orizzonti
Il campanello d’allarme
che dobbiamo ascoltare
A.
E. I. O. U. Ancona. Empoli. Italia. Otranto. Udine. Diceva ai tempi
asburgici un motto imperiale: Austria erit in orbe ultima, l'Austria
durerà sino alla fine del mondo, sarà l'ultimo impero a tramontare.
Oggi quell'orgoglioso aggettivo sembra cambiare di significato e
mettere pure l'Austria col suo aspirante pistolero attualmente
vittorioso fra gli ultimi della classe, seduti in fondo con le orecchie
d'asino. Certo, si può sperare che il ballottaggio bocci il leader e il
partito attualmente in testa, che usurpano e insozzano un glorioso nome
della politica, il sostantivo o l'aggettivo «liberale». La Germania che
abbiamo amata, diceva il titolo di un libretto in cui Croce, nutrito
della grande cultura tedesca, la distingueva, nel suo valore
universale, dalla rozza e sanguinaria barbarie del nazismo. Adesso
potremmo e dovremmo scrivere un'analoga dichiarazione d'amore,
“L'Austria che abbiamo amata”, e qualcuno l'ha già scritto. Del resto
ogni Paese, ogni cultura, è un Giano bifronte, con una faccia di
umanità e civiltà e un'altra di ottusa violenza e nessun popolo,
nessuna cultura possono dare lezioni agli altri. Indubbiamente c'è
stata — e c'è ancora, culturalmente — una grande Austria
sovranazionale, crogiolo pure drammatico ma fecondo di genti, di
lingue, di culture; culla e interprete di impareggiabile genialità
della complessità e delle trasformazioni che hanno mutato il mondo e le
visioni del mondo. Un'Austria plurinazionale — il cui sale era forse in
primo luogo la contraddittoria ma incredibilmente vitale simbiosi
culturale ebraico-tedesca — ammirata pure da chi l'ha combattuta, come
gli irredentisti triestini; l'Austria il cui imperatore si rivolgeva
«ai miei popoli».
Claudio Magris, Corriere della Sera
26 aprile 2016
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