L’intervista a Pagine Ebraiche
“Diversità in terra, unità in cielo”

Cosa farà rav Jonathan Sacks quando smetterà i panni di rabbino capo del Commonwealth? A porsi questa domanda sono in molti perché la fine del suo mandato si avvicina. Dovid Efune, direttore dell’Algemeiner di Brooklyn ipotizza che farà il giornalista. Divulgatore straordinario, da vent’anni alla guida dell’ebraismo britannico, si è affermato come una delle voci più autorevoli del panorama europeo e internazionale. Nel vecchio continente probabilmente nessuno è riuscito a trasmettere il senso e il significato dell’ebraismo nella modernità come Lord Sacks.

Un titolo che testimonia il rispetto che oltre Manica concittadini e istituzioni riservano al capo rabbino. Figlio di esuli polacchi, fuggiti in Gran Bretagna prima dell’avvento del nazismo, passa la sua infanzia ad Aldgate, sobborgo di Londra dove fino alla seconda guerra mondiale sorgeva la Grande Sinagoga, luogo simbolo dell’ebraismo inglese. E, quasi a chiudere il cerchio, nel novembre 2009 Sacks è stato nominato Lord proprio di Aldgate, secondo rabbino a sedere nella Camera alta del Parlamento britannico. Dottore in filosofia all’università di Oxford, ieri come oggi ha sempre combattuto la secolarizzazione dell’Europa, in particolare quando questo processo è andato a minare le fondamenta della tradizione ebraica. Ma è un uomo secolare, laico, ateo a diventare uno dei grandi maestri di rav Sacks: Sir Bernard Williams, “l’ateo intellettualmente più dotato d’Inghilterra” come lo definì lo stesso Sacks. “Non cercò mai di sfidare o svalutare la mia fede religiosa. Per lui partecipavamo entrambi e alla pari nella ricerca della verità”.

Il coinvolgente e puntuale humor inglese, la capacità oratoria e l’immensa cultura sono alcuni dei caratteri di un personaggio da cui è difficile non rimanere affascinati. In prima fila nel difficile cammino del dialogo interreligioso, Sacks sembra non volersi sottrarre al confronto, controversa o delicata che sia la questione. E quando anche non risponde, ricorre all’ironia, lasciando tra il sorridente e il confuso il suo interlocutore. La comunicazione è il suo pane quotidiano, non ci sono barriere culturali o religiose che possano incrinarne la fiducia nella discussione dialettica, sia l’argomento prettamente ebraico o rivolto alla società intera. Differenza, peraltro, che tende ad assottigliarsi entrando in contatto con il pensiero del rav.

Nella sua parentesi romana, in cui si è trattenuto per un’udienza privata con Papa Benedetto XVI, ha toccato molti punti fortemente attuali: il dialogo religioso, il recupero di un’etica negli affari, la preoccupazione per un’Europa sempre più antireligiosa e in cui emergono nuove forme di discriminazione. Altro tema a lei caro è il rapporto tra ebraismo e comunicazione. Perché è così importante comunicare sia all’interno sia all’esterno del mondo ebraico?

Nella tradizione ebraica la parola ha sempre avuto un ruolo centrale. Come in Bereshit quando si parla della celebre Torre di Babele e la confusione delle lingue. O ancora quando nella Torah si fa riferimento all’odio dei fratelli verso Giuseppe e viene sottolineata la necessità di “Ledaber be shalom”, parlare in modo pacifico. Il linguaggio, le parole fanno parte del destino degli ebrei. L’invenzione dell’alfabeto ebraico, composto da ventidue lettere, è stata una vera rivoluzione sociale perché ha democratizzato la possibilità di imparare la lettura e la scrittura. Se pensiamo alla difficoltà di interpretazione degli ideogrammi egizi, ad esempio, comprendiamo quanto questo tipo di società letteraria fosse élitaria e non permettesse la divulgazione. L’alfabeto ebraico ha reso universale il mondo letterario. Dalla rivoluzione dell’alfabeto si è passati alla rivoluzione della stampa fino ad arrivare all’attuale nuova fase della comunicazione e del giornalismo istantaneo. Siamo oggi di fronte a fenomeni come Facebook o Google, grandi mezzi per informare e connettere le persone. Una comunicazione virtuale intrinseca nella tradizione ebraica perché può raggiungere tutti, ovunque, così come l’ebraico ha unito lungo i secoli tutti gli ebrei, sparsi per il mondo ma legati dalle stesse parole, rimasti in contatto fra di loro nonostante la distanza.

E come si lega l’uso di questa tecnologia con il ruolo di rav?

Come capo rabbino ho cercato di valorizzare questa tecnologia, partecipando ai dibattiti tv ad esempio sulla Bbc, intervenendo alla radio, scrivendo libri così come centinaia di articoli su quotidiani nazionali.
È un modo per avvicinare ed entrare in contatto con chi non frequenta la comunità, con chi non viene in sinagoga. Ma è anche una possibilità per parlare con il mondo non ebraico. Comunicare con l’esterno fa parte della nostra sfida come comunità, come minoranza all’interno della società.
Dobbiamo lavorare per trasmettere i nostri valori, condividerli con gli altri e confrontarci sulle grandi tematiche della modernità.

Lei ha citato i nuovi media, in particolare internet, un mezzo molto potente per diffondere informazioni, entrato ormai nelle case di centinaia di milioni di persone. Se da una parte è stata facilitata la comunicazione dall’altra è cresciuto in modo esponenziale il fenomeno dei blog, in cui spesso il rischio è che il dialogo scompaia e gli utenti diventino tanti monologanti. Alla luce di queste considerazioni, qual è il suo giudizio sul web?

Le hakol yesh gvul, tutto ha un limite. La tecnologia e internet sono un potentissimo strumento che permette di educare. Ma dall’altra parte in questa dimensione c’è un forte pericolo di incentivare la paranoia. Il contatto personale è minacciato, qual è il contatto che può esserci davanti a uno schermo? Il monitor ha un effetto divisore, le persone non stanno più realmente insieme, ma solo virtualmente. Il rapporto umano è molto importante nelle relazioni e per il futuro della nostra società. Ho deciso di venire a Roma per parlare con il papa (già incontrato mesi fa in occasione della sua visita in Gran Bretagna). I rapporti più profondi si stringono attraverso il con- tatto e non attraverso uno schermo.

Dignity of difference, la dignità della differenza è il titolo di una delle sue opere. Nei suoi innumerevoli interventi, così come in questo suo soggiorno romano, lei ha spesso citato la necessità di riconoscere la diversità dell’altro, di non portare avanti una filosofia di esclusione, ma di dialogare con i mondi differenti dal nostro. In particolare lei si è battuto e si batte ancora per portare avanti il dialogo interreligioso. Qual è il significato di questo impegno?

L’ebraismo è un’opposizione agli imperialismi e alle imposizioni. La diversità in terra significa unità in cielo. Non è possibile imporsi sugli altri, ma è doveroso dialogare con loro. E il presupposto per cominciare questo discorso è riconoscere il diritto di parola altrui. Chi nega il mio diritto di esistere, la mia identità o i miei diritti, non può essere qualificato come interlocutore. Inoltre, sul tema del dialogo interreligioso, dobbiamo cercare di cambiare prospettiva, di camminare fianco a fianco più che cercare il confronto frontale.

Le diversità fanno parte anche del mondo ebraico. Come autorevole voce dell’ortodossia ebraica e in qualità di capo rabbino del Commonwealth, qual è il suo atteggiamento nei confronti delle diverse correnti presenti nel mondo ebraico?

Cerchiamo di lavorare tutti insieme. Gli antisemiti non ci chiedono se siamo ortodossi, reform o conservative. Se loro non fanno differenze, anche noi possiamo superarle. Dobbiamo rimanere uniti e fare fronte comune davanti ai tanti problemi da affrontare. Certo le differenze restano, non possiamo dimenticare quelle teologiche, ognuno conserva la propria tradizione e ha le proprie scuole, la propria sinagoga in cui andare a pregare. Ma come possiamo rapportarci con il mondo se non c’è Shalom Beinenu, se non c’è pace tra di noi? Possiamo confrontarci anche duramente, ma il fondamento del nostro rapporto deve sempre essere il rispetto reciproco. Nello stesso modo sono sempre stato disponibile a confrontarmi con l’ebraismo secolare. Partecipo volentieri a dibattiti con ebrei laici. Spesso ci troviamo in disaccordo sulle tematiche che affrontiamo, ma il rispetto fra noi è sempre presente. E non posso dimenticare che questi dibattiti spesso mi permettono di imparare, di sviluppare le mie conoscenze. Chi ha detto che solo la religione può insegnarci delle cose? Dove c’è intelligenza, Chochmah, si può sempre imparare, si può continuare a crescere.

(Nei disegni di Giorgio Albertini un primo piano del rav Jonathan Sacks e mentre conversa insieme all’ex Presidente UCEI Renzo Gattegna)

Daniel Reichel, Pagine Ebraiche gennaio 2012

(8 novembre 2020)