Jonathan Sacks, rabbino | Il
nazionalismo è una questione di potere. Il patriottismo parla invece la
lingua dell'orgoglio. Possiamo essere patriottici senza essere
nazionalisti.
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David
Bidussa,
storico sociale
delle idee | Abramo
finì la sua vita e morì in vecchiaia avanzata e si riunì alla sua
gente. Isacco e Ismaele, suoi figli, lo seppellirono nella grotta di
Machpelà…” (Gn, 25.8-9).
Il futuro è possibile se nel passato si trova un atto condiviso che testimoni di una volontà.
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I Comuni e i nostalgici
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No
a mafie e fascisti era lo slogan della manifestazione di ieri a Ostia,
dove un migliaio di persone hanno sfilato per rispondere al successo
elettorale dei neofascisti di CasaPound e alla violenza del clan degli
Spada. A sfilare al corteo, anche il sindaco di Roma Virginia Raggi che
però sceglie di non farlo con la fascia tricolore al collo
(Repubblica). La collega a Cinque stelle Giuliana Di Pillo proprio a
Ostia la prossima settimana sfiderà al ballottaggio Monica Picca di
Fratelli d’Italia per decidere chi guiderà la città dove i neofascisti
di CasaPound hanno ottenuto un preoccupante successo. E contro i
nostalgici intanto si mobilitano altri Comuni italiani, racconta
Repubblica, che parla di amministrazioni che “corrono ai ripari
mettendo i primi paletti: delibere ad hoc per vietare spazi a chi fa
del nostalgismo fascista la propria bandiera; modifiche ai regolamenti
per togliere agibilità a quei gruppi che predicano l’intolleranza verso
gli immigrati, le minoranze etniche, sessuali, religiose”.
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pagine ebraiche novembre 2017 - grandangolo Quell'immagine ritoccata Simone
Somekh nel suo primo romanzo (Grandangolo, pubblicato da Giuntina)
racconta una storia che vuole mostrare come per crescere sia necessario
avere il coraggio di cambiare, soprattutto se si è nati in una comunità
haredì. Ezra Kramer, il protagonista, ha una grande passione per la
fotografia e non vuole ignorare il richiamo di un mondo che è
vicinissimo e lontanissimo allo stesso tempo, ed è tutto da scoprire.
Una storia che è un percorso di scoperta e di emancipazione sia
religiosa che sessuale attraverso mondi molto differenti tra loro, e
lontani. Si passa dalla comunità haredì di Brighton alla New York
dell’alta moda, dalla primavera araba del Bahrein alla trasgressiva e
libera Tel Aviv.
A
Grandangolo il numero di Pagine Ebraiche di novembre dedica un ampio
approfondimento, con molte voci e opinioni che qui riportiamo. 
C’è
qualcosa di post-moderno nel romanzo di Simone Somekh, Grandangolo: è
come se raccontasse di cose che conosco già, ma con una angolatura
nuova, pop e dolorosa assieme, un po’ come – diciamo – Andy Warhol. Più
che a un film, assomiglia a una serie TV, in cui tutto avviene molto
rapidamente, i personaggi mandano avanti la trama ma non evolvono,
tranne il protagonista, che invece cresce e cambia nel corso della
vicenda. Vicenda che, è presto detto, è quella del figlio unico,
ribelle con qualche talento, di una coppia di ebrei americani divenuti
haredim, cioè ultra-ortodossi, come dicono i giornali con
imperfettissima traduzione. Ciò che è ultra, a casa Kramer, la famiglia
di Ezra, il protagonista, non è infatti la doxa, bensì la prassi, che
li condiziona in ogni minuto, aspetto della vita, nell’ossessione di
non essere accettati pienamente da una comunità per la quale resteranno
sempre gli ultimi arrivati, da guardare con sospetto. Con orrore dei
genitori, della scuola e del rabbino Hirsch, Ezra fabbrica immagini, e
lo fa con una Nikon che tiene nascosta in camera sua, ritraendo la
bellissima sorella di un compagno di scuola, clandestinamente, nei
bagni del suo liceo. Ritrarre è proibito, restare da soli con una donna
anche di più. Le immagini però sono belle: Ezra diventa il fotografo
dei matrimoni della comunità. Vi è, nel romanzo, un incontro direi
sfiorato, o forse “mancato”, con l’omosessualità, parola che non si può
neppure pronunciare nel sobborgo residenziale di Boston in cui Ezra è
cresciuto. I Kramer ottengono in affido un coetaneo di Ezra, orfano di
madre, che diventerà una sorta di ossessione per il ragazzo, la goccia
che fa traboccare il vaso di un’esistenza insostenibile. New York è
sempre New York, con le sue
promesse di libertà e successo, la fatica di sperimentare l’una e
inseguire l’altro, il cinismo e l’arrivismo delle persone, la
sensazione perenne di inadeguatezza e solitudine. Il coinquilino
asiatico “nerd”, perennemente incollato al computer, che parla una sola
volta in tutto il romanzo, ma lo fa al momento giusto e per offrire un
ottimo consiglio, quello di rivolgersi a uno psicoterapeuta, è una
trovata da cui io lettrice speravo di ottenere di più. Invece si
finisce subito con un noioso psichiatra che prescrive frettolosamente
antidepressivi, e capiamo che Woody Allen è lontano. Ci troviamo semmai
più in area Sex and the City, ma con minor leggerezza,
comprensibilmente. Ho apprezzato l’alternarsi disinvolto di toni
diversi, uno stile per vari aspetti sperimentale, con flussi di
coscienza e titoli che sono anche la prima frase del capitolo. La
difficoltà di trovare una “zona grigia” dell’ebraismo, il tentativo di
collocarsi a un livello di osservanza sostenibile, che consenta di
mantenere la tradizione e il rispetto dei precetti senza chiudere fuori
il mondo sono temi fra i più affascinanti del romanzo. Solo chi ci è
passato personalmente può rabbrividire e assieme sorridere leggendo del
sogno in cui Ezra addenta un hot dog non kasher, o della prima volta in
cui – con una sorta di ribrezzo misto ad ebrezza – striscia a tutta
velocità la tessera magnetica e salta sulla metropolitana durante la
festa di Sukkot, cercando di non pensare a ciò che sta facendo e ai
limiti che sta irreversibilmente valicando. Ammettere di non essere
felici è difficile in un mondo di foto su Facebook e persone
perennemente entusiaste. Forse in questo sta la forza di Grandangolo:
mostrare che la vita è difficile anche quando hai vent’anni, sei a New
York e hai un sogno. Come in una foto non ritoccata.
Miriam Camerini
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pagine ebraiche novembre 2017 - grandangolo Una sfida da raccogliere
La
storia è quella di Ezra Kramer, un ragazzino che fa della sua vita una
lunga e sofferta avventura. O forse è la vita a fare di lui un
avventuriero: un po’ per scelta, un po’ per natura, un po’ per
curiosità, Ezra non si dà (e non ci dà) mai pace. Scappa, evade, poi
torna, si perde e si ritrova, crea e distrugge alla velocità della
luce; ma facciamo un po’ di ordine. Tutto ha inizio con un piccolo
regalo, una macchina fotografica, un innocuo giocattolo che presto
diventa oggetto del peccato, proprio come l’arma di un delitto. E se si
fosse trattato di un delitto, forse, il nostro protagonista non avrebbe
suscitato tanto scalpore. I suoi scatti presto diventano talmente noti
e temuti all’interno della comunità ebraica ultraortodossa di Brighton,
che l’espulsione dalla Yeshiva in cui studia non basta per placare gli
animi roventi. Ezra comincia così un’epopea che lo condurrà a New York,
lontano anni luce dalla bolla fatta di abiti rigorosamente neri e gonne
lunghe fino al pavimento in cui è cresciuto. E noi partiremo per questo
lungo viaggio insieme a lui, trascinati nel suo mondo audace e a tratti
trasgressivo, persi tra le pagine di Grandangolo e tra le riflessioni
del suo autore esordiente, Simone Somekh. Quasi come fosse un Asher Lev
dei giorni nostri, Ezra Kramer non riesce a dar freno alla sua passione
per la fotografia. “Mi chiedo dove abbiamo sbagliato”, si domanderà il
padre. “Dio ci sta punendo, me lo sento”, risponderà la madre in preda
alle lacrime. Eppure ci sarà chi lo definirà “Un ragazzo molto dotato”,
come la brillante zia Suzie, o chi gli dirà che “Sei la migliore
persona che io abbia mai conosciuto”, come l’inseparabile fratello
adottivo Carmi. Tutti i personaggi recitano la loro parte. I genitori
sono come quelli veri, non come quelli dei film. Gli amici e i colleghi
potremmo tranquillamente associarli a persone a noi vicine. Tutto è
folle e caotico nella mente dell’autore, ma nulla è surreale. Le gioie
comportano sempre dei piccoli dolori ed i successi si trascinano sempre
appresso infiniti fallimenti, proprio come nella realtà. Dopo ogni una
salita e, soprattutto, non esistono scelte giuste e scelte sbagliate.
Così, proprio quando tutto sembra andare storto, quando la luce in
fondo al tunnel tarda ad arrivare ed Ezra desidera morire piuttosto che
rassegnarsi alla vita ostile e nemica a cui è condannato, tutto cambia
e tutto si trasforma. Capitolo dopo capitolo, il lettore impara ad
uscire dalla propria comfort zone per navigare in acque torbide e mai
prevedibili. Bisogna solo fare attenzione a non annegare.
La vita di Ezra, tuttavia, è di relativa importanza se si considera il
contesto, così attuale e complesso, e i temi trattati all’interno della
trama. Non aspettiamoci giri di parole, perché Grandangolo non ne ha.
Con un notevole strike, Somekh riesce a sfatare tabù con grande
maestria e a parlare di omosessualità, fanatismo religioso, libertà di
stampa e autolesionismo con disinvoltura e grande lucidità;
specialmente se consideriamo la sua giovane età. Ed ecco il segreto:
Grandangolo non è un libro che parla di giovani, bensì è un libro che
parla da giovani.
La differenza è sottile, lo so, ma c’è, esiste, ed è essenziale per
capire l’opera. Per intenderci, dunque, Grandangolo non è un libro che
parla di New York, come chi sognerebbe la Grande Mela dal lato opposto
del grande schermo, ma è un libro che riemerge dal subconscio di chi la
città l’ha vissuta sulla propria pelle. Il dialogo invisibile che
intercorre tra l’autore ed il protagonista, è ciò che rende la trama
credibile ai nostri occhi. Grandangolo è un libro ebraico senza avere
la pretesa di esserlo, e se non per i suoi contenuti, per la sua
instancabile ricerca di verità. Emozionante, ambizioso e appassionante,
ci permette di affacciarci ad un mondo meno distante a noi di quanto
possiamo pensare. È lì, dietro l’angolo, un mondo che aspetta di essere
esplorato, criticato e poi abbracciato. Simone Somekh e il suo talento
ci stanno lanciando una provocazione, nonché un’interessante sfida. Sta
a noi ora raccoglierla. Sta a noi guardare oltre il grandangolo della
vita. Io l’ho fatto, e gliene sono grato.
David Zebuloni
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pagine ebraiche novembre 2017 - grandangolo
Le molte facce di un'identità
Il
ventunesimo secolo appare sempre più come l’era dei mondi che si
intrecciano e delle identità che si sovrappongono. Complici le nuove
tecnologie che hanno
reso più rapidi ed economici viaggi e comunicazioni, noi che siamo
stati bambini negli anni Novanta, adolescenti in quelli Duemila e ci
costruiamo una vita in questi inaspettatamente complicati Dieci siamo
abituati a spaziare tra paesi diversi e domande su chi vogliamo essere
e cosa diventare, magari saltando su qualche
aereo per capirlo. Così fa anche Ezra, il protagonista di Grandangolo,
che parte però da una prospettiva diversa, quella di una comunità
ebraica haredì (termine che letteralmente significa “timorato” ma viene
comunemente tradotta in italiano come “ultraortodosso”) nei sobborghi
di Boston. Così il primo mezzo di trasporto alla ricerca della propria
identità diventa la metropolitana che porta il giovane a un liceo
ebraico “moderno” in città, e poi il bus verso la New York in cui
qualsiasi ragazzo con la passione per la fotografia come Ezra sogna di
realizzarsi. Ben presto arriveranno i voli intercontinentali, per
andare avanti, ma allo stesso tempo tornare indietro, e scoprire che
c’è da apprezzare anche l’identità che si credeva di aver lasciato alle
spalle.
Nelle pagine scritte da Simone Somekh – un amico e un collega pure
abituato a prendere aerei e a fare domande – si affacciano tanti temi
importanti che animano oggi il dibattito delle comunità ebraiche a
livello mondiale. Il rapporto tra ebraismo haredì, Modern Orthodox,
conservative, reform. Il confine tra libere scelte di vita e scelte
dettate dalle regole della propria comunità di appartenenza, o dalla
pressione dei genitori. L’approccio della religione ebraica alle
persone LGBT, ai loro diritti e all’accoglienza. Davanti all’obiettivo
della macchina fotografica di Ezra sfilano però anche interrogativi
dedicati a tutti i Millenial: cosa bisogna essere disposti a
sacrificare per fare carriera – e cosa no; l’importanza dell’amicizia,
il significato del contatto fisico, la capacità di dare e di ricevere
alle persone importanti della propria vita, la necessità di lottare per
realizzare i propri sogni anche contro ogni aspettativa. Un tema su
tutti penso valga la pena di approfondire, quello della rabbia. Ezra ha
avuto un’infanzia e un’adolescenza difficile, ed è arrabbiato. Forse ha
ragione a esserlo, ma l’ira che si porta dietro per tutto il libro,
riemerge e prende il controllo al primo accenno di contraddizione o di
ostacolo, e diventa un limite e una debolezza. Ecco forse lui e un po’
tutti noi, giovani e meno giovani, oggi abbiamo accesso troppo
facilmente a sentimenti di rabbia, ogniqualvolta la vita si rivela più
difficile di quanto le pubblicità e i profili altrui sui social
network, ci danno l’illusione che dovrebbe essere. Dimenticandoci di
quegli aerei, di quelle tecnologie, di quelle possibilità che abbiamo
di inseguire le risposte alle nostre domande che forse diamo troppo per
scontate, che un tempo erano impensabili. Forse proprio per questo in
passato era meno diffusa la frustrazione che sembra aver avvolto il
mondo con conseguenze terribili, politiche, sociali, spirituali. Ecco
lo spunto che su tutti mi porto via da Grandangolo: la vita può essere
dura, ma risolvendo i risentimenti si riesce a fare molto, per noi
stessi e per gli altri. E poi per ritrovare l’entusiasmo, possiamo
andare in giro per la movida soleggiata di Tel Aviv, sorseggiando una
spremuta delle famose arance di Jaffa. Così fa Ezra, e in fondo non è
affatto una cattiva idea…
Rossella Tercatin
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pagine ebraiche novembre 2017 - grandangolo
Provaci ancora, Sim
Con
Grandangolo, la sua prima opera letteraria, Simone Somekh firma un
libro importante e necessario. Il suo dare voce a una generazione
disperatamente silente e incapace di esprimersi, la sua abilità di
riaprire un dialogo fra le generazioni all’interno del mondo di casa
nostra, merita non solo una lettura attenta, ma anche una riflessione
seria. Una lettura da consigliare a tutti e in particolare ai tanti che
nell’ebraismo italiano si cullano in un limbo di incerte fantasie
identitarie e confuse consuetudini, evitando spesso di domandarsi su
quale terreno stiano effettivamente appoggiati i loro piedi e quali
problemi reali devono affrontare le giovani generazioni. Dal punto di
vista della mia generazione, che è ormai quella dei padri, più che dei
figli, questo libro, certo importante e necessario, non è tuttavia
parso convincente. L’atto d’accusa da parte di una generazione cui ci
siamo sforzati di offrire tutto il meglio (la sicurezza, la qualità
della vita, i viaggi, gli studi migliori), ma a cui abbiamo dimenticato
di dire che non c’è amore che non possa dire il suo nome, tiene, e mi
pare salutare.
La prova narrativa no.
Perché la letteratura ricalca molte delle leggi della vita. L’ossessiva
ripetizione di stereotipi importati dall’armamentario della cultura
dominante (a cominciare dalla continua ripetizione del termine
“ultraortodosso”) non aiuta a far uscire dall’ombra l’umanità dei vari
personaggi. Tutti sbagliamo, o esageriamo, o ci dimentichiamo di
nutrire di passione e compassione i nostri ideali. E gli ebrei
ortodossi americani evocati in Grandangolo certamente possono soffrire
anche di questo. Ma a nessuno, nella vita e nella letteratura, dovrebbe
essere negata quella complessità e quella contraddittoria umanità che
caratterizza la vita ebraica di tutti.
In un mondo di stereotipi se i protagonisti si riducono a ombre
sbiadite anche il confronto necessario fra le generazioni e fra le
diverse componenti della società ebraica corre il rischio di perdere il
suo slancio e di smarrirsi nel frusciare dei luoghi comuni di carta
patinata.
Guido Vitale
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Terra e manganello
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Se
c’è un “insegnamento” da trarre nella brutta vicenda accaduta ad Ostia,
laddove un personaggio che apparterrebbe al pulviscolo delle
organizzazioni criminali ha dato robusti colpi di cranio contro un
giornalista, il tutto accompagnato da un manganello in bella vista e da
una telecamera che platealmente riprendeva la scena, è che il
“territorio” (qualunque esso sia, a partire dalle periferie urbane) se
lasciato a sé si riorganizza per il tramite di gruppi e coalizioni
basate sulla commistione tra politica, malaffare e violenza. Si tratta
di una specie di welfare alternativo a quello dello Stato. Il controllo
di questi segmenti di collettività, più o meno ampi, che sono o si
sentono lasciati alla mercé delle circostanze, cercando una protezione
e alcune elementari tutele, non importa se fondate su una catena di
abusi e sopraffazioni, indica quindi molte cose. Senz’altro segnala
ancora una volta il fatto, in sé abbondantemente risaputo, della
pervasività del fenomeno mafioso e di come esso goda di una interfaccia
con una parte della politica.
Claudio Vercelli
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