Elia Richetti,
rabbino
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Di
fronte alla stravolgente esperienza della teofania sul Sinai, il popolo
si rivolge a Moshè chiedendo che funga lui da intermediario con
HaQadòsh Barùkh Hu, perché è impossibile per esseri umani sopravvivere
all’esperienza dell’incontro con la voce divina.
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Sergio
Della Pergola,
Università
Ebraica
di Gerusalemme
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Chi
parla di Sionismo e della sua attuazione nello Stato di Israele,
dovrebbe rileggere il documento costitutivo approvato 120 anni fa al
Congresso di Basilea per iniziativa di Teodoro Herzl:
Il Sionismo intende stabilire un focolare per il popolo ebraico in
Palestina garantito dalla legge internazionale. Il Congresso prevede i
seguenti strumenti per ottenere questo obiettivo:
La promozione di mezzi adeguati per l’insediamento in Palestina di agricoltori, artigiani e industriali ebrei;
L’organizzazione e l’unione di tutto il popolo ebraico attraverso
apposite organizzazioni locali e internazionali, nel rispetto delle
leggi di ciascun paese;
Il rafforzamento e la promozione dell’identità e della consapevolezza nazionale ebraica;
L’attuazione di passi preparatorii tesi ad ottenere il consenso dei
governi, laddove necessario, per raggiungere gli obiettivi del Sionismo.
Questo è il Sionismo che, ricordiamolo a chi se ne è dimenticato, opera
nell'ambito della legge internazionale, nel rispetto delle leggi di
ciascun paese, e con il consenso dei governi. Atti che contraddicono
questi principi non possono essere considerati sionisti.
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Medio Oriente, Trump
cambia la linea |
“Trump
cambia la linea su Israele”, titola il Corriere. “Il presidente con
Netanyahu congela l’ipotesi dei due Stati”, scrive invece Repubblica.
La Stampa parla di “Svolta Trump”.
Come da programma, non è passato inosservato il vertice tra Donald
Trump e Benjamin Netanyahu a Washington. E in particolare le parole del
primo, che nel corso di una conferenza stampa ha affermato: “Per me va
bene sia la soluzione con due Stati o quella con uno Stato.
L’importante è che le due parti siano d’accordo”. Per il Corriere, con
queste parole, Trump ha demolito ufficialmente “almeno quarant’anni di
dottrina diplomatica sul Medio Oriente”.
Due noti intellettuali, l’israeliano Etgar Keret e l’americano Jonathan
Safran Foer, si esprimono in toni critici sull’asse Trump-Netanyahu.
Scrive Keret sul Corriere: “Non ho dubbi che grazie alla sua
spregiudicatezza Trump avrà raccolto molti successi nella vita privata.
Vorrei sperare che saprà trarre lezione dalla sanguinosa esperienza di
Israele e ammettere che, a differenza dell’approccio condiviso con
Netanyahu, ovvero empatia uguale debolezza, la capacità di vedere gli
altri e di accogliere le loro istanze, oltre a essere moralmente
giusta, rappresenta in realtà uno strumento pratico ed essenziale che
non dovrebbe mai mancare nella cassetta degli attrezzi di tutti i
leader”.
“Quella di Netanyahu – dice Safran Foer a Repubblica – è una strada
totalmente sbagliata, figlia di una visione triste e deprimente. Si
dovrebbero inseguire duri compromessi per la pace, invece si cercano
soluzioni apparentemente facili ma distruttive. Di questo passo,
Netanyahu metterà a repentaglio l’esistenza stessa di Israele”. Secondo
Safran Foer, che apertamente manifesta la propria insofferenza anche
nei confronti del nuovo inquilino della Casa Bianca, è fondamentale
“non cedere all’America che vuole Trump”.
Positiva invece la valutazione di Fiamma Nirenstein, che sul Giornale
scrive: “Le strette di mano, gli abbracci delle mogli, gli accenni
entusiastici a un futuro di successo per la pace forse non
rappresenteranno la soluzione dell’annosa questione
israelo-palestinese, ma segnano una grande svolta. Forse più importante
dei programmi, che il Medio Oriente costruisce spesso sulla sabbia, è
il fatto che finalmente, dopo Obama, gli Usa e Israele tornano i grandi
amici di sempre”.
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QUI ROMA - L'INIZIATIVA
"Accoglienza sempre possibile,
il Pitigliani ce lo insegna"
"Cosa
mi aspetto? Che se ne parli, che ci si confronti, che alcuni spunti
vengano ripresi e sviluppati. Anche perché non è detto che il nostro
lavoro finisca qua”.
Dirigente del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, Micaela Procaccia è curatrice del volume Una storia nel secolo breve
in cui si racconta la vicenda del Pitigliani, l’ex orfanotrofio della
Comunità ebraica romana oggi imprescindibile punto di riferimento della
stessa. Oltre 700 pagine di storie, aneddoti e testimonianze dedicate
ai 70 anni che vanno dal 1902 al 1972. Un lavoro collettivo di ricerca
che parte da lontano e che sarà al centro di una giornata davvero
speciale per l’istituto, atteso questa domenica da una maratona di
ricordi e di emozioni.
Appuntamento alle 17.30 per la presentazione del libro (che è
pubblicato da Giuntina e ha tra le sue anime anche Angelina Procaccia,
Sandra Terracina e Ambra Tedeschi), ma anche per una mostra fotografica
ad hoc e un brindisi.
Spiegano le autrici: “La storia che abbiamo raccontato si svolge
attraverso due guerre mondiali, una terribile persecuzione, un secondo
dopoguerra segnato da espulsioni e migrazioni. Eppure, nonostante che,
in una parte di questo periodo, i bambini in fuga e gli adulti che
avrebbero dovuto accoglierli fossero tutti in pericolo di vita, sempre
e comunque, nel bene e nel male, con tutti i limiti delle persone e
delle istituzioni, questi bambini hanno trovato asilo. Questo ci
ricorda che l’accoglienza è sempre possibile”. Per questo, sottolinea
Procaccia, è venuto naturale dedicare il libro a tutti i bambini “che
cercano oggi un rifugio”.
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qui milano
Safran Foer: "Il mio obiettivo
è scrivere libri autentici"
“Non
credo che gli scrittori abbiamo un compito. Devono avere un obiettivo
questo sì, il mio è scrivere qualcosa che sia autentico per me e per
gli altri. Se mi dovessi porre un compito mi limiterei e al contempo
fare un pericolosa generalizzazione, assumendo di essere più
intelligente del lettore a cui parlo”. Così in poche battute, sul palco
del Teatro dell'Arte della Triennale di Milano, Jonathan Safran Foer ha
accennato al suo modo di vedere la scrittura. Il suo Eccomi
(Guanda) è stato scelto da quasi trecento giornalisti del Corriere
della Sera come miglior libro del 2016 e lo scrittore, ebreo americano,
è venuto a Milano per ritirare il premio. Foer ha spiegato di non
credere nei romanzi dichiaratamente politici: “sono pochi romanzi
scritti con questo scopo (politico) ad essere rimasti nella storia.
Sono quelli che evocano empatia, che innescano processi di cambiamento
lenti ad avere un impatto, sono loro che diventano vere opere d'arte”.
Critico nei confronti dell'attuale presidente Usa, lo scrittore ha poi
affermato la necessità di riconoscere e fare la differenza tra le
diverse identità. E di identità ha parlato guardando a se stesso,
sottolineando che a lungo il pubblico e la critica ha guardato a lui
come lo scrittore “giovane”, e “ora che sto per compiere quarant'anni
quella definizione non vale più”.
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jciak
Il giovane Karl Marx
Diciamolo
subito, nessuno ha gridato al miracolo. Le Jeune Karl Marx era uno dei
film più attesi al Festival di Berlino. Il tema, la giovinezza di Karl
Marx e il suo incontro con Engels, era intrigante come il periodo
storico in questione. E la regia di Raoul Peck, fresco della
candidatura all’Oscar per I Am Not Your Negro (2016), documentario
basato su un testo di James Baldwin e dedicato alla storia degli
scontri razziali negli Stati Uniti, lasciava presagire un film capace
di andare al di là delle solite biografie romanzate.
Il lavoro ha invece diviso la critica. Troppo cerebrale per alcuni
(Hollywood Reporter l’ha paragonato alle “note per un corso
universitario sulla storia del XIX secolo”, solo in versione grande
schermo), un po’ piatto per altri, Le Jeune Karl Marx è in ogni caso un
film da vedere se amate la storia, le idee, la politica.
Il film esce dai luoghi comuni dei biopic e mescola vita privata,
riflessione filosofica e scenari storico politici. La scena di apertura
ci porta direttamente nel cuore della questione, quello che è il vero
soggetto di Le Jeune Marx, la nascita della dottrina marxista. Vediamo
un gruppo di miseri contadini che raccolgono i rami caduti a terra
nella foresta assaliti dalla polizia a cavallo: anche quella povera
raccolta è considerata un furto.
Daniela Gross
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Setirot - Impunità e oblio |
Mi
capita di rileggere il testo del discorso che Gérard Malkassian,
filosofo francese di origine armena, ha tenuto a metà gennaio
nell’ambito dell’interessante ciclo di incontri “La crisi dell’Europa e
i Giusti del nostro tempo” organizzato da Gariwo al Teatro Parenti di
Milano. Alcune osservazioni di Malkassian colpiscono profondamente. Ad
esempio quando sottolinea, con spirito evidentemente rivolto
all’attualità, quanto l’impunità e l’oblio di un crimine mostruoso
possano avere effetti tragici al di là del crimine stesso. Parla,
ovviamente, del genocidio armeno e ricorda come il silenzio calato su
di esso dopo il Trattato di Losanna del 1923 fu uno dei fattori che
incoraggiò i nazisti a mettere in atto e a perpetrare la Shoah.
Dimenticare i genocidi incoraggia a ripeterli.
Stefano Jesurum, giornalista
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In ascolto - Rachel Bluwstein |
Questa
settimana ho visto l’invasione dei cuori, appesi alle vetrine e agli
zaini degli studenti, tra gli alberelli e i fiori dei vivai e perfino
disegnati sulla schiuma del cappuccino la mattina e mi è tornata in
mente una canzone d’amore molto bella, densa di nostalgia e priva di
retorica.
Si intitola Shai, in ebraico Dono e fu scritta nel 1930 dalla grande
poetessa Rachel Bluwstein, nata in Russia nel 1890 ed emigrata nel 1909
insieme alla sorella Shoshana in Eretz Israel. È studiando agricoltura
che la giovane scrittrice incontra i grandi nomi del sionismo, tra cui
Zalman Rubashov, futuro presidente Zalman Shazar, di cui si innamora.
Maria Teresa Milano
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Time
out - Formule alternative |
Incomprensibile
la reazione di alcuni commentatori all’incontro tra Trump e Netanyahu.
La dichiarazione del presidente americano è ciò che di più ragionevole
e importante potesse essere detta. Prima delle formule, tanto care a
intellettuali e politici della vecchia scuola, ricordiamoci qual è il
vero obiettivo: la pace.
Daniel Funaro
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Majorana e Nietzsche nei libri
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“Due
esempi di Economia della Scrittura” così potrei intitolare l’esercizio
con doppio salto vitale che provo a eseguire oggi, a proposito di due
libri di poche pagine e molto contenuto, scritti con esemplare Cura
della Casa della Scrittura: (‘Economia’ viene infatti dal greco
οικονομία, che vuol dire ‘Cura della Casa’ – e se ridete amaro, vi
capisco).
Dalla sera del 25 marzo del 1938, Ettore Majorana scompare. Il più
promettente giovane fisico italiano – Enrico Fermi lo considerava un
genio – fa letteralmente perdere le sue tracce, o ancor meglio, le
confonde, aprendo così – suo malgrado – il Caso che porta il suo
cognome. Suicidio, fuga, entrata in monastero ? Sono state avanzate
molte ipotesi, e nessuna provata. Come scrive Giorgio Agamben, “…la
scomparsa di Majorana è altrettanto certa quanto improbabile (nel senso
letterale del termine: essa non può essere in alcun modo provata e
accertata sul piano dei fatti)”. Sul perché si sono esercitati in
molti, e non vanamente, ma finora solo Leonardo Sciascia – nel suo
libro del 1975 – era riuscito a configurare una tesi che numerosi
indizi, e la capacità letteraria del Siciliano, hanno saputo
argomentare.
Valerio Fiandra
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Vita da zoroastriani
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Prendiamo
un pomeriggio domenicale di metà inverno, ed un viaggio in macchina
verso la propria Keillah dove, nonostante la distanza, torniamo
volentieri appena possibile, in questo caso per il Seder di Tu BiShvat.
La distanza permette di conversare tranquilli, senza doversi limitare
alle frettolose comunicazioni di servizio tipiche dei giorni feriali.
Si parla, tra le altre cose, di comuni amici che vedremo tra poco. Mi
viene fatto notare che hanno nomi classici non ebraici, per la
precisione uno macedone e l'altro persiano.
Sara Valentina Di Palma
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