
Pierpaolo Pinhas Punturello, rabbino
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Un’antica tradizione di alcune famiglie
sefardite è quella di non indicare pubblicamente le stelle con le dita
la sera dell’uscita dello Shabbat quando, appunto, tre stelle ne
segnano la fine.
Il motivo di questa tradizione andrebbe ricercato nel terrore del
controllo dell’Inquisizione che seguiva ogni gesto dei “Cristiani
nuovi” o marrani per verificarne la reale identità. Potremmo forse
azzardare che questo dito nascosto alle stelle possa segnare un momento
nel quale queste famiglie, fuggendo per rimanere se stesse, si siano
dovute nascondere dalle maglie terribili inquisitoriali. Detto questo,
Shabbat scorso in piena Madrid, in piena Spagna ho indicato
istintivamente le stelle a fine Shabbat. Tra l’espulsione del 1492 e il
boicottaggio BDS di alcune città del Sud, ero lì con il mio passaporto
italiano, un po’ di Spagna nel sangue e il passaporto israeliano.
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Gadi
Luzzatto
Voghera,
direttore
Fondazione CDEC
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Metà di luglio del 1938. Domani, ottant’anni
fa, il Giornale d’Italia pubblicherà il manifesto degli scienziati
razzisti, peraltro in gran parte redatto dallo stesso Benito Mussolini.
Verrà detto agli italiani che le razze umane sarebbero “una realtà
fenomenica, materiale, percepibile con i nostri sensi”. Verrà scritto
che l’Italia è popolata a maggioranza dalla razza ariana ormai da
millenni. Verrà altresì svelato che “dopo l’invasione dei Longobardi
non ci sono stati in Italia altri notevoli movimenti di popoli capaci
di influenzare la fisionomia razziale della nazione”. In un’ottica
pedagogica sarà quindi “additato agli Italiani un modello fisico e
soprattutto psicologico di razza umana che per i suoi caratteri
puramente europei si stacca completamente da tutte le razze
extra–europee, questo vuol dire elevare l’italiano a un ideale di
superiore coscienza di sé stesso e di maggiore responsabilità”.
All’articolo 8 si stabilirà chiaramente l’estraneità di africani e di
semiti: “Sono perciò da considerarsi pericolose le teorie che
sostengono l’origine africana di alcuni popoli europei e comprendono in
una comune razza mediterranea anche le popolazioni semitiche e
camitiche stabilendo relazioni e simpatie ideologiche assolutamente
inammissibili”. Quindi, all’articolo 9, l’affondo che indicava il vero
oggetto del manifesto: “Gli ebrei rappresentano l’unica popolazione che
non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi
razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno
dato origine agli Italiani”. Infine con l’articolo 10 si prospettava la
pericolosità dell’ibridazione: “Il carattere puramente europeo degli
Italiani viene alterato dall’incrocio con qualsiasi razza extra–europea
e portatrice di una civiltà diversa dalla millenaria civiltà degli
ariani”.
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L'intervento di Mattarella
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Un intervento in prima persona del
Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha sbloccato la vicenda
della nave Diciotti, bloccata dal ministro dell’Interno Matteo Salvini
all’ingresso del porto di Taranto.
“Sono le undici di sera – scrive il Corriere – quando la nave inizia lo
sbarco dei migranti sul molo Ronciglio. La fine di un incubo per i 67
immigrati che avevano festeggiato con canti e balli la notizia che la
lunga attesa stava per terminare”.
L’iniziativa di Mattarella, si legge, è stata accolta con “stupore” dal
Viminale.
L’assemblea nazionale francese ha votato all’unanimità la soppressione
della parola “razza” nella Costituzione e ha anche introdotto il
divieto di ogni distinzione di sesso tra i cittadini. Al voto,
sottolinea il Messaggero, hanno partecipato 119 deputati di quasi ogni
colore politico.
In Italia invece la Corte di Cassazione ha confermato l’aggravante
della finalità di discriminazione razziale a un 40enne accusato di
lesioni. L’aggravante, è stato scritto, riguarda anche chi usa
espressioni generiche di disprezzo verso gli stranieri quali “Che
venite a fare qua… Dovete andare via”.
In serata il ministro Salvini, che evidentemente non ha gradito, ha
twittato “Andate via, andate via, andate via”.
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l'allarme della presidente ucei
1938, a ottanta anni dall'infamia
dignità umana ancora in pericolo
Esattamente
ottanta anni fa la redazione del Giornale d’Italia confezionava le
pagine che il giorno dopo sarebbero state in edicola. L’articolo più
roboante, destinato ad avere ampia diffusione anche sul resto della
stampa nazionale, e poi un’applicazione devastante, era quello che
andava sotto il titolo “Il fascismo e il problema della razza”. Oggi lo
conosciamo anche come Manifesto della razza.
Con un’operazione realizzata sotto la regia di Benito Mussolini in
persona, il regime cercava di accreditare i propri progetti persecutori
e di negazione dell’Altro su un piano pseudoscientifico che ancora
oggi, nel rileggerle, lascia increduli dinanzi alla folle aberrazione
delle statuizioni e delle certezze affermate. Un’operazione che sarà
premessa – nell’indifferenza di molti – alla successiva promulgazione
delle Leggi antiebraiche, alla messa ai margini di una intera parte
della cittadinanza italiana, alla persecuzione, alla deportazione,
all’annientamento nei campi di sterminio. Leggi e provvedimenti
amministrativi perfetti e formalmente rispondenti ad ogni crisma ma
sostanzialmente vuoti di ogni principio e valore.
Una ferita ancora viva, che riguarda non solo le comunità ebraiche ma
una intero Paese e il suo sistema di valori. Una vicenda su cui però
l’Italia non sembra aver riflettuto con la sufficiente consapevolezza,
né fatte valere negli ottant’anni passati le responsabilità sul piano
legale o politico.
Cosa resta oggi, qual è il lascito di quella terribile narrazione?
Quanto si è riusciti a realizzare in questi lunghi anni un percorso che
portasse dalla “difesa della razza” alla tutela dei diritti? Quanto si
è radicato nella cultura della nostra società, italiana ed europea, il
rispetto per il diritto alla vita, della dignità umana,
dell’uguaglianza degli esseri umani non solo dinanzi alla legge ma
anche dinanzi agli uomini?
Alla luce di quanto viviamo oggi, con il crescente manifestarsi di atti
di intolleranza razziale, odio e pericolosa radicalizzazione –
purtroppo alimentati e legittimati anche da esponenti delle istituzioni
‒ questo percorso appare incompiuto e ancor più faticoso.
Il tormento di oggi non è fatto solo del dolore e delle paure vissute
ieri, ma anche del non essere in grado di leggere i fatti e le
avvisaglie, del non riuscire a prevenire quel che pensavamo fosse
superato con il varo della nostra Costituzione, e di veder nuovamente
leggi e decreti democraticamente approvati, ma che violano quei
fondamentali principi.
Abbiamo timore di trovarci nella condizione e con le responsabilità che
abbiamo addebitato ad altri, in varie e note sedi processuali, di dover
disobbedire a un decreto, a una legge, a un ordine, perché i valori
supremi andavano difesi nel rispetto di quel profondo richiamo morale.
Quando è allora il momento per dire” No”, “Basta”, affinché non sia di
nuovo troppo tardi?
Noemi Di Segni,
Presidente Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
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la
grande mostra a mantova
"Marc
Chagall, pittore e poeta"
“Come
nella pittura, così nella poesia”, scriveva Quinto Orazio Flacco nella
sua “Ars Poetica”. Una consonanza che, secondo lo scrittore e
drammaturgo surrealista André Pieyre de Mandriargues, forse nessun
artista ha saputo incarnare più di Marc Chagall, “il pittore e il poeta
per eccellenza”. Ed ecco spiegato perché la mostra sul pittore
bielorusso di origine ebraica che sarà inaugurata a Mantova il 5
settembre abbia proprio quel sottotitolo, “Come nella pittura così,
nella poesia”.
Una prima presentazione alla stampa ha visto impegnati, alla Triennale
di Milano, Mattia Palazzi, sindaco del Comune di Mantova che promuove
la rassegna, Rosanna Cappelli, direttore generale Arte Mostre e Musei
della casa editrice Electa, cui compete l’organizzazione dell’evento, e
Gabriella Di Milia, che lo ha curato in collaborazione con la Galleria
di Stato Tretjakov di Mosca.
Almeno due motivi fanno della mostra su Chagall uno degli appuntamenti
irrinunciabili del prossimo autunno: il ciclo completo dei sette teleri
dipinti per il Teatro ebraico da camera di Mosca torna per la prima
volta in Italia dopo ben diciannove anni; il medievale Palazzo della
Ragione, che li ospiterà fino al 13 gennaio, riapre per l’occasione,
dopo che il terremoto del 2012 lo ha congelato in un lungo periodo di
inattività e di restauro.
Daniela Modonesi
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tra calcio e memoria Istvan Toth, un eroe in panchina
La commozione di Budapest
Il
nome di Istvan Toth è oggi un po’ dimenticato. Eppure questo grande
allenatore ungherese, uno dei Maestri della sua generazione al pari tra
gli altri di Arpad Weisz ed Erno Erbstein, vittime entrambi della
persecuzione antiebraica, ha letteralmente “fatto il calcio” in un
momento in cui questo sport, nel solco del modello inglese, diventava
un affare abbastanza serio anche in Italia (nel 1926, agli inizi della
sua carriera, la Carta di Viareggio marcò in modo chiaro la differenza
tra professionismo e dilettantismo). Un’opportunità di crescita per
tutti, anche per i numerosi talenti in panchina che il paese magiaro
sfornava in quegli anni. E così, dopo i successi in patria e dopo aver
guidato persino la Nazionale, nel 1930 Toth sceglie l’Italia per
insegnare calcio prima a Trieste e poi Milano, sponda nerazzurra.
Gli annali ci tramandano il ricordo di un vincente. La Storia ci
ricorda che fu anche un grande uomo. Un eroe che, nel momento più
drammatico, non esitò a mettere a rischio la vita (perdendola) per
salvare il maggior numero possibile di ebrei dai nazifascisti. E questo
in combutta con un altro grande collega e connazionale, Geza Kertész,
anche lui ex calciatore, anche lui formatosi come allenatore in Italia.
Grazie al loro perfetto accento tedesco, fingendosi ufficiali delle SS,
i due riuscirono a tirar fuori dal Ghetto di Budapest centinaia di
prigionieri destinati al lager. Una rete li sostenne, fin quando arrivò
la delazione di una spia a interrompere i loro piani. E quindi
l’arresto e la fucilazione, il 6 febbraio del 1945. Una settimana dopo
Budapest sarebbe stata liberata.
Ieri il grande cuore di Toth, bandiera del Ferencvaros, è stato
celebrato in forma solenne prima del calcio d’inizio della partita dei
preliminari di Europa League che ha visto opposti i padroni di casa
agli israeliani del Maccabi Tel Aviv. In campo ventidue ragazzini con
una maglia raffigurante lo sportivo eroe, cui è stata dedicata anche
una precedente commemorazione concertata (come il successivo omaggio)
assieme alle due squadre, alla federazione degli ebrei ungheresi, al
World Jewish Congress. Leggi
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Un'occasione
perduta
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Per
essere sicura di non parlare a sproposito mi sono andata a cercare sul
sito del Comune di Torino il testo completo dell’ordine del giorno n.5
(oggetto: Gaza) approvato il 9 luglio dal Consiglio Comunale. È
opportuno chiarire che Torino è gemellata con Gaza (così come con Haifa
e con molte altre città nei vari continenti) e quindi non è affatto
illogico che il Consiglio Comunale si occupi di una città gemella di
Torino e chieda “Che i governi europei e le ONG possano farsi promotori
di un canale umanitario che consenta di supportare gli ospedali locali
e fornire farmaci e materiali medici per aiutare la popolazione della
Striscia di Gaza che necessita di cure mediche.” Se si fosse limitato a
chiedere questo, che poi è la cosa sostanziale, mi pare che l’ordine
del giorno sarebbe stato perfettamente condivisibile.
Il problema è che a questa logica e condivisibile conclusione si arriva
dopo un preambolo che parla di vari argomenti, abbastanza scollegati
tra loro e con il tema principale. Tra questi vorrei segnalarne due di
cui mi pare si sia parlato relativamente poco.
Anna Segre, insegnante
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Autodistruzione
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Un
conoscente, in realtà neanche poi così stupido, mi confessava che le
persone provenienti da sotto il tropico del cancro – ovvero quelle di
carnagione scura – non avrebbero “la testa granché a posto” visto che
in migliaia di anni non sono riuscite ad arrivare al nostro grado di
ricchezza e civiltà. Mi portava come esempio il caso
dell’iperinflazione dello Zimbabwe, dove per cinque anni il governo
diretto dal dittatore Robert Mugabe ha continuato a produrre moneta in
eccesso senza provare ad arrestare la svalutazione della stessa. Al
primo assunto, potrebbe rispondere senza dubbio meglio di me
l’antropologo ebreo Jared Diamond con il celebre libro “Armi, acciaio,
malattie” (1997) il quale cerca proprio di sfatare questo pregiudizio
etnocentrico assolutamente non così raro. Per confutare la seconda
questione, basterebbe chiedersi invece se una civiltà che nel giro di
pochi anni ha distrutto un intero patrimonio culturale e mandato verso
lo sterminio milioni di persone senza nessuna motivazione razionale,
possa considerarsi davvero più intelligente di altre. Una civiltà che
magari è accorta nel non produrre monete in eccesso, ma che continua
giorno per giorno nella sua opera di autodistruzione.
Francesco Moises Bassano
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