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27 dicembre 2018 - 20 tevet 5779
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orizzonti

In viaggio tra le sinagoghe che non lo sono più

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Tutto ha inizio nel 2012, quando Bernadett Alpern, fotografa di Budapest allora venticinquenne, in seguito alla scomparsa del nonno, decide d’intraprendere una ricerca genealogica della propria famiglia e le sue radici ebraiche. Così, una volta arrivata a Sárbogárd, città natale di suo nonno a metà strada tra Budapest ed il celebre lago Balaton, decide di visitare i luoghi principali legati alla giovinezza del parente appena scomparso, tra cui la sinagoga che frequentava insieme alla sua famiglia prima della Shoah. Tuttavia, una volta giunta difronte all’edificio che una volta ospitava la piccola comunità ebraica cittadina, che fino al 1944 contava circa 500 persone, scoprì che questo ospitava un negozio di mobili usati. Infatti, in seguito allo sterminio dell’ebraismo ungherese per mano dei nazisti e dei suoi alleati magiari, solo 34 ebrei tornarono nella loro città natale, dove tentarono, invano, di ricostruire la propria vita. Così, nel 1960 la sinagoga venne venduta, e da allora adoperata per altri scopi. Nel 2012, quando Bernadett visitò gli interni dell’edificio, vi si potevano ancora trovare, nascosti in soffitta, degli antichi libri di preghiera, mentre nel negozio poco o nulla richiamava il suo antico uso religioso. Nel 2013, appena un anno dopo il viaggio a Sárbogárd, quello che nacque come una semplice ricerca famigliare, grazie ad un finanziamento dell’Associazione Europea per la Cultura Ebraica, diventa un progetto fotografico vero e proprio.

Michele Migliori, Pagine Ebraiche, dicembre 2018

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MACHSHEVET ISRAEL

La religiosità messianica di Hermann Cohen 

img headerTra i molti anniversari del 2018 c’era anche il centenario della morte del filosofo ebreo-tedesco Hermann Cohen (1842-1918) e quasi nessuno in Italia lo ha ricordato. Eppure l’influenza di questo maskil (nel senso di figlio dell’haskalà, dell’illuminismo), che ogni buona storia della filosofia presenta come il fondatore della scuola neo-kantiana di Marburgo, è stata immensa per gli sviluppi del pensiero ebraico del Novecento: da Franz Rosenzweig a Joseph Soloveitchik, da Isaac Breuer a Shmuel Hugo Bergmann, da Nathan Rotenstreich a Steven Schwarzschild – ora per esplicitarne le intuizioni ora per criticarne limiti o mancanze (tra i critici più severi vi furono Gershom Scholem e Yeshayahu Leibowitz) – tracce molteplici dell’“ebraismo kantiano” di Cohen riemergono nel corso del secolo breve dove meno ci aspetteremmo di trovarle. Paradossalmente, proprio le sue posizioni oggi meno apprezzabili (il suo anti-sionismo, la certezza che la simbiosi ebraico-tedesca fosse il culmine della civiltà, il messianismo creduto l’idea centrale e più condivisibile della fede ebraica) sono servite a stimolare un profondo rinnovamento tra gli intellettuali ebrei di lingua e cultura tedesca tra le due guerre mondiali. Si può dire che la filosofia ebraica contemporanea sia tutta pro o contro-Cohen, ma impensabile senza di lui. Nella sua strenua difesa del primato della ragione e dell’etica, in un periodo storico segnato da vitalismi e nazionalismi, irrazionalismi e positivismi vari, la voce inattuale di questo accademico – il primo ebreo ad insegnare in un’università tedesca senza ‘pagare il biglietto’ della conversione al cristianesimo – si è incredibilmente trasformata in un’attualissima àncora di salvazione per molti.
La summa del pensiero ebraico coheniano resta l’opera dal titolo “Religione della ragione dalle fonti dell’ebraismo”, apparsa postuma nel 1919, a un anno dalla sua morte.

Massimo Giuliani, docente al Diploma Studi Ebraici, UCEI 

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orizzonti        

La «legge schiavitù»,
le contraddizioni di Orban 

Come vi sentireste se il vostro datore di lavoro potesse imporvi fino a 400 ore di straordinari all'anno, con la facoltà di pagarvele anche fra 36 mesi? Probabilmente usereste (useremmo) la stessa parola che usano in Ungheria. La chiamano «legge schiavitù» — Elena Tebano ne ha scritto lunedì — e da ieri è in vigore, nonostante le proteste di massa. Siamo alla rappresentazione plastica delle contraddizioni di una politica xenofoba. La scelta nasce infatti dalla mancanza di forza lavoro e dal rifiuto del governo di Viktor Orbán di aprire le porte ai migranti. L'Ungheria ha una disoccupazione al 4,2 per cento — una delle più basse dell'Ue —e una popolazione in declino da anni. In più è soggetta a un drammatico brain drain, con i cittadini che si sentono nel mirino di quello che sempre più si configura come un regime — giovani, intellettuali, artisti, ebrei, attivisti delle ong — che lasciano il Paese in cerca di libertà e lavori adeguati alla loro istruzione, mentre il governo, dopo averli fatti scappare, prova inutilmente a farli tornare con un programma di incentivi.

Gianluca Mercuri, Corriere della Sera,
22 dicembre 2018 


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Odessa, il fronte freddo

La definiscono «una guerra culturale», identitaria, linguistica, combattuta a suon di statue abbattute e rimpiazzate, nomi delle strade cambiati, introduzione dell'ucraino al posto del russo come idioma ufficiale d'insegnamento nelle scuole, feste locali cancellate o reinventate, dibattiti accesi e talvolta violenti tra giovani nazionalisti che guardano all'Unione Europea e, sull'altra sponda, tenaci sostenitori di Vladimir Putin. Se a Kiev il braccio di ferro con Mosca si esprime soprattutto nei termini mediati della politica; e se lungo i confini del Donbass, come del resto nell'istmo di Perekop che conduce alla penisola di Crimea e ultimamente nelle acque contese del Mare di Azov, il dissidio si traduce crudamente nello scontro militare; nelle vie di Odessa prevale invece il lungo retaggio di una tradizione urbana cresciuta tra le comunità cosmopolite legate al vecchio porto, con la sua funzione di cerniera commerciale tra Europa e Asia, ma specialmente si avverte l'esistenza di un'agguerrita presenza di intellettuali caparbiamente attaccati al passato sovietico.

Lorenzo Cremonesi, Corriere La Lettura,
23 dicembre 2018  


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Shir Shishi - una poesia per erev shabbat

Terremoti

img headerIsraele si colloca lungo la depressione siro-africana, la Rift Valley, risultato di primordiali tensioni geologiche e distaccamento di placche tettoniche iniziate circa 15 milioni di anni fa. Lungo i secoli, dalla Turchia fino al Golfo di Aqaba, attraverso la Valle del Giordano, la Arava e fino al Mar Rosso, la zona è stata colpita da ripetuti disastri geologici, riportati anche dalle cronache bibliche; si pensi al racconto su Sodoma presente nel libro della Genesi o agli avvertimenti del profeta Zaccaria (14, 4-5): “In quel giorno…il monte degli Ulivi si spaccherà a metà, da oriente a occidente, tanto da formare una grande valle; metà del monte si ritirerà verso settentrione e l'altra metà verso il meridione.” E le immagini del miracoloso attraversamento del Mar Rosso o lo tsunami di Cesarea del II sec. d.e.v si sovrappongono a quelle che ci arrivano dall’Indonesia. Secondo Yossi Mart, geologo e oceanologo dell’Università di Haifa, l’inondazione a Cesarea distrusse il frangionde della città portuale e creò ingenti danni anche a Haifa. I racconti dei viaggiatori e la letteratura della Terra di Israele riferiscono notizie sulla catastrofe del 1837, in cui la terra tremò nel cuore della Galilea, alzando una terribile onda anomala nel Lago di Tiberiade e distruggendo i centri urbani di Tiberiade e Safed. Ma se ci allontaniamo dalle visioni scientifiche o apocalittiche e cerchiamo di rimanere fiduciosi con i piedi per terra, il pensiero va alle vittime dell’Indonesia e a coloro che hanno perso la casa e gli averi. 

Scrive il geografo olandese, Van de Velde: "Era abitudine di Danus uscire presto il mattino per andare a lavorare i campi e così fece anche l'1 gennaio 1837. A un tratto la terra si agitò con un colpo terribile. Il terreno saliva e scendeva, gli abissi emettevano suoni e boati e tuoni, non forti ma molto minacciosi. La terra si squarciò in strappi e incavi, saliva e scendeva, a destra e sinistra e il sangue gelò nelle vene tanto era lo spavento. La collina di Safed si spogliò delle sue case come il fico che fa cadere le foglie d'autunno. Tutti quelli che non si trovavano fuori corsero velocemente lungo il pendio della colina e scapparono, ma era troppo tardi… E Danus? Con le lacrime agli occhi racconta come è tornato a casa tutto tremante e quasi morto di paura. Ma la sua abitazione era seppellita profondamente sotto le pietre e la terra. E insieme alla casa anche moglie, figli e parenti".

(N. Schur, Toldot Tzefat, Dvir e Am Oved, Tel Aviv, 1983, 186-187)

Sarah Kaminski, Università di Torino 

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