PAGINE EBRAICHE DI AGOSTO   

La vita (non) ortodossa di Julia Haart

Julia Haart ama i tacchi da vertigine, le minigonne e le scollature abissali. La pelle dorata a perfezione, porta i capelli sciolti in lunghe onde corvine e scorrazza per New York su una macchina di lusso con l’autista. Da settimane, questa effervescente signora di cinquant’anni fa parlare di sé per il reality show che su Netflix svela la traiettoria che dalla comunità strettamente ortodossa di Monsey, New Jersey, l’ha condotta in un batter d’occhio a una realtà che più opposta non si può.
Stando alle cronache, le è bastato un decennio a rifarsi una vita. A 43 anni lascia alle spalle il marito Yosef Hendler, una figlia sposata, un impiego da insegnante all’Atlanta Jewish Academy. “Non sapevo niente del mondo. Mi sentivo come un marziano”, ammette. Eppure trova investitori e lancia una variopinta linea di scarpe dai tacchi a stiletto, a suo dire comodissime grazie alla collaborazione con un’industria di scarponi da sci e un gel usato sulla stazione spaziale. Le scarpe portano a una serie di collaborazioni con il marchio italiano La Perla di cui diventa alla svelta direttore creativo. È lei a ideare l’abito (chiamiamolo così) con cui nel 2017 la modella Kendall Jenner si presenta al gala del Met, uno degli appuntamenti clou della stagione newyorkese. È composto da 85 mila cristalli, tenuti insieme da un unico filo. Tutto qui, non c’è nient’altro e il suo nome fa il giro del mondo insieme alle foto di Kendall.
Solo due anni dopo la si ritrova ai vertici del gruppo mondiale Élite, l’agenzia di modelle più grande del mondo di cui oggi è co-proprietaria e CEO. Poiché la vita non è fatta solo di lavoro, intanto si è risposata. Il secondo marito è il finanziere e manager Silvio Scaglia, fondatore di Fastweb, secondo Forbes uno dei cento uomini più ricchi del mondo. Dopo aver venduto le quote della compagnia telefonica, nel 2010 ha acquisito il gruppo Élite e tre anni dopo il marchio La Perla allora in bancarotta.
I maligni mormorano, ma il matrimonio – manda a dire lei – non ha niente a che vedere con la sua carriera stratosferica. Se è lì lo deve solo alla sua grinta. “Ero così determinata che non mi sono fermata a domandarmi se avrei fallito. Era successo o morte”, dice riandando agli esordi.
Lo show incarna le tante contraddizioni della sua scelta nei quattro figli: Batsheba, diva di TikTok da un milione di follower; l’aspirante avvocato Shlomo; la creatrice di app Miriam e il figlio minore Aron, l’unico rimasto con il padre. Ognuno – spiega la sinossi dello show – cerca di “conciliare l’educazione ortodossa con il mondo moderno” e Ima, che ora sta scrivendo un memoir in uscita nel 2022, regna su tutti con la tirannica energia di ogni brava yiddishe mame e cerca come può di tirarli dalla sua parte.
Le reazioni della comunità non si sono fatte attendere. Quanto a lei, spiega serafica: “Sono ebrea. Amo la mia religione e la gente della mia comunità. Il fondamentalismo non ha però niente a che fare con l’ebraismo e deve andarsene”. “Sogno che qualcuno vedendo lo show si dia il permesso di fare quello che vuole, riconosca ciò che lo rende infelice e combatta per decidere chi è”.
“Non è mai troppo tardi per cambiare la tua vita”, sostiene. E se lo dice lei, quasi viene da crederle.

Daniela Gross

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PAGINE EBRAICHE DI AGOSTO 

My Unorthodox Life, trionfo di luoghi comuni

L’ebraismo vende alla grande, soprattutto se in ballo c’è la comunità strettamente ortodossa. La curiosità per quel mondo inchioda gli spettatori allo schermo più di un thriller e il voyeurismo ha mano libera. Dopo il documentario One of Us, la serie israeliana Shtisel e Unorthodox con Shira Haas, uno dei maggiori successi televisivi degli ultimi anni, Netflix ora torna alla carica con My Unorthodox Life, un reality show così patinato da far sfigurare Vogue e così poco realistico da strappare il sorriso.
Se Unorthodox aveva commosso raccontando, senza lesinare gli stereotipi, il travaglio di una donna in fuga dalla comunità hassidica di New York che si rifà una vita a Berlino, My Unorthodox Life imbocca con decisione tutta un’altra strada. Anche qui ci sono una donna e una storia di liberazione, ma niente lacrime né angosce – il lieto fine è trionfale fin dalle prime inquadrature. La protagonista Julia Haart salta con disinvoltura dalla più stretta ortodossia al glamour più sfrenato, dal ménage casa e famiglia al lusso stramiliardario e dal matrimonio con Yosef alle nozze con il ricchissimo imprenditore italiano Silvio Scaglia. Come succeda e come ci si senta a rivoluzionare così la propria vita, rimane però oscuro. Il succo è che allora soffriva ma adesso è felice. Il racconto si impernia sul contrasto fra il prima e il dopo, in un diluvio di luoghi comuni che non aiutano a capire la comunità ultraortodossa ma la rendono semmai ancora più misteriosa e respingente.
Quello di prima, nelle parole di Julia, è un mondo in cui le donne “non possono cantare, ballare o correre” e sono limitate al ruolo di madri e mogli. Quello in cui oggi vive in lussi favolosi, è invece il mondo in cui ogni donna può (come lei) incontrare la libertà, provarsi e fare fortuna.

d.g.

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SORGENTE DI VITA 

Il Lazio e le strade del mondo ebraico

Si apre con un itinerario sulle tracce della presenza ebraica nel Sud del Lazio, la puntata di Sorgente di Vita in onda su Rai Due domenica 15 agosto. 
Un viaggio ricco di curiosità e suggestioni tra Sermoneta, Veroli e Alatri, tra l’Appennino e l’Agro Pontino, curiosando tra strade, piazze, edifici, toponimi e documenti conservati negli archivi, che raccontano un passato che oggi rimane quasi soltanto nei cognomi di tante famiglie ebraiche, soprattutto romane. 

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Intitolare e disintitolare
Intitolare a qualcuno una via, una piazza o un parco non è come assolverlo in tribunale: non basta la presunzione d’innocenza, non basta citare attenuanti generiche, non basta invocare le peculiari circostanze storiche in cui la persona si è trovata ad agire. Altrimenti la stragrande maggioranza degli esseri umani meriterebbe non solo una via, ma magari anche una scuola, un aeroporto, la cima di una montagna. Scegliere una persona a cui intitolare qualcosa tra i milioni o miliardi a cui non è stato intitolato un bel niente significa scegliere questa persona come modello, identificarsi nelle sue idee, ammirare particolarmente le sue azioni. Chi propone di intitolare una strada a un fascista non lo propone nonostante fosse fascista ma proprio perché era fascista. Chi propone di intitolare una via a un antisemita non lo fa nonostante fosse antisemita ma proprio perché era antisemita. E per di più è convinto che il fascismo e l’antisemitismo porteranno consensi.
Anna Segre
Inseguire la Tzedaqà
“Tzedeq Tzedeq tirdof lema’an tichijé – Giustizia, giustizia Inseguirai affinché vivrai” (Devarìm 16;20).
Siamo ormai nel mese di Elul, mese in cui all’insegna delle nostre azioni deve esserci la tzedaqà, che non è l’elemosina o la carità, bensì l’atto di giustizia verso chi ne ha bisogno: sia del ricco verso il povero, sia del povero verso il ricco. Ogni ebreo ha il dovere di fare tzedaqà.
Rav Alberto Sermoneta
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Uno strano paese
Strano paese è l’Italia. Mentre imperversano incendi e temperature record la crisi climatica sembra interessare solo qualche studente il quale puntualmente viene definito sprovveduto. Gran parte del territorio è poi in mano alla criminalità organizzata e non si contano le amministrazioni sciolte per mafia. Manca il lavoro, il futuro, e i più giovani emigrano, chi è fortunato e ne ha uno deve fare i conti con la precarietà e con il terrore dei licenziamenti (o peggio delle morti bianche).
Francesco Moises Bassano
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