Machshevet Israel – L’influenza di Rudolf Otto sul pensiero ebraico del Novecento

massimo giulianiCento anni fa esatti, nel 1917, il pastore luterano e teologo tedesco Rudolf Otto pubblicava un libro di filosofia della religione dal titolo Das Heilige, tradotto in italiano come Il sacro già nel 1926 da Ernesto Buonaiuti. Sottotitolo: “L’irrazionale nell’idea del divino e il suo rapporto con il razionale”. Da allora ebbe numerose ristampe, con diversi editori e curatori. Era un tentativo di sottrarre il ‘fenomeno religioso’ all’abbraccio soffocante del razionalismo (tedesco) che annullava lo specifico dell’esperienza religiosa nell’universale dell’etica. Ancora di salvataggio, per Otto, era il “sentimento di creaturalità” elaborato da Schleiermacher, che servì da trampolino per l’esplorazione dell’idea del sacro come “mysterium fascinans et tremendum”. Citò ampiamente il Tanakh, la liturgia di Kippur e alcuni pijjutim. Da quel momento, la successiva filosofia della religione non fece più a meno di questo testo. Anche il pensiero ebraico ne fu profondamento influenzato. Solo un altro pensatore cristiano ebbe un impatto più profondo di Otto, e fu Kierkegaard (quando venne tradotto dal danese in inglese).
Le idee di sacro e di esperienza religiosa nell’interpretazione di Rudolf Otto è ben presente nelle analisi fenomenologiche di Rav Joseph B. Soloveitchik, in particolare nel testo La solitudine dell’uomo di fede (edito in italiano da Belforte nel 2016). Ad Otto in particolare attribuisco un’idea di Soloveitchik, con la quale non sono d’accordo, e cioè che l’esperienza di fede sia sostanzialmente “intraducibile” in un linguaggio o in un codice linguistico-culturale diverso da quello specifico in cui quell’esperenza è stata fatta. Scrive Otto che il sacro racchiude in se stesso “un momento assolutamente specifico, che si sottrae al razionale e che si configura come un àrreton, un ineffabile, nella misura in cui è totalmente inaccessibile alla comprensione concettuale” (Il sacro, edizione della Morcelliana 2011, p.31). Nel testo La solitudine dell’uomo di fede, scritto in inglese nel 1965, il Rav a sua volta afferma che l’esperienza di fede “elude l’analisi cognitiva attraverso il logos, dato che non si presta del tutto all’atto della traduzione culturale. Semplicemente non vi sono categorie cognitive attraverso le quali possa essere sillabato e scandito l’impegno totale e totalizzante dell’uomo di fede. (…) L’incapacità di tradurre l’esperienza di fede nella sua interezza è dovuta non alla fragilità bensì all’enormità di tale esperienza. Se una traduzione onnicomprensiva del grande mistero della rivelazione e del suo kerygma fosse possibile, l’unicità dell’esperienza di fede e i suoi insiti doveri andrebbero perduti”.
Perché non sono d’accordo? Perché penso che questa idea del Rav entri in contraddizione con la sua convinzione, ribadita in molti suoi scritti, che la rivelazione si condensa nella Legge e dunque nell’halakhà, la quale “ha un’attitudine essoterica che è democratica nella sue fondamenta”, dato che “la centralità dell’elemento normativo della profezia [ossia della rivelazione come Torah] rende possibile la democratizzazione del dialogo tra l’essere umano e Dio”. Mi è difficile pensare che l’idea della qedushah e l’esperienza di fede ebraica non siano traducibili e dunque comprensibili erga omnes. Recepisco a questo livello l’insegnamento di R. Ishma’el: la Torah parla la lingua degli uomini, ossia è strutturalmente comprensibile a tutti. Occorre solo trovare il medium linguistico adatto per la sua traduzione e semmai aiutare l’interlocutore a superare i pregiudizi e le precomprensioni (ideologiche, in questo caso teologiche) che ne ostacolano la corretta intellezione.

Massimo Giuliani, docente al Diploma Studi Ebraici, UCEI