
Elia Richetti,
rabbino
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Dal
racconto della Torah non è chiaro se la richiesta delle due tribù e
mezza, di non attraversare il Giordano e farsi assegnare i territori
appena conquistati, fosse frutto di un disinteresse in merito ai
destini del resto del popolo, o se fin da principio essi intendessero
fare ciò che Moshè ordinò loro, di aiutare il popolo a conquistare
Eretz Israel e solo dopo raggiungere le donne ed i figli ad est del
Giordano. Dalla reazione di Moshè, che li rimprovera aspramente,
sembrerebbe che la prima opzione sia la più probabile, ma se così fosse
non si capirebbe perché poi, di fatto, egli conceda loro quei territori.
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Sergio
Della Pergola,
Università
Ebraica
Di Gerusalemme
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Dunque,
secondo la maggior parte delle figure politiche e degli analisti di
primo piano, non è guerra di religione. Però è guerra. Ne testimoniano
i quotidiani atti di terrorismo compiuti invariabilmente da persone di
fede islamica, e le rappresaglie armate incluse le incursioni aeree
contro obiettivi gestiti da leader musulmani. Per chiarire, il
terrorismo opera con premeditazione contro membri non identificati
della società civile, a differenza del criminale che uccide con
premeditazione un’altra persone ben identificata, o del guidatore
criminale che uccide senza premeditazione un pedone non identificato.
La spiegazione fornita che la guerra in corso non può essere di
religione perché – il dato è esatto – le vittime dell’aggressione
islamica sono soprattutto musulmani, calza esattamente come
l’affermazione che i musulmani non possono essere antisemiti in quanto
essi stessi semiti – altro dato esatto. A volte poi si ha l’impressione
che la faglia interpretativa passi fra coloro che hanno letto il Corano
almeno una volta, e quelli che non hanno mai letto quel sacro Testo. Ma
al di là di questi cavilli, la definizione più accurata è probabilmente
che quella in corso è una guerra di identità. L’Islam, così come il
Cristianesimo e l’Ebraismo, compendia diverse identità.
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Le minacce dei jihadisti
a Israele, ebrei e Roma |
La
questione terrorismo tiene banco sui quotidiani italiani e i livelli di
guardi sono alti. In una Roma blindata (Repubblica Roma), gli esperti
stanno analizzando l’ultimo video pubblicato da un gruppo legato
all’Isis e infarcito di minacce a Roma, a Israele e agli ebrei. “I
nostri incontri si terranno a Roma e a Gerusalemme. Ebrei, aspettaci,
sarete puniti severamente e pagherete prossimamente un caro prezzo”, le
farneticazioni pronunciate nel video attribuito al gruppo jihadista
Wilayat Sina, che opera nel Sinai ed è affiliato all’Isis (Libero). A
prescindere dal video, a Roma sono state aumentate le misure di
sicurezza e sul tema, racconta il Messaggero, vi è stato anche un
incontro tra il prefetto e i vertici della Comunità ebraica capitolina.
Chi finanzia le moschee italiane. Dall’Arabia Saudita e Qatar, passando
per la Turchia fino al Marocco. Sono questi alcuni dei paesi che
finanziano la costruzione di mosche sul suolo italiano. A fare un
interessante quadro della situazione, un’inchiesta di Repubblica a
firma di Vladimiro Polchi, in cui si parla di ong legate a governi
stranieri che donano “decine di milioni di euro annui ai musulmani per
costruire luoghi di culto nel nostro Paese”.
Espulsioni antiterrorismo. Sono stati dodici i rimpatri decisi negli
ultimi mesi dalle autorità italiane per soggetti considerati pericolosi
perché influenzati dalla retorica jihadista e in grado di compiere
attentati. Il Corriere Milano spiega come le espulsioni di questi
elementi dall’Italia (ultimo il caso del pachistano che minacciava di
colpire Orio al Serio) siano diventate una vera e propria strategia
antiterrorismo. “L’espulsione – spiega il quotidiano – è un
provvedimento amministrativo. Ha meno garanzie (sono davvero poche)
rispetto ad un procedimento penale, ma permette di intervenire su casi
«sospetti» (comunque accertati) in maniera rapida: la persona viene
affidata alla polizia del Paese d’origine, non è solo accompagnata alla
frontiera”. Intanto in Italia ci si muove anche sul fronte della
cybersecurity con la realizzazione di una struttura nazionale per la
protezione della sicurezza online (Il Fatto).
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Rio 2016 – Il memoriale per le vittime israeliane
Monaco 72, la dignità restituita
I Giochi ricordano la strage
“Non
avrei mai creduto che sarebbe successo. E invece, dopo 44 anni, sono
felice di vivere questo momento storico”. È ancora con incredulità che
Ilana Romano, moglie del pesista Joseph Romano, uno degli undici
israeliani uccisi da un commando di terroristi palestinesi ai Giochi
Olimpici di Monaco 1972, commenta l’inaugurazione del Memoriale
dedicato al ricordo degli atleti assassinati. Il luogo diventerà da
quest’anno parte integrante di ogni futuro villaggio olimpico. Alla
cerimonia svoltasi ieri ha partecipato anche Ankie Spitzer, vedova
dell’allenatore di scherma Andre Spitzer, che con Romano ha combattuto
perché la tragedia di Monaco 72 fosse ufficialmente ricordata durante i
Giochi. Ma il Comitato Olimpico Internazionale ha sempre negato anche
un solo minuto di silenzio, fino all’istituzione del Memoriale,
fortemente voluta dal presidente del Comitato Thomas Bach
(nell'immagine mentre abbraccia le vedove Romano, a destra, e Spitzer),
il quale ha stabilito che ci sarà un ulteriore “momento di riflessione“
anche nel corso della cerimonia di chiusura. “Abbiamo scelto il
villaggio olimpico come luogo – le sue parole – perché simboleggia
l’unità della famiglia olimpica“. Ma a Rio si terrà anche un’altro
momento per la memoria delle vittime di Monaco, con una commemorazione
a loro dedicata il 14 di agosto al Municipio, organizzata dal Comitato
olimpico israeliano e dal Consolato israeliano nella città brasiliana,
in particolare per volontà di Carlos Arthur Nuzman, presidente del
comitato olimpico brasiliano nonché membro della comunità ebraica
locale.
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l'attacco palestinese alle olimpiadi tedesche
Monaco 72, terrorismo ai Giochi
Undici vite israeliane spezzate
Erano
le 4 del mattino del 5 settembre del 1972 quando otto membri di
Settembre nero, l'organizzazione terroristica affiliata
all'Organizzazione di liberazione palestinese (il cui leader era Yasser
Arafat) entrò nel villaggio olimpico di Monaco di Baviera, dove erano
in corso i Giochi. Indisturbato, il commando palestinese irruppe nella
palazzina destinata alla delegazione israeliana, uccidendo subito due
atleti israeliani (Moshe Weinberg, allenatore di lotta greco-romana, e
Yossef Romano, specializzato nel sollevamento pesi, che avevano tentato
di fermarli) e sequestrandone altri nove (i pesisti David Berger, Zeev
Friedman, l'arbitro di lotta greco-romana Yossef Gutfreund, il
lottatore Eliezer Halfin, l'allenatore di atletica leggera Amitzur
Shapira, l'allenatore di tiro a segno Kehat Shorr, il lottatore Mark
Slavin, l'allenatore di scherma André Spitzer e il giudice di
sollevamento pesi Yakov Springer).
Erano anni caratterizzati dal terrorismo dei fedayn, il miliziani
dell'Olp impegnati a colpire le strutture civili israeliane e dei paesi
considerati alleati dello Stato ebraico. Dirottamenti, attentati,
rapimenti erano diventati una prassi per i fedayn, che in questo modo
ottennero l'attenzione internazionale. Nel suo libro sulla storia
d'Israele, Claudio Vercelli sottolinea come in quel periodo, e grazie
anche al terribile attentato di Monaco, il terrorismo palestinese
riuscì ad affermarsi a livello internazionale come soggetto politico.
(Nell'immagine, un corteo fuori dal villaggio olimpico di Monaco di
Baviera, il 5 settembre 1972, per chiedere la sospensione dei Giochi
Olimpici dopo l'attacco di un commando palestinese alla delegazione
israeliana - AP Photo).
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jciak - il festival di locarno
Un ebreo, per esempio
L’ultima
volta che qualcuno lo vede è la mattina del 16 aprile 1942. Arthur
Bloch, nato a Berna, commerciante ebreo di bestiame, ha sessant’anni, è
alto un metro e settanta e all’orecchio sinistro porta un apparecchio
acustico. Troverà la morte nel villaggio svizzero di Payerne per mano
di un gruppo filonazista capitanato dal garagista Fernand Ischi che
sceglie così di onorare il compleanno del Führer, in un gesto di
esempio per la comunità. A lungo sottaciuta e tornata
all’attenzione pubblica grazie al libro di Jacques Chessex Un ebreo
come esempio (Fazi, 2001), la tragedia di Payerne approda sul grande
schermo in Un Juif pour l’exemple di Jacques Berger, protagonista un
grande Bruno Ganz, presentato ieri al festival di Locarno.
Il
film si apre su uno scenario idilliaco di prati e montagne. Siamo in
Svizzera, oasi di pace nell’Europa sconvolta dalla guerra. Non ci vuole
però molto perché scariche di fucile infrangano la quiete in una scena
che conosciamo fin troppo bene. Sono i militari a sparare, per
allontanare un gruppo di fuggiaschi che tentano di attraversare il
confine elvetico in cerca di rifugio. Prende il via da questo contrasto
la cupa storia di Payerne, che porta alla luce le tensioni e l’odio
che, dietro una superficie di serenità, in quegli anni abitano la
Svizzera.
Il film ci conduce in un villaggio da cartolina dove si allevano mucche
e confezionano formaggi. Dietro quest’apparenza da favola l’odio però
cresce implacabile. Dopo aver terrorizzato le famiglie ebree del posto,
il gruppo guidato da Ischi e indottrinato dal pastore Philippe
Lugrin si accanisce contro il mercante di bestiame Arthur Bloch,
bonario veterano della prima guerra mondiale, rispettato nella capitale
per il suo impegno civico. L’assassinio è feroce, come emergerà al
processo. Ma i nazisti svizzeri rivendicano, anche allora, la necessità
di lanciare un segnale.
Daniela Gross
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qui parigi - la mostra fotografica
Al 770, scatti d'ironia ebraica
Un
cappello nero spunta sul tetto di un’automobile, a coprire dall’alto la
testa del suo conducente. Altri tre fanno capolino sulla testa dei loro
proprietari, coperte però da tre fotografie del loro leader. Un altro
ancora, un po’ troppo grande, sta sulla testa di un bambino, a sua
volta sulle spalle di un fratellino. Sono le foto di Sacha Goldberger,
fotografo francese la cui mostra, intitolata “The 770: Lubavitchs of
Brooklyn”, è stata esposta nel municipio del quarto arrondissement di
Parigi. Vi si ritraggono i componenti della comunità Chabad-Lubavich di
Brooklyn, la cui sede è per l’appunto al 770 di Eastern Parkway, ma in
maniera un po’ insolita, con uno sguardo leggermente autoironico che
strappa un sorriso. E una reazione positiva è proprio quella che cerca
Goldberger, il quale lavorando a questa mostra aveva come obiettivo
quella di “realizzare un progetto che ritraesse gli ebrei in una buona
luce”, in un periodo in cui il clima all’interno della comunità ebraica
francese è teso a causa degli attentati e della crescita del
pregiudizio nel paese. Leggi
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Setirot - Errori da evitare |
E
a me rimane l’amara sensazione che con il mondo musulmano continuiamo a
commettere errori che potremmo evitare. È sacrosanto quanto
indispensabile l’appello a denunciare e isolare ambienti e personaggi
che all’interno della propria comunità incitano allo jihadismo, o si
sospetta che lo pratichino o che facciano proselitismo in tal senso. È
sacrosanta quanto necessaria la condanna pubblica e la presa di
distanza dagli assassini in nome di Allah. È un bellissimo gesto che i
credenti delle tre grandi fedi monoteistiche si uniscano in momenti di
raccoglimento di fronte a orribili gesti che spezzano centinaia di vite
e spargono dolore e strazio in mezzo mondo.
Stefano Jesurum, giornalista
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In ascolto - A Weimar |
“Una
comunità che apprende, non un centro commerciale”, è uno degli slogan
del Yiddish Summer Festival di Weimar, la deliziosa città di Goethe e
Schiller, con le sue piazzette, gli edifici in stile Bauhaus, i
castelli, i parchi e la splendida biblioteca della granduchessa Amalia.
Era il 1999, quando Alan Bern, attuale direttore artistico fu invitato
insieme al suo gruppo Brave Old World a tenere a Weimar un seminario di
musica yiddish e nel corso di questi anni grazie alla passione e
all’impegno di docenti, studenti e artisti ma anche sulla spinta
dell’entusiasmo crescente del pubblico, quel week end di studi si è
trasformato in un evento davvero unico che dura di fatto un mese
intero, anche se il focus è la cosiddetta Festival Week, che quest’anno
va dall’1 al 6 agosto.
Maria Teresa Milano
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Time
out - Solidarietà e ipocrisia |
Leggo
con stupore e amarezza un passionale elogio all’evento di domenica in
una chiesa di Roma in cui tre imam si sono recati a portare solidarietà
dopo il terribile attentato a Rouen. Stupore, perché sarebbe bastato
controllare e ci si sarebbe accorti che si è finito per fare pubblicità
a chi, come uno dei tre Imam, parole senza equivoci sul terrorismo non
le ha mai pronunciate.
Daniel Funaro
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La paura, il pericolo |
Per
quanto sia inquietante sapere che fino a pochi giorni fa trascorrevo le
mie giornate vicino al luogo dell'attentato a Londra lo è ancora di più
sapere che un posto apparentemente tranquillo, frequentato perlopiù da
studenti per i loro corsi estivi o gli esami di recupero, possa
improvvisamente trasformarsi nel luogo dell'Orrore.
Di nuovo, oggi la chiamano "follia". Lo trovo paradossale. La ricerca
affannosa della definizione del Male come qualcosa di insano è
pleonastico. Come se i crimini efferati compiuti nella storia
dell'umanità fossero mai stati frutto di un pensiero integro.
Eva Ruth Palmieri
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Le guerre civili
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Immaginiamoci
un futuro, anzi no, un presente nel quale le crisi mondiali abbiano
portato a un clima tale da scivolare in guerre civili. Caduta delle
valute e delle borse, crollo degli ecosistemi e dei valori condivisi,
povertà diffusa nel 99 per cento della popolazione, rivolte di massa e
repressioni spietate. Fra chi vorresti essere - Lettore di questo
esercizio che tra breve rivelerà su quale libro-attrezzo è stato messo
alla prova fino a cinque minuti fa - , fra il novantanove o fra l’uno
per cento?
Valerio Fiandra
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I bambini e il male |
Conversavo,
lo scorso Erev Shabbat, con un ragazzino decenne, esperienza sempre
interessante quando trattasi di figli altrui provenienti da modelli
educativi, esperienze e caratteri diversi da quelli cui sono avvezza.
Il bambino mi esortava a rispondergli in merito a terrorismo islamista,
kamikaze dei nostri giorni ed altre oscenità affini che negli ultimi
mesi stanno avvicinando sempre di più noi Europa al modus vivendi
israeliano, sebbene non lo vogliamo ammettere e non abbiamo quindi la
coerenza e il coraggio di reagire all'israeliana appunto, operando
capillarmente sulla prevenzione diffusa e sull'implementazione di
sistemi difensivi.
Sara Valentina Di Palma
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