Un grande chazan
Con rav Vittorio Haim Della Rocca condividevo un interesse unico per le segrete bellezze della “chazanuth”. Potevamo discutere ore su una sfumatura musicale di “Veshamru”, diversa dall’interpretazione di rav Eliseo, un grande interprete del canto sinagogale romano, di cui era stato un grande amico ed estimatore.
“Al di là della correttezza musicale nella formulazione musicale del brano”, mi chiedeva spesso, “è meglio soffermarsi sulla parola ‘benì’ per poi proseguire, oppure dire ‘benì uben’ e poi andare oltre?”
Voleva sapere che cosa pensassi. Potrebbe sembrare un fatto secondario. Per chi vive dall’interno la potenza evocativa di un “ta’am”, i mondi di interiori che rende possibile attraversare, non lo è. Il suo “Yafuzu” nella solenne preghiera di Kippur, la dolente evocazione del pianto sulle rive di Babilonia nel Nove di Av, chi potrà dimenticarli.
Cresciuto orfano, mi parlava spesso del padre morto ad Auschwitz, di un intero mondo che gli era stato violentemente carpito. Aveva trovato in rav Prato una guida morale e religiosa, di cui parlava con grande affetto, rispetto e considerazione.
Era orgoglioso dei figli e dei nipoti, felice che Eitan avesse conseguito di recente il titolo di “maskil” e mentre assisteva con il figlio Roberto e gli altri famigliari alla discussione che si svolgeva online, avrà pensato con nostalgia al padre e avrà fantasticato che era lì presente con loro e assisteva alla discussione. E avrà pensato a Kohelet: “Un filo a tre punte non si spezza facilmente”. Possa il suo ricordo essere di benedizione.
David Meghnagi, psicoanalista, Prof. senior Roma Tre
(22 gennaio 2021)