Se non leggi correttamente questo messaggio, clicca qui     16 Aprile 2021 - 4 Iyar 5781
LA POPOLARE SERIE TV VISTA DAI RABBINI ITALIANI

"Shtisel e quei pregiudizi da sfatare 
che vivono anche tra di noi"

C’è chi la terza stagione se l’è divorata in un paio di notti. E chi invece se l’è goduta a un ritmo meno sostenuto, una puntata alla volta. In ogni caso, anche tra i rabbini italiani, l’attesissimo ritorno di Shtisel, la serie tv sui Haredim diventata ormai un cult a livello mondiale, non è passato inosservato.
Opinione diffusa: siamo in presenza di un piccolo capolavoro. Anche se non mancano gli interrogativi.
“Shtisel mi piace. Non è una di quelle che serie che possono offendere il mondo ebraico” dice rav Pierpaolo Pinhas Punturello, coordinatore degli studi ebraici del Centro Ibn Gabirol Colegio Estrella Toledano di Madrid. “Mi pongo però delle domande: un non ebreo o un ebreo poco coinvolto cosa possono capire? Che idea si fanno? Pensano che solo quello sia l’ebraismo? Percepiscono la particolarità di quel microcosmo?”. Guardare Shtisel, prosegue il rav, si è rivelata nel suo insieme “un’esperienza molto più dolce e piacevole” rispetto ad Unorthodox, altra serie di successo sui Haredim ma connotata da una diversa caratterizzazione dei personaggi e del loro universo di relazioni. “Quello dei Haredim – osserva rav Punturello – non è certo un monolite. Le trasformazioni sono forse impercettibili da fuori, ma ci sono, stanno avvenendo. La grande forza di Shtisel, ad esempio, è quella di gettare una luce sulla progressiva emancipazione femminile”. Altro tema che lo ha intrigato è il racconto, la finestra che si va ad aprire sui Haredim sefarditi. “Un mondo che, essendo anche israeliano e avendo vissuto a lungo in Israele, conosco molto bene. L’ho ritrovato esposto in modo autentico, vero”. Un personaggio preferito c’è? “No – risponde il rav – più che i singoli personaggi a colpirmi sono state le situazioni e i temi affrontati. Anche i gesti di ribellione, piccoli e grandi, che danno il sale alla trama”. Shtisel è una serie seguita in tanti Paesi. Anche in Spagna molti la stanno vedendo e commentando. “Persino El Pais mi ha chiesto un’opinione”, sottolinea il rav. “Viene da chiedersi – aggiunge poi – perché tanto interesse globale verso una comunità che una volta aveva le sue radici in Europa e che oggi, per quel che è avvenuto nel secolo scorso, non le ha più. Può essere forse, in parte, anche un po’ di senso di colpa?”. 
“Nessuna delle tre stagioni mi è dispiaciuta. Anzi, sono molto piacevoli. Abbastanza aderenti, nei limiti del possibile, a quella che è la realtà” afferma rav Adolfo Locci, rabbino capo di Padova. Una realtà, quella dei Haredim, spesso osservata con pregiudizio anche dentro al mondo ebraico. “Tanti, tra noi, sanno ben poco di questo mondo. E spesso – prosegue il rav – lo giudicano con il filtro di stereotipi e preconcetti”. Shtisel ha il merito di portarci in una dimensione intima: non ci sono effetti spettacolari, la trama si dipana lungo una quotidianità che si potrebbe definire “normale”. Per il rav è proprio quello il valore aggiunto, l’origine del suo successo: “Viviamo in una società che ha smarrito una parte dei propri valori fondamentali. L’interesse verso Shtisel me lo spiego anche così. Con la volontà di riscoprire una dimensione un po’ perduta. Un contesto in cui si sta tutti seduti attorno a una tavola. In cui ci si parla, in cui ci si confronta. Eventi sempre più rari, purtroppo, nelle nostre case”. Non c’è personaggio, sostiene il rav, che non abbia un suo significato forte. La “variabile impazzita costituita dall’estroso Akiva”, ma anche “Giti, con il suo sforzo per tornare alla normalità dopo la crisi con il marito”. E ancora Lippe, “che consapevole dei propri errori si pente, fa teshuvà”. Dal punto di vista della recitazione il preferito è Dov Glickman, l’attore che interpreta Shulem. “Formidabile”, chiosa rav Locci.
Secondo rav Alexander Meloni, rabbino capo di Trieste, Shtisel va vista il più possibile in lingua originale. ”È la grande bellezza di una serie come questa: l’ebraico parlato alla maniera dei religiosi, molto diverso da quello dell’israeliano laico. E poi lo yiddish, così ricco nelle sue espressioni. Con la traduzione si perde molto di questo patrimonio. Anche – fa notare – il senso dell’umorismo che caratterizza varie scene e dialoghi”. Solo una minima parte del pubblico di Shtisel ha gli strumenti per affrontare questa sfida. “Infatti è un gran peccato. Lo stesso è un’opportunità per rivedere pregiudizi che esistono, anche dentro al mondo ebraico, sui Haredim. Il loro lato umano spicca con forza. Così come il costante tentativo di affrontare i problemi della vita di ogni giorno nel segno della Halakhah ma anche di uno possibile mediazione”. È, dice il rav, il tema di sempre: “Mantenere la Legge, andando però incontro all’individuo”. Una sfida che emerge chiaramente nei rapporti familiari, specie tra Shulem e suo figlio Akiva. “Quello di un figlio artista – afferma rav Meloni – è un problema non di poco conto. Lo stesso, col tempo, si riuscirà a trovare un compromesso. Ciascuno farà un passo verso l’altro. Shulem e Akiva sono due personaggi emblematici”. Nel complesso Shtisel è, per il rav, “una serie più che positiva”. Molto “più vera e giusta”, nella sua rappresentazione, di Unorthodox. 
Entusiasta di Shtisel è anche rav Alberto Sermoneta, rabbino capo di Bologna. “Dico solo questo. La gente mi ferma per strada e mi chiede un parere. Cosa penso della serie, della trama, dei personaggi. Un interesse genuino, che riscontro quasi ogni giorno in prima persona. Tutto ciò è molto positivo. Anche – osserva il rav – per l’immagine dell’ebraismo”. L’impressione che si ricava, dice infatti, è quella “di una società permeata da grande umanità”. Un mondo “ricco anche di sfumature” e in cui le donne, diversamente da quel che in genere si pensa sui Haredim, “hanno un ruolo di assoluta centralità e significato: basti pensare a come, in Shtisel, mettono in riga i mariti”. E poi gli affetti: “Le relazioni familiari, ancorate su solide basi. Il desiderio di assicurare ai propri figli il destino migliore. Un mondo sano, solcato da valori profondi e autentici. Tutto quello che ‘da noi’ si sta un po’ perdendo”. Il personaggio preferito è Shulem: “Nelle espressioni, nelle risposte, nel modo di fare, mi ricorda un po’ rav Laras. È anche un chacham: gli sottoponi un problema, e lui saprà sempre darti una risposta empatica. In qualunque situazione e contesto lo si andrà a interpellare”. Shtisel, secondo rav Sermoneta, è pregevole sotto diversi aspetti. Anche dal punto di vista della sceneggiatura: “Un lavoro ottimo. Sembra davvero di stare a Mea Shearim…”. 
Tra i fan di Shtisel c’è anche Manuel Moscato, romano, che ha da poco acquisito il titolo rabbinico di maskil. “Ho visto la terza serie in ebraico. Veramente molto bella. Non vedo l’ora – commenta – che arrivi la quarta”. Ad affascinarlo la vita matrimoniale “che Hanina e Ruchami iniziano a costruire sin da giovani”. Più problematico il personaggio di Giti che, osserva Moscato, “vuole a tutti i costi” che suo figlio si sposi con una ragazza ashkenazita (mentre lui è innamorato di una sefardita).
A risaltare è così una netta diversità di approccio tra marito e moglie. Con il primo, Lippe, che “capisce quello che prova il figlio e cerca di dargli dei consigli”, mentre Giti al contrario “lo costringe a sposare la ragazza che non ama”. Una scelta che ha urtato Moscato perché, ricorda, “un genitore deve ‘vedere’ la felicità del proprio figlio, consigliandolo e accompagnandolo nelle sue scelte”. Agendo diversamente, invece di felicità troverà infatti “solo tristezza”. 
 

Adam Smulevich

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Ritorno alla normalità e dialogo 
Forse il dato che più sorprende della crisi che stiamo vivendo è la dominante aspirazione a fare ritorno alla normalità. A una normalità purchessia. Si tratta di una propensione legittima, a fronte di un’emergenza che si protrae da troppo tempo e al cospetto dei troppi lutti cui abbiamo assistito. Eppure, colpisce la scarsa propensione a considerare quel che ci sta capitando come una conseguenza diretta di quella “normalità” a cui si aspira a fare ritorno al più presto. Si stenta cioè a cogliere l’enormità di quel che sta avvenendo e l’opportunità che ci viene data (se abbiamo la fortuna di trovarci in buona salute) di mettere in discussione in maniera radicale il “prima”, con le sue dinamiche distorte e le sue derive malate.
 
Gadi Luzzatto Voghera
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L'odio danneggia tutti
“Rabby Yehoshu’a affermava: L’occhio cattivo, l’istinto cattivo e l’odio verso le creature allontanano l’uomo dal mondo (Avòt 2;16).
In queste poche parole si leggono quelle che sono le manifestazioni peggiori di un uomo che vive una vita piena di incertezze e anche di sofferenze. Il maestro, elencando le varie manifestazioni negative, inizia con l’occhio cattivo. Esso non vuole intendere una influenza negativa verso qualcun altro, bensì la gelosia e il livore che si può nutrire nei confronti di qualcuno e che porta alla distruzione psicologica di chi lo nutre.
Rav Alberto Sermoneta
Proporzioni sproporzionate 
È sconcertante quanto la gente fatichi a mettere a fuoco le proporzioni. Si nota da certe valutazioni bizzarre a scuola, dal peso eccessivo attribuito a fenomeni limitati, e in molti altri ambiti. Ci sono però proporzioni oggettivamente difficili da gestire. Noi ebrei in Italia siamo molto meno dell’uno per mille. Quindi basterebbe un solo ebreo in parlamento perché qualcuno potesse sostenere che abbiamo un peso politico eccessivo rispetto alla nostra consistenza numerica; allo stesso modo basterebbe un ebreo che dirige un quotidiano per poter dire che gli ebrei hanno un peso eccessivo nella stampa. 
Anna Segre
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One of us
“Hanno progettato una società in cui è impossibile farcela nel mondo esterno. Hanno progettato un mondo in cui, se te ne vai, l’unico modo di sopravvivere è diventare un criminale. Chi se ne va, alla fine torna o finisce in galera o in comunità di recupero. Non ce la fanno mai là fuori.” 
Luzer è un ex membro della comunità hassidica di South Williamsburg, Brooklyn, attualmente un attore televisivo. Insieme a egli, Etty e Ari sono i protagonisti del lungometraggio “One of us” di Heidi Ewing e Rachel Grady (2017).
 
Francesco Moises Bassano
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