Se non leggi correttamente questo messaggio, clicca qui      22 Gennaio 2021 - 9 Shevat 5781
L'INTERVENTO  

Giù le mani da Bartali (e dalla Memoria)


La ventunesima tappa del Giro d’Italia del 1982 ripropose il percorso della celebre tappa del 1949 in cui trionfò Coppi, con il Colle della Maddalena, il Col de Vars, l’Izoard (Cima Coppi), il Monginevro e il Sestriere. Vinse Saronni in volata davanti a Hinault. In quegli anni ero appassionato di ciclismo. Chiedo scusa ai miei lettori, ma il mio intervento è guastato dall’ira, fatico a controllarmi. Bartali per me rimane un mito intoccabile. Ho controllato in rete: era il 5 giugno, il Giro fece tappa nella mia città. Lo conferma la dedica autografa sopra un manifesto con la famosa foto del passo Galibier dove si vede il passaggio della borraccia tra Bartali e Coppi. Il manifesto con dedica lo ebbi quel giorno dalle mani stesse di Bartali. Scattai la foto che vedete in basso, non è granché lo ammetto, ci sono affezionato. Bartali da inviato seguiva il Giro, era piuttosto vecchio, non ricordo chi volle che incontrasse mio padre. Oggi dicono che non parlasse mai dell’aiuto recato agli ebrei durante l’occupazione tedesca perché, forse, non aveva aiutato nessuno: il suo mito lo avremmo inventato noi posteri. Non è così, posso recare testimonianza del contrario: mio padre rimase impressionato da quella conversazione, tanto è vero che incollò dietro la fotografia un ritaglio di giornale. Purtroppo non c’è data e non si dice da quale giornale sia stato sforbiciato: “Nel libro c’è un solo episodio che non avevo avuto modo di controllare, ma che mi era stato raccontato da una persona seria, ed è quello legato al nome di Gino Bartali. Durante la guerra il campione toscano, con il pretesto di allenamenti, ha percorso parecchie volte il tratto Firenze-Assisi per portare messaggi del cardinale Dalla Costa al Vescovo Nicolini. Successivamente l’attività di ‘corriere clandestino’ di Bartali mi è stata confermata dall’interessato e nel film lo vedremo impersonato dall’attore Alfredo Pea”.


Il film di cui si parla è naturalmente “Assisi underground”, che uscirà tre anni dopo e non avrà il successo planetario che avrà molti anni dopo il film di Benigni. I tempi non erano ancora maturi. Di quell’attività clandestina Bartali parlava, eccome, il problema è che nessuno dei detrattori odierni si ricorda del clima che si respirava nella prima metà degli anni Ottanta. Detto in modo brutale, che Bartali portasse o non portasse messaggi in bicicletta non importava a nessuno. Chi c’era ad ascoltarlo? Da allora sono passati quarant’anni, il vento ha fatto il suo giro e il povero Bartali senza che si possa difendere è finito nei guai. Prendersela con lui è diventato uno sport nazionale. Nel 2019 qualcuno ha messo in dubbio anche la foto del Galibier, sostenendo che è un fotomontaggio. Adesso Stefano Pivato, che in un precedente volume, quando la memoria della Shoah era in fase espansiva, aveva cavalcato il mito, ritratta e con il figlio Marco firma l’abiura (L'ossessione della memoria. Bartali e il salvataggio degli ebrei, una storia inventata, Castelvecchi). Una recensione di Stella sul Corriere ha suscitato un putiferio, nel quale non intendo entrare, perché la discussione mi crea solo tristezza. Guai a chi ci tocca i miti della giovinezza. Si è disposti a ridimensionarli, non si accetta che vengano abbattuti  con deboli argomentazioni. Com’è caduta in basso la nostra storiografia, come ondeggia la riflessione sulla memoria a seconda del soffiare del vento! Oggi tutti in coro denunciano gli abusi della memoria, i Guardiani della memoria sono presi di mira, un segno dei nostri smemorati tempi; va di moda infrangere i tabù, è accaduto con Primo Levi, adesso tocca a Bartali. Qualche anno fa Ariel Toaff ha riscritto le sue Pasque di sangue, ma l’argomento del suo libro aveva ben altra sostanza delle pedalate di Gino, senza dire che ha fatto abiura da solo guardandosi bene dal chiedere soccorso a suo figlio. Qui il caso-Bartali/Pivato mi sembra avere obiettivi extra-storiografici, diciamo pure che di mira si prende Yad Vashem e il Tribunale dei Giusti, che ha le sue regole e avrà anche i suoi limiti, chi lo nega, ma che cosa c’entrano questi limiti con la seria ricerca storiografica? Si parva licet, ostinarsi a cercare in quei dossier di Yad Vashem (o altrove) le carte d’archivio che attestino l’aiuto effettivo recato da Bartali è come pretendere di trovare negli archivi vaticani il documento con il quale il papa avrebbe ordinato per iscritto l’apertura dei conventi romani agli ebrei nella Roma occupata. Non sono gesti che lascino una traccia scritta: nelle alte sfere del Vaticano come nelle tipografie dove chi fabbricava carte false non registrava sul suo taccuino chi le aveva ordinate e  a chi le consegnava. Rimane la testimonianza orale dei salvati, sulla quale di solito si fonda, a torto o a ragione, il giudizio del Tribunale dei Giusti che non può essere lo stesso degli storici. Chi fa il mestiere di storico dovrebbe cogliere questa differenza e quando analizza i fatti del passato non dovrebbe usare lo stesso metro di giudizio, ma è chiedere troppo, bisogna rassegnarsi.
Rivendico il diritto di credere che quella borraccia sia davvero passata di mano e qualche cosa Bartali abbia fatto davvero pedalando fra Firenze e Assisi. Rivendico anche il diritto di leggere libri di storia su problemi veri e non finti. Pivato e come lui altri che lamentano l’ossessione della memoria dimostrano di non avere buona memoria. Dov’erano, che cosa facevano e che cosa scrivevano – di quel periodo e di quelle persecuzioni – fino al 1989-1990? Bartali seguiva il Giro d’Italia, felice e sorridente: se gli facevano incontrare chi aveva sofferto quelle stesse persecuzioni volentieri raccontava ciò che aveva fatto lui, senza vantarsi più di tanto. A lui interessava vedere se la pedalata di Hinault era comparabile alla sua. Del resto aquell’epoca nessuno gridava contro l’ossessione della memoria, contro le liturgie del 27 gennaio: i testimoni di quegli eventi erano soli, un cupo silenzio gravava intorno a loro. I nati post-2001, i giovani cresciuti con i martellanti 27 gennaio faticano a immaginare che cosa fosse l’Italia smemorata degli anni Settanta e Ottanta. Il caso-Bartali, i due libri su di lui firmati da uno stesso autore se mai dimostrano le capriole, non le ossessioni  della memoria pubblica italiana. 
Che si dirà, in Italia, dei Giusti e dei Malvagi nel 2030, nel 2040? Nessuno è in grado di prevedere, da noi il vento cambia spesso direzione. L’avvenire è incerto, ma sappiamo già che Pivato scriverà un terzo libro sul caso-Bartali, ne siamo certi, a quattro mani con il nipotino.

Alberto Cavaglion

(Nell’immagine in alto il nome di Gino Bartali sul muro dei "Giusti" dello Yad Vashem; in basso il leggendario ciclista insieme ad Enzo Cavaglion)

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LA TAVOLA ROTONDA UCEI-PALAZZO CHIGI

Fascismi di ieri, fascismi di oggi

Vi è una precisa responsabilità italiana – del regime fascista con tutte le sue caratterizzazioni – che ha portato alla guerra, alla persecuzione e al concretizzarsi dello sterminio degli ebrei italiani. Il modo in cui il fascismo è penetrato nella cultura italiana, il modo in cui si è affermato, le matrici di organizzazione dello Stato e del potere, le violenze e il sistema propagandistico – denigratorio da un lato e di mitizzazione dall’altro – sono stati oggetto di studio e di ricerca, ma ancora vi è insufficiente conoscenza, consapevolezza e senso di responsabilità per questo passato.
Il tema costituirà uno dei cardini della tavola rotonda “Fascismi di ieri e fascismi di oggi”, organizzata per martedì 26 gennaio alle ore 11 dal Comitato di Coordinamento per le Celebrazioni in Ricordo della Shoah presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri e dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. 
L’evento, che sarà trasmesso in streaming da Palazzo Chigi (Facebook e YouTube) e UCEI (Facebook e webtv), si aprirà con i saluti della Presidente UCEI Noemi Di Segni e del segretario generale della Presidente del Consiglio Roberto Chieppa.
Introdotti e moderati da Giorgio Giovannetti, interverranno Annalisa Cegna, Michele Sarfatti, Furio Colombo e Maurizio Molinari.

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Costruzione di un Meme
Nei giorni del voto di fiducia al governo ha cominciato a circolare sui social un nuovo Meme, costruito ad hoc per elevare l’asticella del discorso d’odio alimentandola spesso con elementi di pregiudizio antisemita. L’operazione è il frutto di una strategia comunicativa che si è avvalsa di diversi elementi, tutti giustamente evidenziati e respinti da Stefano Jesurum ieri su queste pagine. Primo passo: si sceglie il volto di un personaggio famoso. Nel nostro caso Liliana Segre, perfetta in questo ruolo e in questo momento. Ebrea e parlamentare (cioè esponente della “casta”). Per non farci mancare nulla si approfitta del fatto che nel periodo che precede il Giorno della Memoria gli ebrei sono più visibili, fanno più rumore mediatico.
 
Gadi Luzzatto Voghera
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Un grande chazan
Con rav Vittorio Haim Della Rocca condividevo un interesse unico per le segrete bellezze della “chazanuth”. Potevamo discutere ore su una sfumatura musicale di “Veshamru”, diversa dall’interpretazione di rav Eliseo, un grande interprete del canto sinagogale romano, di cui era stato un grande amico ed estimatore.
“Al di là della correttezza musicale nella formulazione musicale del brano”, mi chiedeva spesso, “è meglio soffermarsi sulla parola ‘benì’ per poi proseguire, oppure dire ‘benì uben’ e poi andare oltre?”
David Meghnagi
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La mitzvà del racconto
Per tutti gli ebrei romani e per chi ha avuto l’onore di conoscerlo sono ore di grande lutto: il caro Morè (così amava essere chiamato) Vittorio Haim Della Rocca ci ha lasciati. Sta ormai dirigendosi verso la sua dimora definitiva e il mio cuore è affranto nel non poterlo salutare per l’ultima volta e per non poter essere vicino a Roberto, amico di sempre, e a Jonatan, i suoi figli. Il Morè Della Rocca era conosciuto, amato, stimato nel mondo rabbinico, ma soprattutto dalla “sua” Comunità ebraica di Roma, delle cui origini era fiero e orgoglioso.
Rav Alberto Sermoneta
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La domanda bizzarra
Spesso, soprattutto quando si avvicina il Giorno della Memoria, capita di sentir chiedere “Perché si parla tanto di Shoah e non di …?”; il seguito dipende solitamente dalla collocazione politica di chi ha posto la domanda: nella variante di destra si parla dei gulag o delle foibe, nella variante di sinistra si parla dei palestinesi (anche se stanno passando di moda); poi ci sono varianti “neutre” che vanno dallo sterminio dei popoli americani nel XV secolo al genocidio degli armeni. Ora, che di alcuni argomenti (e certamente il genocidio degli armeni è tra questi) si parli troppo poco e ci siano colpevoli silenzi e negazioni è certamente vero. Ma perché si dovrebbe parlarne proprio nel giorno dedicato a un altro tema?
Anna Segre
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La Tunisia e gli ebrei
In un video circolato su internet il presidente della Repubblica tunisina Kais Saied incontra alcuni cittadini della cité di Mnihla, un sobborgo popolare della banlieue di Tunisi. Durante un confusionario passaggio del discorso, parlando delle recenti proteste giovanili scoppiate nel paese, sembra attribuire agli ebrei la responsabilità e la stessa partecipazione ai disordini. La polemica è scoppiata su alcuni canali tunisini, ed è poi stata ripresa e commentata anche in ambito ebraico.
 
Francesco Moises Bassano
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