orizzonti
In viaggio tra le sinagoghe che non lo sono più

Tutto ha inizio nel 2012, quando Bernadett Alpern, fotografa di
Budapest allora venticinquenne, in seguito alla scomparsa del nonno,
decide d’intraprendere una ricerca genealogica della propria famiglia e
le sue radici ebraiche. Così, una volta arrivata a Sárbogárd, città
natale di suo nonno a metà strada tra Budapest ed il celebre lago
Balaton, decide di visitare i luoghi principali legati alla giovinezza
del parente appena scomparso, tra cui la sinagoga che frequentava
insieme alla sua famiglia prima della Shoah. Tuttavia, una volta giunta
difronte all’edificio che una volta ospitava la piccola comunità
ebraica cittadina, che fino al 1944 contava circa 500 persone, scoprì
che questo ospitava un negozio di mobili usati. Infatti, in seguito
allo sterminio dell’ebraismo ungherese per mano dei nazisti e dei suoi
alleati magiari, solo 34 ebrei tornarono nella loro città natale, dove
tentarono, invano, di ricostruire la propria vita. Così, nel 1960 la
sinagoga venne venduta, e da allora adoperata per altri scopi. Nel
2012, quando Bernadett visitò gli interni dell’edificio, vi si potevano
ancora trovare, nascosti in soffitta, degli antichi libri di preghiera,
mentre nel negozio poco o nulla richiamava il suo antico uso religioso.
Nel 2013, appena un anno dopo il viaggio a Sárbogárd, quello che nacque
come una semplice ricerca famigliare, grazie ad un finanziamento
dell’Associazione Europea per la Cultura Ebraica, diventa un progetto
fotografico vero e proprio.
Michele Migliori, Pagine Ebraiche, dicembre 2018
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MACHSHEVET
ISRAEL
La religiosità messianica di Hermann Cohen
Tra
i molti anniversari del 2018 c’era anche il centenario della morte del
filosofo ebreo-tedesco Hermann Cohen (1842-1918) e quasi nessuno in
Italia lo ha ricordato. Eppure l’influenza di questo maskil (nel senso
di figlio dell’haskalà, dell’illuminismo), che ogni buona storia della
filosofia presenta come il fondatore della scuola neo-kantiana di
Marburgo, è stata immensa per gli sviluppi del pensiero ebraico del
Novecento: da Franz Rosenzweig a Joseph Soloveitchik, da Isaac Breuer a
Shmuel Hugo Bergmann, da Nathan Rotenstreich a Steven Schwarzschild –
ora per esplicitarne le intuizioni ora per criticarne limiti o mancanze
(tra i critici più severi vi furono Gershom Scholem e Yeshayahu
Leibowitz) – tracce molteplici dell’“ebraismo kantiano” di Cohen
riemergono nel corso del secolo breve dove meno ci aspetteremmo di
trovarle. Paradossalmente, proprio le sue posizioni oggi meno
apprezzabili (il suo anti-sionismo, la certezza che la simbiosi
ebraico-tedesca fosse il culmine della civiltà, il messianismo creduto
l’idea centrale e più condivisibile della fede ebraica) sono servite a
stimolare un profondo rinnovamento tra gli intellettuali ebrei di
lingua e cultura tedesca tra le due guerre mondiali. Si può dire che la
filosofia ebraica contemporanea sia tutta pro o contro-Cohen, ma
impensabile senza di lui. Nella sua strenua difesa del primato della
ragione e dell’etica, in un periodo storico segnato da vitalismi e
nazionalismi, irrazionalismi e positivismi vari, la voce inattuale di
questo accademico – il primo ebreo ad insegnare in un’università
tedesca senza ‘pagare il biglietto’ della conversione al cristianesimo
– si è incredibilmente trasformata in un’attualissima àncora di
salvazione per molti.
La summa del pensiero ebraico coheniano resta l’opera dal titolo
“Religione della ragione dalle fonti dell’ebraismo”, apparsa postuma
nel 1919, a un anno dalla sua morte.
Massimo Giuliani, docente
al Diploma Studi Ebraici, UCEI
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orizzonti
La «legge schiavitù»,
le contraddizioni di Orban
Come
vi sentireste se il vostro datore di lavoro potesse imporvi fino a 400
ore di straordinari all'anno, con la facoltà di pagarvele anche fra 36
mesi? Probabilmente usereste (useremmo) la stessa parola che usano in
Ungheria. La chiamano «legge schiavitù» — Elena Tebano ne ha scritto
lunedì — e da ieri è in vigore, nonostante le proteste di massa. Siamo
alla rappresentazione plastica delle contraddizioni di una politica
xenofoba. La scelta nasce infatti dalla mancanza di forza lavoro e dal
rifiuto del governo di Viktor Orbán di aprire le porte ai migranti.
L'Ungheria ha una disoccupazione al 4,2 per cento — una delle più basse
dell'Ue —e una popolazione in declino da anni. In più è soggetta a un
drammatico brain drain, con i cittadini che si sentono nel mirino di
quello che sempre più si configura come un regime — giovani,
intellettuali, artisti, ebrei, attivisti delle ong — che lasciano il
Paese in cerca di libertà e lavori adeguati alla loro istruzione,
mentre il governo, dopo averli fatti scappare, prova inutilmente a
farli tornare con un programma di incentivi.
Gianluca Mercuri, Corriere della Sera,
22 dicembre 2018
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orizzonti
Odessa, il fronte freddo
La
definiscono «una guerra culturale», identitaria, linguistica,
combattuta a suon di statue abbattute e rimpiazzate, nomi delle strade
cambiati, introduzione dell'ucraino al posto del russo come idioma
ufficiale d'insegnamento nelle scuole, feste locali cancellate o
reinventate, dibattiti accesi e talvolta violenti tra giovani
nazionalisti che guardano all'Unione Europea e, sull'altra sponda,
tenaci sostenitori di Vladimir Putin. Se a Kiev il braccio di ferro con
Mosca si esprime soprattutto nei termini mediati della politica; e se
lungo i confini del Donbass, come del resto nell'istmo di Perekop che
conduce alla penisola di Crimea e ultimamente nelle acque contese del
Mare di Azov, il dissidio si traduce crudamente nello scontro militare;
nelle vie di Odessa prevale invece il lungo retaggio di una tradizione
urbana cresciuta tra le comunità cosmopolite legate al vecchio porto,
con la sua funzione di cerniera commerciale tra Europa e Asia, ma
specialmente si avverte l'esistenza di un'agguerrita presenza di
intellettuali caparbiamente attaccati al passato sovietico.
Lorenzo Cremonesi, Corriere La Lettura,
23 dicembre 2018
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Shir
Shishi - una poesia per erev shabbat
Terremoti
Israele
si colloca lungo la depressione siro-africana, la Rift Valley,
risultato di primordiali tensioni geologiche e distaccamento di placche
tettoniche iniziate circa 15 milioni di anni fa. Lungo i secoli, dalla
Turchia fino al Golfo di Aqaba, attraverso la Valle del Giordano, la
Arava e fino al Mar Rosso, la zona è stata colpita da ripetuti disastri
geologici, riportati anche dalle cronache bibliche; si pensi al
racconto su Sodoma presente nel libro della Genesi o agli avvertimenti
del profeta Zaccaria (14, 4-5): “In quel giorno…il monte degli Ulivi si
spaccherà a metà, da oriente a occidente, tanto da formare una grande
valle; metà del monte si ritirerà verso settentrione e l'altra metà
verso il meridione.” E le immagini del miracoloso attraversamento del
Mar Rosso o lo tsunami di Cesarea del II sec. d.e.v si sovrappongono a
quelle che ci arrivano dall’Indonesia. Secondo Yossi Mart, geologo e
oceanologo dell’Università di Haifa, l’inondazione a Cesarea distrusse
il frangionde della città portuale e creò ingenti danni anche a Haifa.
I racconti dei viaggiatori e la letteratura della Terra di Israele
riferiscono notizie sulla catastrofe del 1837, in cui la terra tremò
nel cuore della Galilea, alzando una terribile onda anomala nel Lago di
Tiberiade e distruggendo i centri urbani di Tiberiade e Safed. Ma se ci
allontaniamo dalle visioni scientifiche o apocalittiche e cerchiamo di
rimanere fiduciosi con i piedi per terra, il pensiero va alle vittime
dell’Indonesia e a coloro che hanno perso la casa e gli averi.
Scrive il geografo olandese, Van de Velde: "Era abitudine di Danus
uscire presto il mattino per andare a lavorare i campi e così fece
anche l'1 gennaio 1837. A un tratto la terra si agitò con un colpo
terribile. Il terreno saliva e scendeva, gli abissi emettevano suoni e
boati e tuoni, non forti ma molto minacciosi. La terra si squarciò in
strappi e incavi, saliva e scendeva, a destra e sinistra e il sangue
gelò nelle vene tanto era lo spavento. La collina di Safed si spogliò
delle sue case come il fico che fa cadere le foglie d'autunno. Tutti
quelli che non si trovavano fuori corsero velocemente lungo il pendio
della colina e scapparono, ma era troppo tardi… E Danus? Con le lacrime
agli occhi racconta come è tornato a casa tutto tremante e quasi morto
di paura. Ma la sua abitazione era seppellita profondamente sotto le
pietre e la terra. E insieme alla casa anche moglie, figli e parenti".
(N. Schur, Toldot Tzefat, Dvir e Am Oved, Tel Aviv, 1983, 186-187)
Sarah Kaminski, Università
di Torino
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