La lingua
del politicamente corretto
Il politically correct ci sta sopraffacendo. Le prevaricazioni antropologiche e storiche del maschio sulla femmina, dell’uomo sulla donna, si stanno ritorcendo a valanga contro la nostra civiltà, alla ricerca di un risarcimento, di una compensazione che raddrizzi in modo subitaneo lo sbilanciamento delle relazioni fra i generi. Alle ingiustizie subite dalla donna nei millenni (contestualizzazione a parte!) si cerca di porre riparo con una frettolosa – quanto necessaria – rivoluzione a tutto campo. Giusto allora equiparare non solo i diritti, ma anche le possibilità reali di accesso alle responsabilità politiche, i compensi economici per analoghi incarichi e via dicendo. Giusto, soprattutto, riconoscere che una donna ha il diritto di scegliere per sé stessa della propria vita, giusto mandare all’isola del Diavolo per una condanna a vita e senza appello chi commette infamità di sorta contro una donna perché la reputa soggetta alla propria volontà e potestà.
Tutto ciò premesso, a scanso dei soliti equivoci, ci si chiede se la via più rapida ed efficace per ottenere il risultato della equiparazione dei diritti e dei riconoscimenti sia quella della omologazione e dell’appiattimento. E, per vizio professionale, ci si chiede, in particolare, se la soluzione del nostro problema di civiltà stia davvero primariamente nel linguaggio.
Che il linguaggio sia veicolo di discriminazione è assolutamente vero e possibile, ma sembra necessario fare dei distinguo e, soprattutto, evitare con un po’ di coraggio scelte ipocrite.
Si può fare storia e filologia, ad esempio, sulle definizioni del ‘negro’ che diventa ‘nero’, e poi, ‘di colore’, e poi ‘afroamericano’ e domani chissà che cos’altro. Ma se sei razzista e il negro lo disprezzi non sarà certo il modo in cui lo chiami che ne cambia la ricezione o ti converte all’amore per lui. Quando da ‘giudeo’ siamo passati a ‘israelita’ e poi a ‘ebreo’, è forse cambiato qualcosa nei sentimenti della gente e degli antisemiti in particolare? Forse che il disprezzo non può passare anche attraverso l’apparentemente più neutro termine di ‘afroamericano’ o del datato ed eufemizzante ‘israelita’? Dreyfus era un ‘israelita’, tanto per capirci.
Il cervello e i pregiudizi non cambiano con l’evoluzione del linguaggio. È all’educazione che si dovrebbe assegnare il compito di cambiare l’atteggiamento degli individui e di una civiltà. Ed è vero che, dell’educazione, il linguaggio è una parte, ma certamente non la sola e non la maggiore. Pericoloso illudersi che modificando il linguaggio si possano modificare i modi e i contenuti.
E, alla fine, si rischia di cadere nel ridicolo del politically correct più estremo e irragionevole, che diventa, alla breve e alla lunga, una vuota posizione ideologica.
Quando, ad esempio, l’intellettuale di sinistra dichiara la propria orgogliosa appartenenza politica ricorrendo alla schwa o all’asterisco per non usare il maschile che discriminerebbe tutte le sue lettrici donne, ti chiedi quanto di pretestuoso ed esibito ci sia nella sua scelta. ‘Car* tutt*’, può capitare di leggere. O anche ‘Carə tuttə’. Che ovviamente non sai come leggere e ti è impossibile leggere.
Che passi davvero attraverso l’adozione dello schwa e dell’asterisco la nostra battaglia contro il pregiudizio e l’ingiustizia?
Salvo casi particolari precisamente codificati dalla grammatica ebraica, lo shwa è una presenza assente. Come dire che è un pieno che indica un vuoto, ma non lo rimpiazza affatto, non lo riempie quel vuoto, si limita a segnalarlo. Ti sta dicendo: ‘qui manca qualcosa’. Usarlo quindi con lo spirito dell’inclusività, come si cerca di fare, significa in effetti appiattire le differenze, negarle, fingere – con ipocrisia cieca e senza pari – che siamo tutti uguali, donne e uomini, cristiani ed ebrei e mussulmani. Ritorna, in modo surrettizio, l’affermazione illuministica voltairiana che perché ci sia giustizia fra gli uomini ci si debba riconoscere obbligatoriamente tutti uguali. Via le differenze!
Quanto è difficile accettarle, invece, le differenze, mantenendo al tempo stesso il rispetto l’uno dell’altro, e riconoscendo l’uno i diritti dell’altro.
Il prossimo passo del politically correct, comunque, sarà necessariamente quello di cambiare il testo biblico e le sue traduzioni, perché ‘ha-adam’, l’uomo creato da Dio, esclude linguisticamente la donna, cosa che non dovrebbe essere, se è vero che all’origine l’uomo è stato creato androgino e solo in seguito si è realizzata la sua distinzione in maschio e femmina; ‘ha-adam’, l’uomo, si riferisce purtroppo all’umanità tutta, usando quel deprecabile termine che poi il testo continuerà a usare per definire (privato dell’articolo determinativo onde conferirgli unicità) l’uomo maschio. E quando Dio decide di dare all’uomo, ha-adam / adam, una compagna, questa si chiamerà ‘ishà’. Forse avrebbe potuto chiamarla ‘adamà’ (!, che però è ‘la terra’), se avesse voluto mettere la donna in funzione del maschile ‘adam’, e invece la chiama con nome del tutto diverso, come a dichiararne l’autonomia, la specificità, la diversità. La Bibbia sapeva quel che stava facendo, era assai più lungimirante dei miopi sostenitori del politically correct dei nostri miseri tempi.
Dario Calimani