Roberto
Della Rocca,
rabbino
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Stasera
e domani, settimo e ultimo giorno di Sukkòth, è Hoshanah Rabbah,
ricorrenza conosciuta anche come Yom haAravah, giorno del salice,
perché al termine della preghiera del mattino si prendono dei rametti
di salice e si sbattono a terra per cinque volte. L’aravah, il salice,
quella pianta che cresce presso i fiumi, simboleggia quegli ebrei che
non hanno né Torah, né buone azioni e che, solo se mescolati e
integrati nel mazzetto, con le altre tre piante odorose o che danno
frutti, possono modificarsi ed elevarsi. È questo il senso del tanto
richiamato concetto di agudà achat, di essere un unico “agglomerato”,
per il quale chi possiede più odore e più sapore non deve tenerseli
soltanto per sé, ma deve responsabilmente preoccuparsi di contagiare i
meno equipaggiati.
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Dario
Calimani,
anglista
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Di
fronte alla brutalità dell’Isis, al pericolo epidemico dell’ebola e al
tunnel senza luce della crisi economica ogni altra episodica notizia
che riguardi singoli individui ci appare di minimo rilievo. Ma non
riesco a togliermi dalla mente la violenza fatta a Napoli a un
ragazzino di quattordici anni con un tubo di aria compressa. Non si
riesce a non chiedersi a quali insegnamenti e a quali principi di vita
il violentatore sia stato formato, in famiglia, a scuola, in società.
Si immaginano, naturalmente, le possibili risposte, ma dobbiamo anche
riconoscere che, differenze sociali e culturali a parte, la società che
ospita tanta brutalità e ignoranza è la nostra, per quanto distante ci
illudiamo che sia.
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Stato palestinese,
Londra dice sì
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Suscita
perplessità la decisione del Parlamento inglese che ieri ha votato a
favore della mozione che riconosce lo Stato della Palestina: 274 i
favorevoli e 12 i contrari, il premier David Cameron si è astenuto. Ad
annunciarlo, tra le diverse testate, la Repubblica: “La decisione non
ha conseguenze sulla politica del governo britannico, che non cambia,
continuando a sostenere il processo di pace fra Israele e l’Autorità
Palestinese con l’obiettivo della creazione concordata fra le due parti
di uno stato indipendente per i palestinesi”, il passo però, evidenzia
il quotidiano, ha un fortissimo valore simbolico.
Nell’edizione romana del Corriere della Sera, Eraldo Affinati commenta
“la macabra farsa dell’altarino organizzato da Paolo Giachini sul ponte
di Sant’Angelo in onore di Erich Priebke, uno dei nazisti responsabili
del tragico eccidio nel quale vennero fucilate 335 persone”. Affinati
si chiede: “Mettiamoci nei panni di quei pochi che ancora possono
testimoniare quanto accadde alle Fosse Ardeatine il 24 marzo 1944.
Quali sensazioni avranno provato?” Questa, inoltre, è anche la
settimana nella quale si rievoca la drammatica deportazione degli ebrei
di Roma del 16 ottobre 1943: per “gettare luce sul passato che non
passa – scrive Affinati – è necessario portare all’attenzione
collettiva i destini individuali di quanti si contrapposero alla
barbarie nazista”. Tra questi rievoca il coraggio del partigiano
Orlando Posti: “Fu torturato a via Tasso e morì alle Fosse Ardeatine a
diciotto anni. Un personaggio come lui, nel suo entusiasmo
partecipativo, può colpire l’immaginazione dei giovani più di mille
discorsi ufficiali”.
“Museo della Shoah: dal Comune il via all’apertura delle buste”, titola
il Corriere della Sera Roma. Scrive Alessandro Capponi: “Non è ancora
ufficiale, perché si attende il cda della Fondazione (domani) ma dopo
la scelta del Consiglio della Comunità ebraica di chiedere al
presidente Pacifici di ritirare le dimissioni, il via libera appare
molto probabile. Se dalla Fondazione arrivasse il sì, già ‘il giorno
seguente’ il Campidoglio convocherebbe la riunione per aprire le buste
della gara per la costruzione del Museo a Villa Torlonia”.
Nell’articolo si dà forza all’ipotesi della posa della prima pietra per
il prossimo 27 gennaio, Giorno della Memoria in cui cadrà il 70esimo
anniversario della liberazione di Auschwitz-Birkenau, e si ripercorrono
le vicende degli ultimi mesi: “Pacifici ha, fin da questa estate,
puntato a una soluzione diversa per il Museo della Shoah. Il desiderio
di dare soddisfazione alle richieste dei sopravvissuti all’Olocausto
(Piero Terracina) di riuscire a vedere il Museo romano ha fatto da
propulsore: prima si è pensato a una destinazione all’Eur, poi il
Campidoglio ha spiazzato ogni esitazione con una proposta forse non
rifiutabile, la sede temporanea nella Casina dei Vallati, al Portico
d’Ottavia, e quella definitiva dov’era prevista, a Villa Torlonia.
Trasferire il museo, infatti, avrebbe quasi certamente fatto correre al
Campidoglio (almeno secondo il parere dell’Avvocatura) il rischio di
incorrere nel ‘danno erariale’, visto soprattutto che l’esproprio del
terreno era stato ufficialmente motivato proprio con la costruzione del
Museo”. La situazione, sottolinea Capponi, sembra ora giunta
all’epilogo: “Il Consiglio della comunità ebraica romana domenica a
tarda sera ha votato una delibera per esprimere ‘apprezzamento per la
proposta operativa del sindaco di Roma, Ignazio Marino, per la
realizzazione del Museo della Shoah e gratitudine perla disponibilità
della Casina dei Vallati quale sede della Fondazione’ (…) ha inoltre ha
invitato uno dei progettisti, Luca Zevi, a una riunione pubblica nella
quale spiegare ogni aspetto del nuovo Museo che sorgerà a Villa
Torlonia”.
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iSRAELE
Londra e quel voto scomodo
Iniziativa
prematura che mette in difficoltà le trattative per raggiungere la
pace. Da Roma, dove ha incontrato il ministro degli Esteri italiano
Federica Mogherini, Avigdor Lieberman, capo della diplomazia
israeliana, esprime il suo disappunto per la decisione del parlamento
britannico di approvare una mozione in cui si chiede al governo di
Londra di riconoscere la Palestina come stato. Un documento non
vincolante ma votato dall'ampia maggioranza dei parlamentari presenti
ieri alla Camera dei Comuni: 274 sì contro 12 no, su 650 membri totali.
E ora Israele, che ha più volte ribadito come ogni iniziativa
unilaterale sia di inciampo al cammino verso la pace, valuta quali
possano essere gli effetti della decisione britannica. Il voto di
Westmister ha valore simbolico, non potendo condizionare la politica
del governo guidato da David Cameron, il quale si è astenuto dal voto e
ha ribadito come nulla cambi nei rapporti tra Regno Unito e Israele.
Nonostante le rassicurazioni di Cameron, nelle file della diplomazia
israeliana trapela una certa inquietudine. “Credo sia giusto essere
preoccupati per il significato che questa mozione ha in termini
dell'orientamento dell'opinione pubblica”, ha dichiarato alla radio
israeliana l'ambasciatore di Israele nel Regno Unito Matthew Gould.
Ancora più dure le considerazioni dell'ex ambasciatore israeliano negli
Usa Michael Oren, preoccupato per l'allargarsi dell'appoggio alle
iniziative diplomatiche palestinesi. E intanto anche in Italia il
Movimento Cinque Stelle si propone di seguire le orme britanniche e
proporre una mozione in Parlamento perché il governo si impegni a
“riconoscere formalmente o Stato della Palestina nei confini del 1967”.
Nelle settimane scorse, un'iniziativa di questo tipo è arrivata
dall'esecutivo svedese.
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QUI LONDRA
Shomrim, combattere il crimine con la kippah sulla testa
Chi
ha visto quello strano film diretto da John Turturro con la
partecipazione straordinaria di Woody Allen, dal titolo “Gigolò per
caso” sicuramente avrà notato un personaggio particolare: Dovi.
Interpretato da Liev Schreiber, indossava una divisa da poliziotto ma
in testa portava kippah, ai lati del viso aveva le peoth e combatteva i
crimini di quartiere. Abbandonando le fantasmagorie del cinematografo,
qualcosa di simile sta avvenendo a Londra: gli Shomrim, guardie
ultraortodosse, hanno mandato in visibilio la stampa di mezzo mondo. E,
nonostante le iniziali riserve della polizia ufficiale e dei passanti,
il gruppo si è rivelato una risorsa straordinaria per il paese,
diventando un modello esemplare di collaborazione con la comunità
musulmana. L’iniziativa ha colpito perfino il segretario di Stato
statunitense John Kerry che l’ha definita: “Una prova di coraggio
riguardevole”. Il portale AFP ripercorre gli inizi: “Era il 2008 quando
25 membri della comunità haredi di Stamford Hill hanno formato il
gruppo Shomrim (guardie) per contrastare il crescente crimine nel
quartiere e solo in un anno sono stati fondamentali per ben 197
arresti”. Dopo l’uccisione del soldato Lee Rigby da parte di
fondamentalisti islamici, l’odio xenofobo per la comunità musulmana è
cresciuto vertiginosamente, e, proprio in risposta a questo, i
poliziotti ultraortodossi si sono mobilitati nella difesa di moschee e
innocenti, evitando insurrezioni.
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Di cosa stiamo parlando |
Domenica
sera il Consiglio della Comunità ebraica di Roma si è riunito con un
ordine del giorno a dir poco abbondante, fortemente voluto dal
presidente Riccardo Pacifici. Tra i vari argomenti ha destato
curiosità, attenzione e preoccupazione quello relativo all’avvio della
procedura per l’uscita di Roma dall’Unione delle comunità ebraiche
(UCEI). Si tratta di un’ipotesi addirittura rivoluzionaria: la più
grande comunità italiana uscirebbe dall’istituzione nazionale
dell’ebraismo, i cui rapporti con lo Stato sono regolati dall’Intesa,
un accordo che ha rango di trattato internazionale. Noi ebrei romani
non avremmo più i soldi dell’otto per mille e, tecnicamente, cesseremmo
di essere ebrei per la Repubblica, senza contare che altre entità
giuridiche potrebbero nascere. L’argomento è troppo serio per piegarlo
a logiche di parte, e spero che questo articoletto non venga
strumentalizzato per “schiacciare” l’UCEI su questo o sull’altro
versante. Le consigliere UCEI della lista “Binah” sono intervenute per
prime su questa questione, sottolineando molti elementi che paiono
ragionevoli. Che ci fossero delle polemiche nei mesi scorsi, esplose
con le dimissioni di alcuni consiglieri romani, è cosa nota. Ma come si
è arrivati a un’ipotesi così dolorosa, forse poco percorribile sul
piano giuridico? Un tema tanto delicato merita una discussione
proficua, larga e depurata da logiche elettorali o mediatiche.
Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas
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Storie
- La libreria di Saba
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Forse
si è ancora in tempo per salvare la Libreria Antiquaria di Umberto
Saba, uno tra i più significativi “luoghi simbolo” dell’anima culturale
mitteleuropea di Trieste oltre che memoria storica del poeta. La
libreria, che nel 2012 è stata dichiarata “studio d’artista” dal
Ministero dei Beni Culturali, di recente ha ripreso l’attività dopo un
periodo di chiusura e di abbandono. Il sindaco Roberto Cosolini e la
presidente della Regione Deborah Serracchiani hanno affermato
all’unisono che “è un tesoro che merita di essere preservato e
valorizzato, a beneficio di Trieste e di tutta la cultura italiana” e a
breve Comune e Regione dovrebbero concordare un progetto comune per
tutelare il sito, catalogando i volumi e inserendolo nella rete
cittadina dei “punti focali” di rilievo turistico prioritario. Era il
1919, un anno dopo la fine della Grande Guerra, quando Umberto Saba,
alias Umberto Poli, acquistò la Libreria Antica e Moderna di Giuseppe
Maylaender, in via San Nicolò 30 a Trieste, grazie al lascito
ereditario ricevuto da un parente. Avrebbe voluto “buttare
nell’Adriatico tutti quei vecchi libri” e rivendere il locale ad un
prezzo maggiorato, ma invece rimase “incantato” dai volumi e quindi
decise di fare il libraio antiquario. In quell’”antro oscuro” Saba
produsse gran parte della sua opera poetica e, durante gli anni delle
leggi razziste e della persecuzione, fu per lui “un rifugio al riparo
degli altoparlanti” del regime fascista. La Libreria Antica e Moderna,
che il suo amico Nello Stock chiamava “la bottega dei miracoli”, gli
consentì infatti di avere una modesta ma dignitosa entrata economica e
di potersi dedicare liberamente alla poesia. Fu proprio con il marchio
editoriale della libreria che Saba nel 1921 pubblicò a sue spese Il
Canzoniere.
Mario Avagliano
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