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4 agosto  2016 -  29 Tamuz 5776
PAGINE EBRAICHE 24
ALEF / TAV DAVAR PILPUL

alef/tav


Elia Richetti,
rabbino
Dal racconto della Torah non è chiaro se la richiesta delle due tribù e mezza, di non attraversare il Giordano e farsi assegnare i territori appena conquistati, fosse frutto di un disinteresse in merito ai destini del resto del popolo, o se fin da principio essi intendessero fare ciò che Moshè ordinò loro, di aiutare il popolo a conquistare Eretz Israel e solo dopo raggiungere le donne ed i figli ad est del Giordano. Dalla reazione di Moshè, che li rimprovera aspramente, sembrerebbe che la prima opzione sia la più probabile, ma se così fosse non si capirebbe perché poi, di fatto, egli conceda loro quei territori.
 
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Sergio
Della Pergola,
Università
Ebraica
Di Gerusalemme
Dunque, secondo la maggior parte delle figure politiche e degli analisti di primo piano, non è guerra di religione. Però è guerra. Ne testimoniano i quotidiani atti di terrorismo compiuti invariabilmente da persone di fede islamica, e le rappresaglie armate incluse le incursioni aeree contro obiettivi gestiti da leader musulmani. Per chiarire, il terrorismo opera con premeditazione contro membri non identificati della società civile, a differenza del criminale che uccide con premeditazione un’altra persone ben identificata, o del guidatore criminale che uccide senza premeditazione un pedone non identificato. La spiegazione fornita che la guerra in corso non può essere di religione perché – il dato è esatto – le vittime dell’aggressione islamica sono soprattutto musulmani, calza esattamente come l’affermazione che i musulmani non possono essere antisemiti in quanto essi stessi semiti – altro dato esatto. A volte poi si ha l’impressione che la faglia interpretativa passi fra coloro che hanno letto il Corano almeno una volta, e quelli che non hanno mai letto quel sacro Testo. Ma al di là di questi cavilli, la definizione più accurata è probabilmente che quella in corso è una guerra di identità. L’Islam, così come il Cristianesimo e l’Ebraismo, compendia diverse identità.
 
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Le minacce dei jihadisti
a Israele, ebrei e Roma
La questione terrorismo tiene banco sui quotidiani italiani e i livelli di guardi sono alti. In una Roma blindata (Repubblica Roma), gli esperti stanno analizzando l’ultimo video pubblicato da un gruppo legato all’Isis e infarcito di minacce a Roma, a Israele e agli ebrei. “I nostri incontri si terranno a Roma e a Gerusalemme. Ebrei, aspettaci, sarete puniti severamente e pagherete prossimamente un caro prezzo”, le farneticazioni pronunciate nel video attribuito al gruppo jihadista Wilayat Sina, che opera nel Sinai ed è affiliato all’Isis (Libero). A prescindere dal video, a Roma sono state aumentate le misure di sicurezza e sul tema, racconta il Messaggero, vi è stato anche un incontro tra il prefetto e i vertici della Comunità ebraica capitolina.

Chi finanzia le moschee italiane. Dall’Arabia Saudita e Qatar, passando per la Turchia fino al Marocco. Sono questi alcuni dei paesi che finanziano la costruzione di mosche sul suolo italiano. A fare un interessante quadro della situazione, un’inchiesta di Repubblica a firma di Vladimiro Polchi, in cui si parla di ong legate a governi stranieri che donano “decine di milioni di euro annui ai musulmani per costruire luoghi di culto nel nostro Paese”.

Espulsioni antiterrorismo. Sono stati dodici i rimpatri decisi negli ultimi mesi dalle autorità italiane per soggetti considerati pericolosi perché influenzati dalla retorica jihadista e in grado di compiere attentati. Il Corriere Milano spiega come le espulsioni di questi elementi dall’Italia (ultimo il caso del pachistano che minacciava di colpire Orio al Serio) siano diventate una vera e propria strategia antiterrorismo. “L’espulsione – spiega il quotidiano – è un provvedimento amministrativo. Ha meno garanzie (sono davvero poche) rispetto ad un procedimento penale, ma permette di intervenire su casi «sospetti» (comunque accertati) in maniera rapida: la persona viene affidata alla polizia del Paese d’origine, non è solo accompagnata alla frontiera”. Intanto in Italia ci si muove anche sul fronte della cybersecurity con la realizzazione di una struttura nazionale per la protezione della sicurezza online (Il Fatto).
 
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  davar
Rio 2016 – Il memoriale per le vittime israeliane
Monaco 72, la dignità restituita
I Giochi ricordano la strage

“Non avrei mai creduto che sarebbe successo. E invece, dopo 44 anni, sono felice di vivere questo momento storico”. È ancora con incredulità che Ilana Romano, moglie del pesista Joseph Romano, uno degli undici israeliani uccisi da un commando di terroristi palestinesi ai Giochi Olimpici di Monaco 1972, commenta l’inaugurazione del Memoriale dedicato al ricordo degli atleti assassinati. Il luogo diventerà da quest’anno parte integrante di ogni futuro villaggio olimpico. Alla cerimonia svoltasi ieri ha partecipato anche Ankie Spitzer, vedova dell’allenatore di scherma Andre Spitzer, che con Romano ha combattuto perché la tragedia di Monaco 72 fosse ufficialmente ricordata durante i Giochi. Ma il Comitato Olimpico Internazionale ha sempre negato anche un solo minuto di silenzio, fino all’istituzione del Memoriale, fortemente voluta dal presidente del Comitato Thomas Bach (nell'immagine mentre abbraccia le vedove Romano, a destra, e Spitzer), il quale ha stabilito che ci sarà un ulteriore “momento di riflessione“ anche nel corso della cerimonia di chiusura. “Abbiamo scelto il villaggio olimpico come luogo – le sue parole – perché simboleggia l’unità della famiglia olimpica“. Ma a Rio si terrà anche un’altro momento per la memoria delle vittime di Monaco, con una commemorazione a loro dedicata il 14 di agosto al Municipio, organizzata dal Comitato olimpico israeliano e dal Consolato israeliano nella città brasiliana, in particolare per volontà di Carlos Arthur Nuzman, presidente del comitato olimpico brasiliano nonché membro della comunità ebraica locale.
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l'attacco palestinese alle olimpiadi tedesche 
Monaco 72, terrorismo ai Giochi
Undici vite israeliane spezzate

Erano le 4 del mattino del 5 settembre del 1972 quando otto membri di Settembre nero, l'organizzazione terroristica affiliata all'Organizzazione di liberazione palestinese (il cui leader era Yasser Arafat) entrò nel villaggio olimpico di Monaco di Baviera, dove erano in corso i Giochi. Indisturbato, il commando palestinese irruppe nella palazzina destinata alla delegazione israeliana, uccidendo subito due atleti israeliani (Moshe Weinberg, allenatore di lotta greco-romana, e Yossef Romano, specializzato nel sollevamento pesi, che avevano tentato di fermarli) e sequestrandone altri nove (i pesisti David Berger, Zeev Friedman, l'arbitro di lotta greco-romana Yossef Gutfreund, il lottatore Eliezer Halfin, l'allenatore di atletica leggera Amitzur Shapira, l'allenatore di tiro a segno Kehat Shorr, il lottatore Mark Slavin, l'allenatore di scherma André Spitzer e il giudice di sollevamento pesi Yakov Springer).
Erano anni caratterizzati dal terrorismo dei fedayn, il miliziani dell'Olp impegnati a colpire le strutture civili israeliane e dei paesi considerati alleati dello Stato ebraico. Dirottamenti, attentati, rapimenti erano diventati una prassi per i fedayn, che in questo modo ottennero l'attenzione internazionale. Nel suo libro sulla storia d'Israele, Claudio Vercelli sottolinea come in quel periodo, e grazie anche al terribile attentato di Monaco, il terrorismo palestinese riuscì ad affermarsi a livello internazionale come soggetto politico.

(Nell'immagine, un corteo fuori dal villaggio olimpico di Monaco di Baviera, il 5 settembre 1972, per chiedere la sospensione dei Giochi Olimpici dopo l'attacco di un commando palestinese alla delegazione israeliana - AP Photo).
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jciak - il festival di locarno
Un ebreo, per esempio
L’ultima volta che qualcuno lo vede è la mattina del 16 aprile 1942. Arthur Bloch, nato a Berna, commerciante ebreo di bestiame, ha sessant’anni, è alto un metro e settanta e all’orecchio sinistro porta un apparecchio acustico. Troverà la morte nel villaggio svizzero di Payerne per mano di un gruppo filonazista capitanato dal garagista Fernand Ischi che sceglie così di onorare il compleanno del Führer, in un gesto di esempio per la comunità.  A lungo sottaciuta e tornata all’attenzione pubblica grazie al libro di Jacques Chessex Un ebreo come esempio (Fazi, 2001), la tragedia di Payerne approda sul grande schermo in Un Juif pour l’exemple di Jacques Berger, protagonista un grande Bruno Ganz, presentato ieri al festival di Locarno.
Il film si apre su uno scenario idilliaco di prati e montagne. Siamo in Svizzera, oasi di pace nell’Europa sconvolta dalla guerra. Non ci vuole però molto perché scariche di fucile infrangano la quiete in una scena che conosciamo fin troppo bene. Sono i militari a sparare, per allontanare un gruppo di fuggiaschi che tentano di attraversare il confine elvetico in cerca di rifugio. Prende il via da questo contrasto la cupa storia di Payerne, che porta alla luce le tensioni e l’odio che, dietro una superficie di serenità, in quegli anni abitano la Svizzera.
Il film ci conduce in un villaggio da cartolina dove si allevano mucche e confezionano formaggi. Dietro quest’apparenza da favola l’odio però cresce implacabile. Dopo aver terrorizzato le famiglie ebree del posto, il gruppo guidato  da Ischi e indottrinato dal pastore Philippe Lugrin si accanisce contro il mercante di bestiame Arthur Bloch, bonario veterano della prima guerra mondiale, rispettato nella capitale per il suo impegno civico. L’assassinio è feroce, come emergerà al processo. Ma i nazisti svizzeri rivendicano, anche allora, la necessità di lanciare un segnale.

Daniela Gross
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qui parigi - la mostra fotografica 
Al 770, scatti d'ironia ebraica
Un cappello nero spunta sul tetto di un’automobile, a coprire dall’alto la testa del suo conducente. Altri tre fanno capolino sulla testa dei loro proprietari, coperte però da tre fotografie del loro leader. Un altro ancora, un po’ troppo grande, sta sulla testa di un bambino, a sua volta sulle spalle di un fratellino. Sono le foto di Sacha Goldberger, fotografo francese la cui mostra, intitolata “The 770: Lubavitchs of Brooklyn”, è stata esposta nel municipio del quarto arrondissement di Parigi. Vi si ritraggono i componenti della comunità Chabad-Lubavich di Brooklyn, la cui sede è per l’appunto al 770 di Eastern Parkway, ma in maniera un po’ insolita, con uno sguardo leggermente autoironico che strappa un sorriso. E una reazione positiva è proprio quella che cerca Goldberger, il quale lavorando a questa mostra aveva come obiettivo quella di “realizzare un progetto che ritraesse gli ebrei in una buona luce”, in un periodo in cui il clima all’interno della comunità ebraica francese è teso a causa degli attentati e della crescita del pregiudizio nel paese.
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  pilpul
Setirot - Errori da evitare
E a me rimane l’amara sensazione che con il mondo musulmano continuiamo a commettere errori che potremmo evitare. È sacrosanto quanto indispensabile l’appello a denunciare e isolare ambienti e personaggi che all’interno della propria comunità incitano allo jihadismo, o si sospetta che lo pratichino o che facciano proselitismo in tal senso. È sacrosanta quanto necessaria la condanna pubblica e la presa di distanza dagli assassini in nome di Allah. È un bellissimo gesto che i credenti delle tre grandi fedi monoteistiche si uniscano in momenti di raccoglimento di fronte a orribili gesti che spezzano centinaia di vite e spargono dolore e strazio in mezzo mondo.

Stefano Jesurum, giornalista
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In ascolto - A Weimar
“Una comunità che apprende, non un centro commerciale”, è uno degli slogan del Yiddish Summer Festival di Weimar, la deliziosa città di Goethe e Schiller, con le sue piazzette, gli edifici in stile Bauhaus, i castelli, i parchi e la splendida biblioteca della granduchessa Amalia.
Era il 1999, quando Alan Bern, attuale direttore artistico fu invitato insieme al suo gruppo Brave Old World a tenere a Weimar un seminario di musica yiddish e nel corso di questi anni grazie alla passione e all’impegno di docenti, studenti e artisti ma anche sulla spinta dell’entusiasmo crescente del pubblico, quel week end di studi si è trasformato in un evento davvero unico che dura di fatto un mese intero, anche se il focus è la cosiddetta Festival Week, che quest’anno va dall’1 al 6 agosto
.

Maria Teresa Milano
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Time out - Solidarietà e ipocrisia
Leggo con stupore e amarezza un passionale elogio all’evento di domenica in una chiesa di Roma in cui tre imam si sono recati a portare solidarietà dopo il terribile attentato a Rouen. Stupore, perché sarebbe bastato controllare e ci si sarebbe accorti che si è finito per fare pubblicità a chi, come uno dei tre Imam, parole senza equivoci sul terrorismo non le ha mai pronunciate. 

Daniel Funaro
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La paura, il pericolo
Per quanto sia inquietante sapere che fino a pochi giorni fa trascorrevo le mie giornate vicino al luogo dell'attentato a Londra lo è ancora di più sapere che un posto apparentemente tranquillo, frequentato perlopiù da studenti per i loro corsi estivi o gli esami di recupero, possa improvvisamente trasformarsi nel luogo dell'Orrore.
Di nuovo, oggi la chiamano "follia". Lo trovo paradossale. La ricerca affannosa della definizione del Male come qualcosa di insano è pleonastico. Come se i crimini efferati compiuti nella storia dell'umanità fossero mai stati frutto di un pensiero integro. 


Eva Ruth Palmieri
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Le guerre civili
Immaginiamoci un futuro, anzi no, un presente nel quale le crisi mondiali abbiano portato a un clima tale da scivolare in guerre civili. Caduta delle valute e delle borse, crollo degli ecosistemi e dei valori condivisi, povertà diffusa nel 99 per cento della popolazione, rivolte di massa e repressioni spietate. Fra chi vorresti essere - Lettore di questo esercizio che tra breve rivelerà su quale libro-attrezzo è stato messo alla prova fino a cinque minuti fa - , fra il novantanove o fra l’uno per cento?

Valerio Fiandra
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I bambini e il male
Conversavo, lo scorso Erev Shabbat, con un ragazzino decenne, esperienza sempre interessante quando trattasi di figli altrui provenienti da modelli educativi, esperienze e caratteri diversi da quelli cui sono avvezza. Il bambino mi esortava a rispondergli in merito a terrorismo islamista, kamikaze dei nostri giorni ed altre oscenità affini che negli ultimi mesi stanno avvicinando sempre di più noi Europa al modus vivendi israeliano, sebbene non lo vogliamo ammettere e non abbiamo quindi la coerenza e il coraggio di reagire all'israeliana appunto, operando capillarmente sulla prevenzione diffusa e sull'implementazione di sistemi difensivi. 

Sara Valentina Di Palma
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