Se non leggi correttamente questo messaggio, clicca qui   14 Dicembre 2021 - 10 Tevet 5782

PAGINE EBRAICHE - L'INTERVISTA A ETGAR KERET

"Da Tel Aviv a Berlino, alla ricerca di nuovi stimoli"

Davanti al più grande cantiere urbano d’Europa, nel cuore di Berlino, un direttore d’orchestra israeliano si prepara per un’esibizione molto particolare. In mano non ha la solita bacchetta, ma due bandierine. Una bianca e una blu. Di fronte non ha la solita orchestra, ma diciannove gru che aspettano il suo segnale. Un sollevatore a forbice lo porta in alto in modo che i manovratori delle gru possano vederlo. E poi inizia lo spettacolo: giganteschi bracci di metallo danzano sulle note dell’Inno alla gioia di Beethoven, sapientemente condotti dal direttore d’orchestra. Sembra l’inizio di uno dei tanti racconti ironici e surreali dello scrittore israeliano Etgar Keret. E invece si tratta di un episodio realmente accaduto: il direttore in questione era il celebre Daniel Barenboim, a cui fu affidato nel 1996 di condurre quell’inusuale spettacolo dedicato all’enorme progetto di riqualificazione di Potsdamer Platz. Quella danza delle gru era uno dei simboli di una Berlino in divenire, dinamica e proiettata al futuro. Un luogo dove sperimentare, dove dar vita a idee provocatorie e originali. Una dimensione che, trent’anni dopo, Berlino ancora conserva e da cui Keret è rimasto affascinato. Tanto da sceglierla come sua nuova casa. Dopo una vita passata a Tel Aviv, senza mai spostarsi oltre un perimetro di quattro chilometri quadrati, lo scrittore ha infatti deciso di trasferirsi nella capitale tedesca. “Berlino è come Tel Aviv sotto un aspetto: è ancora in cerca di identità. Non sa chi è ed è in costante conflitto con se stessa. Mi piace questo caos, questo balagan, anche se non è paragonabile a quello israeliano”. Di questa sua nuova e temporanea almeno nelle intenzioni vita berlinese Keret parla con Pagine Ebraiche in occasione di un breve passaggio autunnale a Milano. Ospite della Rassegna nuovo cinema ebraico e israeliano organizzata dal Cdec, lo scrittore confida di aver pensato anche al capoluogo lombardo come possibile meta del trasloco. “Cercavamo una sistemazione con opportunità e soprattutto con ottime scuole in inglese per mio figlio. Per cui avevamo ridotto la scelta a Berlino e Milano”. I costi hanno fatto propendere per la prima e così Keret e famiglia si sono trasferiti in Germania.
 


 

Come è stato ritrovarsi in una nuova casa dopo aver vissuto sempre a Tel Aviv e dopo l’esperienza del lockdown?
L’idea di casa è sempre stata al centro della mia vita. Entrambi i miei genitori sono sopravvissuti alla Shoah. E il concetto di casa, di essere al sicuro, di stare insieme, sono sempre stati cruciali per noi. Per me. Io ho cambiato solo quattro appartamenti nel corso della mia vita e non mi sono mai trasferito oltre a un raggio di quattro chilometri. Ai miei studenti dico spesso: sono come Immanuel Kant (che dalla nascita alla morte visse praticamente solo a Königsberg, ndr), solo senza il suo cervello. La pandemia ha però incrinato questa mia visione monolitica della casa.

Come mai?
Perché cominci a porti delle domande: cosa è veramente casa? È il tuo appartamento? La tua famiglia? Il tuo quartiere e i tuoi vicini? Per me è il posto dove puoi veramente rilassarti, dove abbassi la guardia, dove ti senti amato, dove sei al sicuro e ti fai meno domande sulle cose che ti circondano. Io avevo bisogno di mettere tutto questo alla prova, soprattutto a causa della pandemia. Anche se per me in realtà è stato un periodo produttivo: ho scritto e realizzato molto. Dall’altro lato però ho iniziato ad aver paura dell’immobilità. Ho vissuto isolato nella mia testa, disconnesso dal mondo che mi circondava. Sentivo che non stavo correndo nessun rischio, non c’erano attriti, non c’erano lotte, pericoli. Tutto troppo facile. Ed è una sensazione che ha avuto anche mio figlio. Mi ha detto che sentiva che la vita aveva smesso di essere una sfida. E voleva provare a studiare per un anno in inglese, integrarsi in una classe e società diversa da quella che conosceva. E così abbiamo deciso di partire.

Berlino rappresenta quindi una rottura con la quotidianità?
Temporanea, sì. Ci allontaniamo anche da tutto il rumore israeliano. Non mi interessa la politica tedesca, non sono coinvolto e nessuno qui mi chiede se sono di destra o di sinistra. A nessuno importa. Ho più tempo per concentrarmi su altro. Non significa che ho raggiunto il Nirvana. Anzi. Litigo di più con mia moglie ora. Ma l’amo anche di più. Mi sento vivo. Ho anche rotto quella normale inerzia che fa da motore delle nostre vite: quando vivi nello stesso posto, il 90 per cento delle cose le fai per inerzia. Andare al supermercato, a trovare tua madre, al caffè sotto casa, vedere gli amici. E così via. Solo il 10 per cento delle tue azioni sono scelte autentiche, sono veramente attive. Ora che sono a Berlino queste percentuali si sono invertite. E ora le emozioni sono più forti, la curiosità è più forte, ma anche le frustrazioni, i dolori.

Sono migliaia gli israeliani che hanno fatto la stessa scelta e ora sono cittadini a pieno titolo di Berlino. Anche lei vuole integrarsi nella città?
No. Vivo felicemente la mia condizione di outsider. Continuo a scrivere la mia newsletter, dove racconto anche un po’ di Berlino. Guardo tutto con curiosità, ma con un certo distacco, godendomi l’esperimento sociale che sto svolgendo con la mia famiglia. Poi sento lo stesso di avere un terreno comune con i tedeschi: da figlio di sopravvissuto alla Shoah c’è qualcosa che mi ha sempre attirato verso la Germania. La condivisione di un passato comune, anche con chi non è ebreo. Io e un tedesco, magari figlio o nipote di nazisti, ci guardiamo alle spalle e sentiamo il senso di colpa, la paura, l’odio, il dolore. Io discuto molto con i tedeschi, anche ferocemente, ma sento allo stesso tempo vicinanza e affinità. Siamo entrambi profondamente influenzati dalla storia dei nostri popoli.

Ora che si trova in Germania, c’è una parte di questa storia che vuole approfondire?
L’aspetto che mi interessa di più è la Ddr e l’oppressione della Stasi. Avendo io la lingua lunga, penso sempre a cosa mi sarebbe accaduto in un regime simile dove persone come me sparivano in continuazione. E poi tutti quei modi diversi di isolare e rompere lo spirito delle persone, creare paura nella società. Quando parliamo dei nazisti c’è quasi la sensazione che sia un evento astorico. Con la Stasi si tratta di un processo traumatico durato decenni con un popolo oppresso, depresso, costretto a vivere una vita piena di ansie e frustrazioni e allo stesso tempo indottrinato ad accettare questa esistenza corrotta. È un fenomeno che mi interessa capire, da cui imparare.

E con la lingua tedesca che rapporto ha? Non sente la mancanza dell’ebraico?
In ebraico, come in italiano, quando stai dialogando con qualcuno, l’altro non ti lascia mai finire una frase. Tu dici un paio di parole, sostantivo e verbo, l’altro già capisce e si butta in una risposta. Nessuno aspetta. Il tedesco è diverso. Ha questa cosa che il verbo e la negazione arrivano alla fine della frase. Questo fa sì che le persone si ascoltino a vicenda perché l’ultima parola potrebbe capovolgere il senso di quel che dici. Solo alla fine so se vuoi ‘picchiarmi o amarmi’. Dall’altro lato sono molto legato all’ebraico. Il mio inglese o il mio tedesco non saranno mai la mia prima lingua. Dover comunicare le mie emozioni non nella mia lingua madre mi fa sentire però più vicino ai miei genitori, che in Israele si sono trovati nella stessa situazione.

Da scrittore ci sono parole specifiche a cui è più legato?
Sì, Yalla e Balagan. Anche se non sono parole ebraiche, una è araba, l’altra deriva dall’yiddish. Insieme sono un’esortazione al caos, che è quel che mi manca d’Israele. A Berlino la gente è molto, molto ordinata e la loro energia è controllata. Quindi quest’idea di vedere la gente correre per strada e non capire perché, ridere senza motivo, prendere le cose e spostarle da un posto all’altro. Yalla Balagan, questo è quel che mi manca di più.

Daniel Reichel, Pagine Ebraiche Dicembre 2021

VARATE LE NUOVE COMMISSIONI 

Giovani, risorse, futuro: il Consiglio UCEI
a confronto sui progetti strategici

Dall’impegno per coinvolgere giovani, meno giovani e i cosiddetti “ebrei lontani” ai progetti messi in campo nella sfera educativo-valoriale, dalla sfida delle risorse attraverso vecchie e nuove modalità di finanziamento all’emergenza sociale in corso che numerose famiglie stanno vivendo con crescente disagio. Questi alcuni dei temi strategici dibattuti nel corso dell’ultima riunione del Consiglio dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Tra i punti all’ordine del giorno l’approvazione del verbale della seduta precedente, un confronto sulle linee guida del nuovo mandato, la costituzione delle Commissioni e dei gruppi di lavoro. Le Commissioni, è stato stabilito, si dedicheranno a questioni come “Bilancio”, “Cultura, Memoria e Antisemitismo”, “Giovani”, “Educazione e Scuola”, “Culto”, “Statuto e regolamenti UCEI”, “Sociale”. Mentre i gruppi di lavoro spazieranno da “Sostenibilità e futuro delle Comunità” a “Emergenze umanitarie”, da “Social media” a “Diploma di laurea” e “Rapporti con gli italiani in Israele”. Un gruppo sarà inoltre costituito da un pool di giuristi incaricati di affrontare, in raccordo con le relative Commissioni, le principali criticità di natura legale come “libertà religiose, negazionismo e atti di antisemitismo”.
Numerosi e stimolanti gli interventi di una riunione che si è aperta con alcune parole di Torah dei tre rabbini che siedono nella Consulta rabbinica – rav Giuseppe Momigliano, rav Ariel Di Porto e rav Daniel Touitou – e del presidente dei rabbini italiani rav Alfonso Arbib. Un’occasione anche per riflettere sul significato e sul messaggio, con un profondo riverbero nell’attualità, del digiuno del 10 Tevet in svolgimento in queste ore.

ACCADDE DOMANI

Bennett e la storica visita ad Abu Dhabi,
Rossella la racconta su Repubblica

“Il primo ministro israeliano è arrivato negli Emirati domenica sera, accolto con tutti gli onori, con un messaggio forte per tutto il mondo arabo…”. Scrive così, da Israele, Rossella Tercatin, raccontando su Repubblica la storica visita del premier Naftali Bennett ad Abu Dhabi.
Giornalista professionista formatasi nella redazione di Pagine Ebraiche, dove ha svolto un praticantato e di cui fa parte tutt’oggi, Rossella vive a Gerusalemme e lavora da alcuni anni al Jerusalem Post (tra i temi coperti società, cultura e più recentemente la pandemia).
Quello sulla visita di Bennett è stato il suo primo articolo per Repubblica.

LA COMMEMORAZIONE

Piazza Dalmazia, dieci anni dopo
La testimonianza degli ebrei fiorentini

Esattamente dieci anni fa un estremista di destra fiorentino simpatizzante di Casa Pound sparò contro un gruppo di senegalesi che si trovavano nell’area del mercato di Piazza Dalmazia: Samb Modou e Mor Diop restarono uccisi. Un loro connazionale, Moustapha Dieng, è sopravvissuto ma con gravi lesioni permanenti. Una ferita ricordata nel corso di una toccante cerimonia che ha visto la partecipazione di rappresentanti delle istituzioni, membri della comunità senegalese e di tanti cittadini. Significativa anche quest’anno la presenza della Comunità ebraica, con il presidente Enrico Fink che è stato tra gli intervenuti e al suo fianco il rabbino capo rav Gadi Piperno.
“Quel giorno – ha raccontato Fink – stavo suonando al Mandela Forum, nell’ambito di un meeting internazionale sui diritti dell’uomo alla presenza di 10mila studenti. La strage avvenne negli stessi minuti”. Una di quelle circostanze, la sua riflessione, “che ti fanno venire voglia di gettare la spugna”. Ha poi prevalso la volontà di lavorare ancora più intensamente per l’affermazione di pluralismo, dialogo e inclusione. Valori e cardini di convivenza strettamente intrecciati a una Memoria che “serve a far crescere la collettività” ma funziona davvero “solo se fatta insieme”. Centrale, nel suo intervento, il tema della diversità. “Noi fiorentini da sempre o fiorentini da qualche ora, noi fiorentini delle culture che vivono in pace, noi ebrei, musulmani, senegalesi, cinesi, bengalesi, rumeni, non ce ne andiamo”, il suo messaggio. Una prospettiva che i “giovani, molto più avanti di noi adulti, sembrano aver chiara con maggiore naturalezza”. Necessario esserci anche quest’anno, far sentire la propria voce in un momento in cui l’odio torna pericolosamente a strisciare online e offline. “Questa cerimonia – spiega – è un impegno prioritario per noi ebrei fiorentini. Lo è sempre stato anche in passato, con la partecipazione costante di presidenti e rabbini capo”. A rappresentare il sindaco Dario Nardella (insieme al collega di Giunta Alessandro Martini) l’assessore al Welfare Sara Funaro, anche lei esponente della Comunità ebraica locale. “Quello che è accaduto in piazza Dalmazia – il suo pensiero – è una ferita ancora aperta per la nostra città, difficile da far rimarginare”. Da qui l’impegno “che ogni giorno portiamo avanti per dire no alla violenza, all’odio e a qualsiasi forma di discriminazione”. Uno sforzo declinato anche attraverso “un lavoro quotidiano di sensibilizzazione nelle piazze, nelle scuole e nei luoghi di aggregazione e confronto”.

LA CERIMONIA AL QUIRINALE

Cosmas, alfiere della Repubblica
per la Memoria e contro l'odio

Consegnati al Quirinale gli attestati d’onore di alfiere della Repubblica conferiti negli anni 2019, 2020 e 2021 “a ragazze e ragazzi che rappresentano modelli positivi di cittadinanza e che sono esempi dei molti giovani meritevoli presenti nel nostro Paese”.
Tra i premiati il ventenne Cosmas Joel Wallbrecher, una delle colonne dell’associazione Ricordiamo Insieme attiva in particolare a Roma: a segnalarlo al Capo dello Stato l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Un riconoscimento per “il percorso della memoria che ha promosso insieme alla sua famiglia, coinvolgendo altri giovani” e per l’impegno attivo “a prevenire e contrastare forme di odio, di razzismo, di antisemitismo che possono riprodursi nella società”.


Rivolgendosi ai giovani presenti, il Presidente Mattarella ha affermato: “Siete tanti, ma potreste essere molti di più, in realtà, perché non siete dei casi isolati, non siete eroi isolati. Come voi, tante ragazze e ragazzi si impegnano con azioni pregevoli che meritano riconoscimento, che meritano lode, per solidarietà, per impegni altruistici”.

(Nell’immagine in basso Cosmas Joel Wallbrecher insieme al Testimone Sami Modiano)

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LA SFIDA DELL'AGGREGAZIONE

Procida, a 50 anni dallo storico campeggio

Uno degli aspetti più critici che in questi anni investe il futuro dell’ebraismo italiano e delle Comunità è quello dei giovani e della loro partecipazione e del loro coinvolgimento nelle attività che pur vengono organizzate durante l’anno dai vari movimenti giovanili. Tornando indietro nel tempo, uno dei motivi di maggior coinvolgimento e attrattiva erano i cosiddetti “campeggi”, che si tenevano due volte l’anno: uno in estate e uno in inverno. I giovani ebrei italiani che partecipavano alle attività dell’allora FGEI, così come a quelle organizzate dagli altri movimenti, Bene Akivà e Hashomer Hatzair, li aspettavano e quasi li sognavano da una stagione all’altra, e poi li ricordavano e li rimpiangevano fino al campeggio successivo. Erano fonte di aggregazione, costruivano e cementavano amicizie, che in gran parte dei casi duravano tutta la vita, creavano divertimento e anche apprendimento. Poi, quasi di colpo, i mitici campeggi, estivo e invernale, per una serie di comprensibili e immaginabili fattori, sono venuti a cessare e con loro si è persa non soltanto una tradizione quasi storica (erano iniziati in Italia negli anni ’30 del secolo scorso), ma un’occasione importante di conoscenza e di coesione tra i giovani ebrei italiani.
I campeggi estivi e invernali della FGEI si tenevano rigorosamente in località montane, quasi sempre diverse tra loro, in taluni casi ripetute, per lo più in Trentino, in Valle d’Aosta, o in Piemonte. Ma in un’occasione, la tradizione montana capitolò verso il mare e questo avvenne esattamente cinquant’anni fa, nel 1971, allorché per la prima volta il campeggio estivo fu organizzato sull’isola di Procida. 

L'INCONTRO PROMOSSO DA ANAVIM 

Scuola ebraica, sostenibilità e inclusione

“Nessuno resti indietro”. Sostenibilità e inclusione sono concetti fondanti il progetto Scuola Ebraica, al centro di un evento promosso per questa sera dall’associazione culturale ebraico-torinese Anavim.
L’incontro, che prenderà il via alle 21, vedrà la partecipazione del coordinatore didattico delle scuole ebraiche di Torino Marco Camerini; Mario Montalcini, founder di Brainscapital; Claudia Segre, presidente di Global Thinking Foundation. Introdurrà i lavori Arnaldo Levi. L’evento sarà trasmesso sulla piattaforma Zoom. Per iscriversi e richiedere il link: associazioneanavim@gmail.com.

 
La lingua del politicamente corretto
Il politically correct ci sta sopraffacendo. Le prevaricazioni antropologiche e storiche del maschio sulla femmina, dell’uomo sulla donna, si stanno ritorcendo a valanga contro la nostra civiltà, alla ricerca di un risarcimento, di una compensazione che raddrizzi in modo subitaneo lo sbilanciamento delle relazioni fra i generi. Alle ingiustizie subite dalla donna nei millenni (contestualizzazione a parte!) si cerca di porre riparo con una frettolosa – quanto necessaria – rivoluzione a tutto campo. 
Dario Calimani
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Libri di testo
Ci sono un paio di fonti per conoscere l’opinione corrente sugli ebrei: una consiste nell’affidare ad agenzie specializzate il compito di porre in essere delle inchieste d’opinione e l’altra consiste nel fare una buona raccolta di testi scolastici, onde esaminare cosa dicono degli ebrei e di Israele.
Emanuele Calò
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Grattacieli, mercatini e cortili
Israele vive dinamicamente, in una pluralità contrastante di mondi e di impressioni. E anche le opposizioni fanno parte del suo innegabile fascino.
Tralasciamo per oggi Gerusalemme, che certo fa storia a sé e costituisce un cosmo a parte, e concentriamoci invece su Tel Aviv, che di questi contrasti appare la regina. 
 
David Sorani
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