One of us

“Hanno progettato una società in cui è impossibile farcela nel mondo esterno. Hanno progettato un mondo in cui, se te ne vai, l’unico modo di sopravvivere è diventare un criminale. Chi se ne va, alla fine torna o finisce in galera o in comunità di recupero. Non ce la fanno mai là fuori.”
Luzer è un ex membro della comunità hassidica di South Williamsburg, Brooklyn, attualmente un attore televisivo. Insieme a egli, Etty e Ari sono i protagonisti del lungometraggio “One of us” di Heidi Ewing e Rachel Grady (2017). Tutti e tre, raccontano i registi, hanno abbandonato la suddetta comunità e di questa conservano solo un ricordo segnato da traumi e abusi, nel lasciarla hanno poi subito l’ostracismo da parte degli altri membri e delle famiglie d’origine. “One of us” è sicuramente un lungometraggio che strazia il cuore, le esperienze dei protagonisti non possono lasciare indifferenti, il problema però forse non è tanto la loro storia, la quale deve assolutamente essere raccontata e ricevere giustizia, quanto il modo e lo stile in cui è stato scelto di raccontarla. Dopo la visione non è molto chiaro se hai appena visto un documentario o un film dell’orrore sullo stile “non entrate in quella casa”. Il lungometraggio non sembra finalizzato a raccontare delle storie o dei fatti inerenti a uno specifico gruppo o comunità, quanto a demonizzare nella totalità l’intero mondo hassidico il quale conta centinaia di migliaia di membri, mostrandone solo i lati oscuri. Questo appare esclusivamente come un ambiente fanatico, retrogrado, malvagio, corrotto senza troppi dettagli e sfumature. Eppure esistono già di per sé diverse e numerose comunità/dinastie hasidiche, non solo negli Usa, ma anche in Europa e in Israele, si va dai Satmar antisionisti e i rigidi Ger, sino ai Chabad che sono venuti più a patti con la modernità e ben integrati nel mondo esterno, o ai Breslover. Ma nel documentario non esiste una controparte per raccontare ciò, e tanto meno la ricerca di un dialogo e di una comprensione di un mondo che è sconosciuto al grande pubblico. Sul Forward, Joseph Levercough scrive: “Queste narrazioni non cercano di creare un cambiamento positivo, ma piuttosto di sfruttare storie sensazionali, per mettere gli ebrei ‘strani’ sotto un microscopio affinché il mondo possa vederli. Un cambiamento positivo può avvenire solo tra le persone coinvolte e i passi che le nostre comunità intraprendono per migliorare la nostra situazione, dall’interno.”
“One of us” cerca quindi di raccontare le difficoltà e i traumi di coloro che soprattutto negli USA abbandonando la comunità haredi/hassidica vengono definiti “off the derech” (derech ‘sentiero’), e vengono poi supportati nel rinserimento nel mondo esterno da associazioni come “Footsteps” o “Mavar” nel Regno Unito – In Israele poiché la società esterna è comunque a maggioranza ebraica e con molte più sfumature il fenomeno è senza dubbio meno accentuato –
Guardando il lungometraggio arriva inevitabile il messaggio che la vita di chi è nato fuori dalla comunità sia inevitabilmente sempre felice, una sorta di elogio a un mondo libero privo di problemi perché “puoi fare/comprare quello che vuoi”. Ma gli abusi, le violenze domestiche, e l’omertà sono diffusi anche nel mondo secolare e in tutti i gruppi umani, non sono certo una prerogativa del mondo hassidico. Non è raro sentire in Italia di ragazzi o ragazze cacciate da casa perché omosessuali, considerando poi che le disposizioni che regolavano i “delitti d’onore” furono abrogati soltanto nel 1981. La solitudine, l’emarginazione, e l’abuso di droghe o alcool, subite dai protagonisti nell’uscire dal proprio guscio comunitario sono vissuti anche da coloro che in questo non vi sono nati. In parte ne sono dei tratti salienti, e anzi sempre caratteristici degli individui o dei gruppi che da una dimensione comunitaria e identitaria vengono “gettati” per propria scelta o meno nella società contemporanea, si vedano le comunità di nativi americani. Se il mondo haredi è rigido, insulare e esclusivo, il mondo esterno a esso non è granché inclusivo. Qui al contrario è necessario “farsi da soli” senza l’aiuto di nessuno, l’individualismo prende il posto dei valori solidaristici e comunitari, come trapelano gli stessi protagonisti del documentario. Nella società nordamericana i legami con la famiglia d’origine, nonché la dimensione familiare, sono in generale più blandi rispetto alle società mediterranee, il concetto di “yiddish mame” a noi risulterebbe molto più ordinario. Come scrive un altro rubricista del Forward, Benjamin Feldman “Non viene presentata alcuna testimonianza di hassidim che sono andati via dalla comunità ma rimangono in buoni rapporti con i genitori e gli amici della loro vita precedente. Tali storie sono accessibili e comuni; sono solo inesistenti in questo documentario.” Non è ben esplicitato neppure che alcune associazioni citate nel documentario le quali cercano di aiutare i tre protagonisti sono spesso interne o parallele agli stessi ambienti hassidici.
Il mondo hassidico non è certo privo di problematiche, specie nell’approccio con il mondo secolare circostante, anche l’attuale pandemia l’ha ben rivelato. Le storie di chi lascia questo ambiente sono spesso relegate alla fiction come la serie Unorthodox – su basi comunque autobiografiche -, o si ricordi il Danny Saunders di Chaim Potok che da hassid diventa psichiatra mantenendo però i legami comunitari. Un documentario dovrebbe altresì ricercare una forma di obiettività interpellando più voci, anche per non scadere in stereotipi antisemiti dove ai più “gli ebrei sono un po’ tutti uguali”. Heidi Eiwing, una delle registe, fu per l’appunto contestata perché in un talk-show affermò che i hassidim perirono nella Shoà “perché non si erano mischiati agli altri”. L’antidoto per i creatori di “One of us” sembrerebbe in definitiva l’assimilazione, quando in realtà anche gli stessi tre protagonisti nelle loro nuove vite finiscono per ricercare una diversa dimensione comunitaria e ebraica.

Francesco Moises Bassano

(16 aprile 2021)