa 300mila polacchi e tra loro anche molti ebrei, fuggirono verso L'Unione Sovietica. Una parte si diresse in Siberia, come mia mamma, mentre altri si sparpagliarono nei territori uzbechi alla ricerca di salvezza. Nella disperazione molti genitori ebrei affidarono i figli agli orfanotrofi gestiti dai profughi polacchi, scongiurando i bambini di non rivelare la loro identità. Nel 1943, dopo un accordo tra i politici sovietici e la leadership polacca in esilio, l'esercito di Anders, partì per il Medioriente passando per Teheran. Con i soldati vi erano circa mille bambini ebrei, raccolti e accuditi nelle strutture collocate a Teheran e sostenute dalle comunità ebraiche in loco. Nel gennaio 1943, gli inglesi concedettero ai piccoli profughi i tanto desiderati visti e questi partirono accompagnati dalla signora Tzipora Shartok (moglie del futuro primo ministro, Moshe Shartok) e da altri rappresentanti dell'Agenzia Ebraica per un viaggio lungo e faticoso, che li portò fino all'Egitto, a Suez, a Gaza e finalmente in Terra di Israele. Lungo il tragitto percorso dal treno, erano a migliaia le persone commosse e in lacrime ad aspettare di salutare e accogliere i nuovi arrivati, il gruppo di bambini che includeva anche qualche centinaio di adulti.
Una storia miracolosa di fortuna e coraggio che verrà presentata in mostra dalla studiosa Farian Sabahi il 26 gennaio 2017 al MAO di Torino. Nathan Alterman, poeta e pensatore politico israeliano, ha dedicato a questo eroico salvataggio una lirica dal sapore amaro.

Davar, 1958

Anche dopo molti anni, a un’età di tutto rispetto,
anche dopo che il tempo avrà mutato il loro aspetto,
adornandoli di calvizie e barba canuta,
li chiameremo sempre “I bambini di Teheran”.

Si porteranno l’appellativo di Bambini fino alla vecchiaia
come un suono estraneo e strano. Ma il cielo è testimone
che anni addietro, nel tempo dell’infanzia,
il termine Bambini era per loro ancor più estraneo.

Perché nell’anziano a volte dimora un fanciullo,
ma “I bambini di Teheran” è un titolo che cela
il ricordo di un tempo cruento, persecutore e devastatore,
in cui ogni bambino lottava per la sua vita come un vecchio.


Sarah Kaminski, Università di Torino

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