memoria
"Sono stato profugo anch’io. E non dimentico"
Sono
stato profugo anch’io, nel mio piccolo, fatto non raro per “quelli
dalla dura cervice”. Habiru vorrebbe dire, nell’antica lingua egizia,
“straniero”. Sono stato profugo in Svizzera nel 1939. Ho visto le aspre
montagne della Confederatio Helvetica, già innevate a settembre, ma non
arrancavo a piedi lungo gli scoscesi pendii, le guardavo appiccicato al
finestrino del treno. Arrivato a Basilea, per alcune settimane ebbi
modo di imparare qualche frase di tedesco, e già quando stavo
mescolandolo con l’italiano natio, venni confusamente a sapere che non
sarebbe stata la mia lingua perché il papà, come tutti sanno, non fu
accettato come insegnante al Conservatorio. La Confederatio non ci
voleva, perché avevano già troppe grane da sbrigare con i profughi
laceri, stanchi e disperati, quelli che venivano dall’Est. La mamma, il
papà, con me e il fratellino vestiti con gli abitini migliori, tutti e
quattro “veramente spiaciuti”, andammo a trovare il Rabbino Capo di
Basilea che, nel mio ricordo, è Sigmund Freud, ma un Sigmund
tenerissimo che offerse a noi bambini squisite caramelle, mentre
spiegava la serie pressoché infinita di motivi per i quali la Comunità
non ci poteva prendere in carico: “Dovete convincervi che i profughi
dall’Est correrebbero tutti in Italia, dalla quale voi invece cercate
di fuggire”.
Aldo Zargani, scrittore
Pagine Ebraiche, marzo 2018
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