Ritorno alla normalità e dialogo

Forse il dato che più sorprende della crisi che stiamo vivendo è la dominante aspirazione a fare ritorno alla normalità. A una normalità purchessia. Si tratta di una propensione legittima, a fronte di un’emergenza che si protrae da troppo tempo e al cospetto dei troppi lutti cui abbiamo assistito. Eppure, colpisce la scarsa propensione a considerare quel che ci sta capitando come una conseguenza diretta di quella “normalità” a cui si aspira a fare ritorno al più presto. Si stenta cioè a cogliere l’enormità di quel che sta avvenendo e l’opportunità che ci viene data (se abbiamo la fortuna di trovarci in buona salute) di mettere in discussione in maniera radicale il “prima”, con le sue dinamiche distorte e le sue derive malate. Abbiamo tutti apprezzato (e troppo rapidamente dimenticato) la febbre di solidarietà che si viveva solo un anno fa, in questi giorni. Ci si parlava dai balconi, si portava la spesa a casa degli anziani, ci si offriva di aiutare in azioni di supporto. Nelle case ci si parlava, giocavamo con i figli, e si interpretava la prima grande emergenza immediatamente percepibile in maniera generalizzata dalla fine della guerra come una prova che ci sfidava tutti e che richiedeva una svolta convincente. Essere innanzitutto più umani, tutti. Vedere il proprio vicino, il collega, il passante, e sapere che la situazione che si viveva era più o meno la medesima. Parlarsi, scambiare impressioni, ipotizzare soluzioni. Era chiaro allora, come dovrebbe essere chiaro oggi, che non è più sostenibile la “normalità” del prima. Sono saltati tutti i parametri a cui eravamo abituati e ci viene richiesto uno sforzo creativo per il nostro futuro. Parlo di cambiamenti nell’intero comparto della salute, garantendo maggiore attenzione e investimenti alla prevenzione, alla cura dell’alimentazione, al rafforzamento delle difese immunitarie. Ma grandi mutamenti devono essere messi in essere nel campo dell’assistenza sociale, con un occhio privilegiato alle fasce economiche deboli, agli anziani, e soprattutto investendo molto denaro nell’istruzione e sulla natalità. Una società anziana fa fatica a reggere il peso di una pandemia e tende a colpire in maniera a tratti ingiustificata il mondo altrettanto fragile dell’infanzia e dell’adolescenza. La scuola e l’educazione in genere, così come la cura del benessere fisico e psichico dei giovani sono stati per oltre un anno una specie di obiettivo da colpire in forma privilegiata e quasi esclusiva. Pagheremo molto caro quanto è avvenuto in termini di calo generalizzato dei livelli di istruzione e di conoscenza. Come alla fine di ogni guerra (e mi piace pensare che ci avviamo verso la fine, in effetti, sempre che si riesca a mantenere comportamenti adeguati e prudenti senza lasciarsi prendere dalla frenesia delle “aperture”) dobbiamo ricostruire, e le basi per farlo ci sono tutte.
Innanzitutto dobbiamo rafforzare le relazioni umane e sociali. In questo le comunità religiose hanno una responsabilità importante. Sono infatti strutture che da secoli organizzano il terreno di base di ogni società. La preghiera, lo studio, l’organizzazione di attività giovanili, la realizzazione di momenti di incontro e di dialogo, la pratica e la riscoperta di antiche tradizioni gastronomiche, la cura del creato (cioè dell’ambiente) devono essere una priorità, tralasciando tutti quegli ambiti in cui lo scimmiottamento di contrapposizioni politiche a livello nazionale e internazionale conduce alla falsificazione delle relazioni umane. In questo contesto, il prossimo 12 ottobre verrà proposta la Giornata Europea della Cultura Ebraica, che quest’anno si incentrerà sul tema del “Dialogo”. Mi sembra un buon inizio, non per tornare alla normalità del passato, ma per aprire a una nuova normalità di relazione e di confronto.

Gadi Luzzatto Voghera, Direttore Fondazione CDEC

(16 aprile 2021)