Se non leggi correttamente questo messaggio, clicca qui    8 Novembre 2020 - 21 Cheshvan 5781
LA SCOMPARSA DI UN GRANDE RABBINO, LEADER E COMUNICATORE

Rav Jonathan Sacks (1948-2020)

“Tutti i grandi leader religiosi sono stati dei sognatori. Mosè ad esempio, che ha sognato una terra stillante latte e miele. Oppure Isaia, che ha sognato un mondo di pace. Oppure penso ancora a Martin Luther King e al suo ‘I have a dream’, uno dei più bei discorsi del ventesimo secolo. Se dovessi scrivere un breviario per la felicità, la capacità di sognare sarebbe ai primi posti della lista”. 
Già rabbino capo d’Inghilterra e del Commonwealth, rav Jonathan Sacks si è distinto come una delle voci più influenti dell’ebraismo contemporaneo. Dagli oltre 30 libri pubblicati alla rubrica radiofonica in cui era protagonista sulle frequenze della BBC: un grande leader e comunicatore che ha saputo proiettare, su vette altissime, il pensiero, la tradizione e i valori ebraici. “Comunicare con l’esterno – ricordava in una intervista con Pagine Ebraiche da lui fortemente voluta nel corso di una visita a Roma nel dicembre del 2011 – fa parte della nostra sfida come comunità, come minoranza all’interno della società. Dobbiamo lavorare per trasmettere i nostri valori, condividerli con gli altri e confrontarci sulle grandi tematiche della modernità”. 
Una lezione e la cifra del suo impegno. Sono in molti, in queste ore, a piangerne la scomparsa. “Il suo pensiero ha avuto un grande impatto sul Paese e in tutto il mondo”, ha tra gli altri affermato il Primo ministro britannico Boris Johnson. “Un gigante del pensiero”, l’ha invece ricordato Tony Blair. Molte altre voci si sono unite esprimendo la propria vicinanza ai familiari e agli ebrei d’Inghilterra, di cui rav Sacks è stato leader dal 1991 al 2013. Un periodo nel quale ha avuto anche la gratificazione della nomina a baronetto e lord da parte della regina Elisabetta. 
“Uno straordinario ambasciatore dell’ebraismo” ha commentato il suo successore, rav Ephraim Mirvis. “Rav Sacks – le sue parole di cordoglio – ha spinto molti a riscoprire l’orgoglio delle proprie origini. Mancherà moltissimo. Al mondo ebraico ma anche a tutti coloro la cui vita è stata illuminata dalla sua saggezza”. Ad esprimere il proprio dolore è anche l’Assemblea dei Rabbini d’Italia, che in una nota sottolinea: “Con insegnamento illuminato da grande sapienza e dall’amore della Torà ha rappresentato il punto di vista ebraico sui grandi argomenti e inquietudini del  mondo contemporaneo; con lucida consapevolezza dei problemi che investono la realtà ebraica in Israele e nelle Diaspora ha sollecitato la coscienza del popolo ebraico, con straordinaria forza di argomentazione e capacità divulgativa, mediante numerosi testi e con esperto e saggio utilizzo dei più moderni strumenti di comunicazione”. 
"La forza della sua personalità - scrive il rabbino capo di Roma, rav Riccardo Di Segni - ha segnato questi ultimi decenni di vita ebraica, e probabilmente è stato il leader religioso più ascoltato e influente degli ultimi anni, che ha saputo trasmettere insegnamenti validi per tutti". 
Sul seguitissimo sito web del rav (di cui l’editore Giuntina ha tradotto e pubblicato nel 2017 il saggio Non nel nome di Dio) appare oggi un messaggio di commiato: “Il bene che facciamo vive negli altri”. 
Sia il suo ricordo di benedizione.

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L'INTERVISTA CON PAGINE EBRAICHE

"Diversità in terra, unità in cielo"

Nel vecchio continente probabilmente nessuno è riuscito a trasmettere il senso e il significato dell’ebraismo nella modernità come Lord Sacks.
Un titolo che testimonia il rispetto che oltre Manica concittadini e istituzioni riservano al capo rabbino. Figlio di esuli polacchi, fuggiti in Gran Bretagna prima dell’avvento del nazismo, passa la sua infanzia ad Aldgate, sobborgo di Londra dove fino alla seconda guerra mondiale sorgeva la Grande Sinagoga, luogo simbolo dell’ebraismo inglese. E, quasi a chiudere il cerchio, nel novembre 2009 Sacks è stato nominato Lord proprio di Aldgate, secondo rabbino a sedere nella Camera alta del Parlamento britannico. Dottore in filosofia all’università di Oxford, ieri come oggi ha sempre combattuto la secolarizzazione dell’Europa, in particolare quando questo processo è andato a minare le fondamenta della tradizione ebraica. Ma è un uomo secolare, laico, ateo a diventare uno dei grandi maestri di rav Sacks: Sir Bernard Williams, “l’ateo intellettualmente più dotato d’Inghilterra” come lo definì lo stesso Sacks. “Non cercò mai di sfidare o svalutare la mia fede religiosa. Per lui partecipavamo entrambi e alla pari nella ricerca della verità”.
Il coinvolgente e puntuale humor inglese, la capacità oratoria e l’immensa cultura sono alcuni dei caratteri di un personaggio da cui è difficile non rimanere affascinati. In prima fila nel difficile cammino del dialogo interreligioso, Sacks sembra non volersi sottrarre al confronto, controversa o delicata che sia la questione. E quando anche non risponde, ricorre all’ironia, lasciando tra il sorridente e il confuso il suo interlocutore. La comunicazione è il suo pane quotidiano, non ci sono barriere culturali o religiose che possano incrinarne la fiducia nella discussione dialettica, sia l’argomento prettamente ebraico o rivolto alla società intera. Differenza, peraltro, che tende ad assottigliarsi entrando in contatto con il pensiero del rav.
 


 

Nella sua parentesi romana, in cui si è trattenuto per un’udienza privata con Papa Benedetto XVI, ha toccato molti punti fortemente attuali: il dialogo religioso, il recupero di un’etica negli affari, la preoccupazione per un’Europa sempre più antireligiosa e in cui emergono nuove forme di discriminazione. Altro tema a lei caro è il rapporto tra ebraismo e comunicazione. Perché è così importante comunicare sia all’interno sia all’esterno del mondo ebraico?

Nella tradizione ebraica la parola ha sempre avuto un ruolo centrale. Come in Bereshit quando si parla della celebre Torre di Babele e la confusione delle lingue. O ancora quando nella Torah si fa riferimento all’odio dei fratelli verso Giuseppe e viene sottolineata la necessità di “Ledaber be shalom”, parlare in modo pacifico. Il linguaggio, le parole fanno parte del destino degli ebrei. L’invenzione dell’alfabeto ebraico, composto da ventidue lettere, è stata una vera rivoluzione sociale perché ha democratizzato la possibilità di imparare la lettura e la scrittura. Se pensiamo alla difficoltà di interpretazione degli ideogrammi egizi, ad esempio, comprendiamo quanto questo tipo di società letteraria fosse élitaria e non permettesse la divulgazione. L’alfabeto ebraico ha reso universale il mondo letterario. Dalla rivoluzione dell’alfabeto si è passati alla rivoluzione della stampa fino ad arrivare all’attuale nuova fase della comunicazione e del giornalismo istantaneo. Siamo oggi di fronte a fenomeni come Facebook o Google, grandi mezzi per informare e connettere le persone. Una comunicazione virtuale intrinseca nella tradizione ebraica perché può raggiungere tutti, ovunque, così come l’ebraico ha unito lungo i secoli tutti gli ebrei, sparsi per il mondo ma legati dalle stesse parole, rimasti in contatto fra di loro nonostante la distanza.

E come si lega l’uso di questa tecnologia con il ruolo di rav?

Come capo rabbino ho cercato di valorizzare questa tecnologia, partecipando ai dibattiti tv ad esempio sulla Bbc, intervenendo alla radio, scrivendo libri così come centinaia di articoli su quotidiani nazionali.
È un modo per avvicinare ed entrare in contatto con chi non frequenta la comunità, con chi non viene in sinagoga. Ma è anche una possibilità per parlare con il mondo non ebraico. Comunicare con l’esterno fa parte della nostra sfida come comunità, come minoranza all’interno della società.
Dobbiamo lavorare per trasmettere i nostri valori, condividerli con gli altri e confrontarci sulle grandi tematiche della modernità.

Lei ha citato i nuovi media, in particolare internet, un mezzo molto potente per diffondere informazioni, entrato ormai nelle case di centinaia di milioni di persone. Se da una parte è stata facilitata la comunicazione dall’altra è cresciuto in modo esponenziale il fenomeno dei blog, in cui spesso il rischio è che il dialogo scompaia e gli utenti diventino tanti monologanti. Alla luce di queste considerazioni, qual è il suo giudizio sul web?

Le hakol yesh gvul, tutto ha un limite. La tecnologia e internet sono un potentissimo strumento che permette di educare. Ma dall’altra parte in questa dimensione c’è un forte pericolo di incentivare la paranoia. Il contatto personale è minacciato, qual è il contatto che può esserci davanti a uno schermo? Il monitor ha un effetto divisore, le persone non stanno più realmente insieme, ma solo virtualmente. Il rapporto umano è molto importante nelle relazioni e per il futuro della nostra società. Ho deciso di venire a Roma per parlare con il papa (già incontrato mesi fa in occasione della sua visita in Gran Bretagna). I rapporti più profondi si stringono attraverso il contatto e non attraverso uno schermo.
 


Dignity of difference, la dignità della differenza è il titolo di una delle sue opere. Nei suoi innumerevoli interventi, così come in questo suo soggiorno romano, lei ha spesso citato la necessità di riconoscere la diversità dell’altro, di non portare avanti una filosofia di esclusione, ma di dialogare con i mondi differenti dal nostro. In particolare lei si è battuto e si batte ancora per portare avanti il dialogo interreligioso. Qual è il significato di questo impegno?

L’ebraismo è un’opposizione agli imperialismi e alle imposizioni. La diversità in terra significa unità in cielo. Non è possibile imporsi sugli altri, ma è doveroso dialogare con loro. E il presupposto per cominciare questo discorso è riconoscere il diritto di parola altrui. Chi nega il mio diritto di esistere, la mia identità o i miei diritti, non può essere qualificato come interlocutore. Inoltre, sul tema del dialogo interreligioso, dobbiamo cercare di cambiare prospettiva, di camminare fianco a fianco più che cercare il confronto frontale.

Le diversità fanno parte anche del mondo ebraico. Come autorevole voce dell’ortodossia ebraica e in qualità di capo rabbino del Commonwealth, qual è il suo atteggiamento nei confronti delle diverse correnti presenti nel mondo ebraico?

Cerchiamo di lavorare tutti insieme. Gli antisemiti non ci chiedono se siamo ortodossi, reform o conservative. Se loro non fanno differenze, anche noi possiamo superarle. Dobbiamo rimanere uniti e fare fronte comune davanti ai tanti problemi da affrontare. Certo le differenze restano, non possiamo dimenticare quelle teologiche, ognuno conserva la propria tradizione e ha le proprie scuole, la propria sinagoga in cui andare a pregare. Ma come possiamo rapportarci con il mondo se non c’è Shalom Beinenu, se non c’è pace tra di noi? Possiamo confrontarci anche duramente, ma il fondamento del nostro rapporto deve sempre essere il rispetto reciproco. Nello stesso modo sono sempre stato disponibile a confrontarmi con l’ebraismo secolare. Partecipo volentieri a dibattiti con ebrei laici. Spesso ci troviamo in disaccordo sulle tematiche che affrontiamo, ma il rispetto fra noi è sempre presente. E non posso dimenticare che questi dibattiti spesso mi permettono di imparare, di sviluppare le mie conoscenze. Chi ha detto che solo la religione può insegnarci delle cose? Dove c’è intelligenza, Chochmah, si può sempre imparare, si può continuare a crescere.

(Nei disegni di Giorgio Albertini un primo piano del rav Jonathan Sacks e mentre conversa insieme all'ex Presidente UCEI Renzo Gattegna)

Daniel Reichel - Pagine Ebraiche, gennaio 2012

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LA REDAZIONE DAVANTI AL RAV

"Parlare con tutti è il nostro dovere"

Il velluto nero della kippah rischia di trarre in inganno chi non riesce a vedere al di là delle apparenze. Quando appare la pattuglia di professionisti d’eccezione che lo affianca, si potrebbe scambiare lo staff del Rav per un gruppo di giovanotti appena usciti dalla Yeshivah, certo solidamente preparati nelle materie ebraiche, ma poco abituati a destreggiarsi con i media e i giornalisti. Ben Ullmann, il direttore degli Affari pubblici dell’Ufficio del Chief Rabbi ha al fianco Dan Sacker, direttore della Programmazione e della Comunicazione e l’assistente Darren Stalick. Nel momento in cui il rav Sacks fa la sua apparizione, il lavoro preparatorio è ben definito, le regole sono chiare. Sono uomini chiave che lavorano giorno dopo giorno per l’agenda di uno dei rabbini più ascoltati del mondo, lo aiutano a rivolgersi a milioni di persone, ebrei di ogni orientamento e non ebrei, lo assistono nella funzioni di componente della Camera dei Lord.
Giusto un sorriso, una stretta di mano, uno sguardo diritto, intenso. Poi la clessidra del suo tempo comincia a correre e le parole si allineano evitando il superfluo, i giri di fumo. Poche frasi bastano per aprire grandi orizzonti e il giornalista si rende conto di essere davanti a un formidabile comunicatore. 
 


 

Senza una sbavatura, senza un’ambiguità, il Rav sembra scrivere nell’aria con la voce, con i gesti ampi con cui accompagna il discorso. Daniel, il giovane giornalista incaricato dell’intervista, è emozionato. Noi colleghi (Adam Smulevich gli lancia un’occhiata di incoraggiamento) siamo con lui per assistere a un’intervista importante, ma anche per fargli coraggio. Domande e risposte si incontrano senza intoppi. Il Rav usa la stessa intensità nel parlare e nell’ascoltare, diffonde un senso di amicizia che mette tutti a proprio agio. Che si trovi di fronte alla gente della sua sinagoga di St John’s Wood, a pochi passi dallo studio di registrazione da dove i Beatles lanciavano una rivoluzione musicale e un messaggio di speranza alla gioventù di tutto il mondo, davanti alle telecamere della Bbc, assieme ai colleghi della Camera alta nel Parlamento del Regno Unito, che si rivolga alla regina o al papa, che tenga in piedi con il fiato sospeso le migliaia di rabbini e attivisti Lubavitch (molto sperimentati nelle tecniche di comunicazione) all’annuale oceanica convention di Brooklyn, poco importa. Il messaggio deve raggiungere chiaramente l’interlocutore, deve portare un equilibrio attento di amicizia, calore e chiarezza. Il messaggio deve essere chiaro e mettere in luce il valore della tradizione ebraica, la gioia di vivere una vita pienamente ebraica, il dovere che tutti gli ebrei condividono di essere d’esempio, di aiutare e restaurare il mondo ed esaltare il valore della differenza. Il Rav, infine, lo dice chiaro: parlare agli altri, lavorare ad alto livello professionale sul fronte della comunicazione, non è solo una nostra facoltà, ma anche un nostro dovere. Dobbiamo far sapere al mondo che esistiamo e di quali valori siamo portatori. Rinchiuderci nel silenzio, rinunciare alle potenzialità dei nuovi mezzi di comunicazione sarebbe un errore imperdonabile e moltiplicherebbe le insidie che da sempre minacciano una cultura di minoranza. Ma scendere in campo con le proprie parole, con le proprie idee, con il messaggio che gli ebrei si tramandano di generazione in generazione, non può significare una mitizzazione degli strumenti. E il Rav per primo mette in luce, di fronte alle enormi potenzialità, anche i limiti di strumenti che tendono a rinchiudere la gente nel monologo autoconsolatorio, nella pura affermazione di sé, nell’asserzione che non ammette contraddizione, nella tentazione di alzare la voce che maschera la paura di restare in ascolto.

Sono trascorsi appena quindici minuti, la tensione si è allentata, l’orizzonte è nitido. Le parole hanno preso forma, i progetti sembra di poterli toccare con mano. Prima della benedizione e del congedo, il Rav si intrattiene ancora con il presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna. L’intervista è ormai conclusa, i due leader si scambiano confidenze, opinioni e prospettive sul dialogo, sull’Europa, sul lavoro da compiere che attende le istituzioni ebraiche. Lo staff del Chief Rabbi dà un segno, è ora di rientrare a Londra. “Si torna al lavoro”, dice il Rav con un sorriso. Nelle ore intense che si lascia alle spalle, l’incontro con la Comunità nel tempio di via Padova, il colloquio con il papa, la lezione alla università Gregoriana e lo splendore di Roma alla prima luce dell’inverno.

g.v - Pagine Ebraiche, gennaio 2012

(Nel disegno di Giorgio Albertini l'incontro del rav Sacks con la redazione di Pagine Ebraiche, mentre sfoglia il giornale dell'ebraismo italiano con l'ex Presidente UCEI Renzo Gattegna e durante la successiva intervista) 

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GLI AUGURI DI ISRAELE A JOE BIDEN E KAMALA HARRIS

"Relazioni speciali, lavoreremo bene insieme"

Molte reazioni, anche in Israele, all'elezione di Joe Biden. In un messaggio pubblicato stamane su Twitter il Primo ministro Benjamin Netanyahu scrive: "Abbiamo quasi 40 anni di calorosa conoscenza alle spalle. Ti riconosco come un grande amico di Israele e non vedo l'ora di lavorare con te per rafforzare la speciale alleanza tra i nostri due Paesi". In un secondo messaggio Netanyahu ha ringraziato Trump "per l'amicizia dimostrata verso Israele e me personalmente, per aver riconosciuto Gerusalemme e il Golan, per aver agito contro l'Iran, per gli storici accordi di pace e per aver portato il rapporto tra Stati Uniti e Israele a un livello senza precedenti". 
Parole di apprezzamento sia per il neo presidente che per il suo predecessore sono state espresse anche dal Presidente Reuven Rivlin, che dice di non aver dubbi sul fatto "che le nostre speciali relazioni e la nostra multiforme cooperazione continuerà a fiorire e crescere". 
Anche il capo dell'opposizione Yair Lapid, il ministro della Giustizia Avi Nissenkorn e il leader del partito Yamin Naftali Bennett hanno inviato un messaggio. “Congratulazioni al presidente eletto: al mio amico Joe Biden e al suo vice presidente Kamala Harris”, ha dichiarato Lapid. “Il rapporto tra Israele e gli Stati Uniti si basa su valori e interessi condivisi che sono sicuro saranno al centro del vostro lavoro”, le parole del capo dell'opposizione. “Sono sicuro che lo stretto e forte legame tra gli Stati Uniti e Israele si rafforzerà sotto l'amministrazione di Biden”, ha aggiunto Nissenkorn. In un'intervista con il Canale 12, Bennett si è detto convinto che Biden sarà impegnato a garantire la sicurezza di Israele.

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La scelta di Abramo
Ci sono pagine di libro che segnano una svolta, quando si leggono mettendosi in ascolto. Così è stata, per me, l’esperienza di leggere «La scelta di Abramo» (Bollati Boringhieri) di Włodek Goldkorn. Riprendo un punto a proposito di ciò che abbiamo letto nella parashah di ieri.
Nella scena del monte Moriah i protagonisti sono due: il silenzio che accompagna il viaggio di Abramo e di suo figlio Isacco e il moto di coscienza che è il gesto della mano che si ferma.
                                                                          David Bidussa
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Le variabili dipendenti
Viviamo tempi straordinari. L’aggettivo è per nulla entusiastico. L’etimo di straordinarietà, infatti, riposa nella radice latina: extraordinarius, composto di extra «fuori» e ordo-dĭnis «ordine». Siamo immobilizzati dentro lockdown parziali o totali, con un andamento carsico (apertura, chiusura, riapertura) nel mentre vediamo la nostra vita svolgersi sotto i nostri occhi, sentendocene espropriati. Il tutto si velocizza.
Claudio Vercelli
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