Se non leggi correttamente questo messaggio, clicca qui   14 Novembre 2021 - 10 Kislev 5782
DANIEL KNOLL A PAGINE EBRAICHE

"Il futuro della Francia è a rischio,
contro l'odio mettiamoci la faccia"

La prima partita è stata vinta: l’assassino di sua madre è stato riconosciuto colpevole e condannato all’ergastolo. Resta adesso la sfida più complessa da affrontare: quella educativa.
Daniel Knoll, uno dei figli di Mireille, condivide con Pagine Ebraiche una lettera di cui è estensore assieme al fratello Allan. Si tratta di una richiesta d’incontro urgente, inviata al ministro dell’Istruzione Jean-Michel Blanquer, per perorare una causa d’interesse pubblico di cui è promotore: l’istituzione di una giornata nazionale che, nel nome di Mireille Knoll e di tutte le vittime francesi dell’estremismo islamico, aiuti a promuovere nelle scuole di tutto il Paese un’autentica cultura del rispetto e del rifiuto di ogni forma di odio.
“È una missione che intendo portare a fondo: ne va del futuro della Francia. Troppe volte in passato si è finto di non capire, abbracciando un’indifferenza che rischia di polverizzare le basi della nostra civiltà e democrazia. Agire nelle scuole è la nostra ultima speranza”, dice Daniel.


 

Il pensiero va a tante vite spezzate: tra gli altri, fra i non ebrei, a quelle di padre Jacques Hamel e Samuel Paty. “Quello che io e mio fratello abbiamo vissuto non deve più provarlo nessuno”, incalza Daniel. “Le giornate appena trascorse – riannoda il filo – sono state ad altissima intensità emotiva: prima l’attesa per il verdetto, poi i numerosi inviti a parlarne su giornali, televisioni, radio. Lo ammetto: sono un po’ provato”.
Tra tante interviste, ci teneva a parlare anche con l’Italia. “Sono grato a Pagine Ebraiche per l’attenzione e il sostegno che mi stanno arrivando anche dal vostro Paese”, sottolinea Daniel. “È un sentimento vivo che ci aiuta ad andare avanti”.
Una solidarietà che Knoll sta toccando con mano da giorni. “Appena poche ore fa ho incontrato William Attal, il fratello di Sarah Halimi. Eravamo entrambi ospiti in radio. È stato un momento toccante. Abbiamo rinnovato il nostro comune impegno per verità e giustizia. Che nel suo caso, purtroppo, sono ancora latenti”. A proposito di famiglie Daniel si sofferma su un alto incontro, avvenuto alle soglie del verdetto. “Eravamo in tribunale, con la mente ormai proiettata alla sentenza. La sorella dell’assassino si avvicina: vuole chiedermi scusa. Un gesto inatteso ma che ho molto apprezzato. Ho una speranza: che almeno lei si tenga lontana da un estremismo che, superata ogni soglia di allarme, rischia di distruggere la Francia”.

(Nelle immagini: Daniel Knoll insieme a William Attal, il fratello di Sarah Halimi; la lettera inviata dai fratelli Knoll al ministro dell'Istruzione francese) 

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IL DIBATTITO APERTOSI NEGLI USA

Hollywood e la faccia delle donne

La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata Joan Rivers. All’annuncio che sarebbe stata Kathryn Hahn a interpretare la leggendaria attrice ebrea nella serie The Comeback Girl, è esplosa la polemica. A farsene portavoce l’attrice Sarah Silverman – una che notoriamente non le manda a dire. “C’è una lunga tradizione di non ebrei che interpretano ebrei e non solo persone che per caso sono ebree ma per cui l’ebraismo rappresenta la totalità dell’essere”, ha spiegato. Si potrebbe dire, ha aggiunto, che “un non ebreo che interpreta Joan Rivers sta facendo quel che si potrebbe definire ‘Jewface’”. Il rimando alla pratica ormai esecrata del Blackface – che vedeva gli attori tingersi la faccia di nero per interpretare, in modo spesso caricaturale, personaggi afroamericani – è stato abbastanza per spedire la questione su tutti i media americani scatenando un tifo da stadio (per la cronaca, l’accusa è stata rivolta in passato alla stessa Silverman).

“Prima Mrs. Maisel, adesso Joan Rivers. Perché le donne ebree di Hollywood sono raramente interpretate da attrici ebree”, ha titolato Time e gli altri hanno seguito a ruota. L’elenco è di fatto curioso. Ruth Bader Ginsburg, notoriamente ebrea, è stata interpretata nel film da Felicity Jones che non lo è. Una giusta causa che ricostruisce la sua carriera. La strepitosa Mrs. Maisel, la cui identità ebraica è un elemento centrale nella trama, è resa da Rachel Brosnahan (non ebrea). Nel film Disobedience, ambientato nel mondo ebraico ultraortodosso inglese, è ebrea la protagonista Rachel Weisz ma non la coprotagonista Rachel McAdams. La questione può suonare assurda finché non la si inserisce nel contesto delle politiche dell’identità – un tema che negli Stati Uniti rasenta ormai l’ossessione ma certo non risparmia il resto del mondo.
Dopo decenni di battaglie, la rappresentazione delle minoranze è ormai considerata un valore cruciale e così il rispetto delle diversità. “Sbiancare” (whitewashing) i personaggi è visto come un’offesa, non c’è accusa peggiore che quella di colonialismo culturale e neanche l’identità visivamente più sfuggente, quella sessuale, sfugge alla regola che prescrive la piena corrispondenza fra realtà e rappresentazione. Se il principio di base è senz’altro apprezzabile, nella pratica le conseguenze si rivelano spesso surreali.

Ne sanno qualcosa l’israeliana Gal Gadot finita nel mirino per il ruolo di Cleopatra (era abbastanza mediorientale ma di origini ashkenazite) o l’attrice ebrea Scarlett Johansson per un ruolo asiatico nel sci-fi Ghost in the Shell e molti altri. Al netto delle distorsioni, vale però la pena domandarsi perché la riflessione abbia finora risparmiato la rappresentazione del mondo ebraico. Non si può ignorare che molte attrici dichiaratamente ebree, fra cui la stessa Sarah Silverman, finiscono confinate nella galleria degli stereotipi – la yiddische mame, la fidanzata prepotente, l’amica impertinente. In pratica, tutti ruoli secondari. Per dirla con Silverman, “Se un personaggio femminile ebreo è coraggioso o merita l’amore, non è mai interpretato da un’ebrea. Mai”.
E non si può fingere di non vedere, come di recente notava il Jerusalem Post, che lo stereotipo corrisponde di norma alle candide sfumature dell’identità ashkenazita. Più che nell’identità dell’interprete, il problema sembra risiedere allora nell’occhio di chi guarda e nel pregiudizio che ispira tante rappresentazioni. Il mondo ebraico delle donne è assai più vivace e vario di quel che tanto cinema e tv lasciano immaginare.
Contiene Sarah Silverman e Natalie Portman, Mila Kunis e Tiffany Haddish, Maya Rudolph, Zoe Kravitz e tante altre che più diverse non si può. Ecco, forse varrebbe la pena iniziare da qui. Senza dimenticare che si tratta pure sempre di recitazione e che nessuno sullo schermo interpreta se stesso. Se così fosse, Spielberg non avrebbe mai girato la tenera storia dell’extraterrestre ET e il Capitan Spock mai avrebbe preso il volo sulla navicella di Star Trek.

(Nelle immagini: l’attrice comica Sarah Silverman, che ha sollevato il dibattito; Felicity Jones mentre interpreta la giudice della Corte suprema Ruth Bader Ginsburg nel film Una giusta causa; Rachel Brosnahan in The Marvelous Mrs. Meisel)

Daniela Gross

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L'INCONTRO AD ANCONA

Talmud, umanesimo e tecnologia
in favore del dialogo interculturale

Tappa ad Ancona per il progetto di traduzione del Talmud Babilonese: se ne è parlato in occasione di un incontro, patrocinato da Comune e Comunità ebraica, su “Umanesimo e Tecnologia in favore del dialogo interculturale”. Ospiti il rav Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma e presidente del progetto, e David Dattilo responsabile ricerca e sviluppo oltre che del Progetto Yeshivà. Tra i presenti e gli intervenuti il magnifico rettore dell’Università Politecnica della Marche Gianluca Gregori, l’arcivescovo Angelo Spina, la presidente della Comunità ebraica Manuela Russi, il vicepresidente della Comunità ebraica e Consigliere UCEI Marco Ascoli Marchetti e l’assessore alla Cultura del Comune Paolo Marasca.

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SEGNALIBRO

Trentenni, ritratto di una generazione

Con Olocaustico, il suo romanzo d’esordio, aveva messo l’ironia al servizio di una Memoria consapevole e antiretorica. In Alla fine lui muore, il suo nuovo libro, il regista romano Alberto Caviglia si cimenta con un’altra sfida: raccontare una generazione, quella dei trentenni cui lui stesso appartiene in quanto classe 1984, spesso in crisi di identità e prospettive.
Protagonista del romanzo, pubblicato come il primo da Giuntina, è Duccio Contini: un giovane scrittore il cui esordio è stato bagnato dal successo ma che ora vive in un malinconico anonimato. Tra gli scaffali della Feltrinelli di Largo Argentina la sua opera è ormai scomparsa e grandi idee per rilanciarsi non sembrano all’ordine del giorno. La scrittura si è fatta nel frattempo faticosa e infruttuosa.
Duccio ha 30 anni ma se ne sente addosso almeno il doppio. Sullo sfondo una famiglia emotivamente instabile, dedita tra i vari passatempi all’uso selvaggio e demenziale dei social network. Il risultato è un’alienazione sempre più profonda.
Meno accentuato rispetto ad Olocaustico ma comunque presente un milieu ebraico che caratterizza la personalità del fuori posto Contini; alienato al punto da guadagnarsi sul campo i galloni di “umarell”: termine bolognese che qualifica quelle figure tipiche del paesaggio urbano che spesso sostano per ore, sfaccendate, all’esterno dei cantieri.
 

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Identità in costruzione
Storia mondiale degli ebrei (Laterza) – un libro a più voci nato da un’idea di Pierre Savy che ne è anche il curatore – uscito in edizione italiana in questi giorni sotto la cura di Anna Foa, è un capitolo nuovo di ricerca sull’identità ebraica e una sfida ai luoghi comuni. Non un’identità «à la carte», ma «in costruzione». Non qualcosa che c’è all’inizio che bisogna cercare di non smarrire, ma come offerta di ciò che lentamente nel tempo si accumula e si cerca. Un’identità che non è tutela, ma crescita.
 
                                                                          David Bidussa
La ripetizione
Inutile cercare di ragionare con chi, invece, ritiene di avere la «verità» dalla sua parte. Anzi, di esserne depositario quand’anche i fatti dovessero testimoniare altrimenti. Nel qual caso, per costui (o costoro) tanto peggio per i fatti. Non è solo un problema di razionalità difettante. Si tratta semmai di un specie di falsa razionalità alternativa, contrapposta a quella di buon senso. Quest’ultima, semmai, deriva non tanto dall’avere competenze in quel qualcosa che è oggetto di discussione pubblica ma soprattutto dal sapere comprendere quale sia l’oggetto medesimo e come ci si debba disporre a tale riguardo. Per ritornare ad un esempio ricorrente ai giorni nostri: non c’è bisogno di essere un virologo o un infettivologo per comprendere la necessità della distribuzione dei vaccini. 
 
                                                                          Claudio Vercelli
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L'idea di futuro scomparsa
Si alza il vento conservatore. Crescono movimenti e partiti politici che rassicurano il proprio elettorato – quello già acquisito e quello potenziale – mostrandosi ostili all’eguaglianza sociale, all’accoglienza degli stranieri, ai diritti delle donne e delle minoranze sessuali.
Sarà un fenomeno che avrà una lunga durata. All’origine sta semplicemente – e drammaticamente – la scomparsa dell’idea di futuro, tanto nella sua variante di «progresso» come in quella di «utopia». Sul campo, trionfante, rimane l’immagine del futuro come minaccia. Il messaggio è questo: «Futuro», mobilitiamoci per evitarlo.
                                                                          David Bidussa
Petulanze e pregiudizio
Una stato di cose, una persona oppure un gruppo di persone, così come un insieme di relazioni, e quant’altro, esistono – al giorno d’oggi – se sono oggetto di discussione pubblica. In altre parole, qualora la loro immagine (al netto del fatto che fatto ad essa corrisponda un effettivo riscontro) sia veicolata, ripetuta, consolidata dai mezzi di comunicazione, essa assume una consistenza tale da fare sì che abbia una sua veridicità a prescindere da qualsiasi dato oggettivo. In altre parole ancora: nell’età dell’economia della conoscenza e dell’informazione, ciò che conta non è il riscontro fattuale ma il dato per cui se di una cosa si parla, allora avrà una sua ragione d’essere. 
 
                                                                          Claudio Vercelli
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