L'ATTENTATO TERRORISTICO A BEER SHEVA
Doris, Laura, Menahem e Moshe
Israele in lutto per le vittime dell’odio
Sono ore di dolore e cordoglio in Israele all’indomani del nuovo attentato terroristico che ha colpito il paese. La vita di quattro persone in pochi minuti è stata spezzata dalla violenza e dall’odio a Beer Sheva, nel sud del paese. Doris Yachbas, 49 anni, Laura Yitzhak, 43 anni, Menahem Yehezkel, 67 anni, Moshe Kravitzky, 50 anni, i nomi delle vittime del terrorista che con un coltello e con la propria auto ha aggredito chiunque gli capitasse vicino. “Il cuore è lacerato e dolorante mentre anime innocenti pagano il prezzo sanguinoso dell’ostilità e dell’odio. Il terrorismo non ci travolgerà né minerà il nostro diritto di esistere nel nostro paese. Insieme al popolo di Israele, invio le condoglianze alle famiglie delle persone in lutto”, le parole del presidente d’Israele Isaac Herzog. A fermare il terrorista, Mohammad Ghaleb Abu al-Qi’an, della città beduina di Hura, è stato un autista di un autobus. L’autista, armato di pistola, ha affrontato l’attentatore, cercando di bloccarlo e fare in modo che si arrendesse. L’uomo però lo ha attaccato e l’autista ha aperto il fuoco assieme ad un altro civile arrivato sulla scena. “Mi sono reso conto che dovevo fare qualcosa, volevo solo proteggere il popolo di Israele”, ha dichiarato l’autista ai giornalisti israeliani.
I media in queste ore ricostruiscono i volti e le storie dietro a questo terribile attentato compiuto nei pressi di un centro commerciale. Tra i primi ad arrivare sul luogo, Yisrael Ozen, paramedico del servizio di primo soccorso Magen David Adom. “Ho visto una donna priva di sensi a terra davanti ad un negozio e ho iniziato a curarla”, ha raccontato Ozen. “Dopo un po’ ho capito che si trattava di mia zia, la sorella di mia madre. Sono rimasto scioccato quando l’ho riconosciuta, ma ho dovuto continuare a lavorare. Non rispondeva e non ci è restato che dichiararne la morte”. Pochi minuti dopo, ha aggiunto Ozen, sul posto è arrivato il marito. “Mi ha visto e ha urlato ‘Yisrael dov’è Doris?’. Non gli ho permesso di avvicinarsi”. Yachbas era madre di tre figli e viveva nel Moshav Gilat, comunità agricola a pochi chilometri da Beer Sheva.
Chi si era trasferito ormai da diversi anni in città era rav Moshe Kravitzky, emissario del movimento Chabad. “Circa 15 anni fa venne a Beer Sheva. C’era bisogno di un energico emissario Chabad di lingua russa. – ha raccontato a Kan il rabbino Zalman Gorlik, direttore della Casa Chabad della città – Gestiva la mensa per i poveri. Si prendeva cura degli anziani, aveva un approccio speciale, un legame particolare con le persone”. Padre di quattro figli, Kravitzky si stava spostando in bicicletta quando il terrorista lo ha investito. A ricordarlo anche la realtà Chabad di Piazza Bologna a Roma, che ha inviato il proprio cordoglio alla sorella Liz (che abita nella Capitale).
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LA CAMPIONESSA FUGGITA DAL CONFLITTO PROTAGONISTA DELLA MARATONA
Gerusalemme torna a correre,
con Kiev e l’Ucraina nel cuore

Chiunque arrivi a Gerusalemme da Tel Aviv non può non imbattersi in una struttura dal profilo inconfondibile. Si tratta del ponte delle corde opera dell’archistar spagnolo Santiago Calatrava, il benvenuto che la Capitale d’Israele rivolge ogni giorno all’eterogenea umanità che viene a farle visita. Dalla riapertura dei confini nazionali dello scorso primo marzo sotto la sua arcata sono tornati a transitare anche i turisti. Un ritorno molto atteso. Circa un migliaio – giunti in queste ore da tutto il mondo, una ventina anche dall’Italia – prenderanno parte al primo grande evento sportivo organizzato in questa primavera di ripartenza: la Jerusalem Marathon, la cui undicesima edizione scatterà alle 7 di mattina di questo venerdì. “Welcome” si leggeva ieri notte sul ponte di Calatrava, mentre sagome di atleti si davano il cambio in una corsa senza soluzione di continuità. Allo stesso modo dovranno muoversi i 15mila runner attesi al via, pronti a darsi battaglia in un continuo e sfiancante saliscendi che prevede anche una suggestiva incursione nella Città Vecchia, all’altezza del quartiere armeno, con ingresso dalla Porta di Giaffa e uscita da quella di Sion.

Nessuno è più benvenuto dell’ospite d’onore di questa edizione: Valentyna Kiliarska, campionessa ucraina di mezza maratona e trionfatrice tra gli altri sotto il traguardo di una delle città simbolo del conflitto: Leopoli. È una delle tante profughe di questa guerra atroce che le ha portato via ogni più elementare certezza e ha fatto macerie della sua casa colpita e distrutta da un missile russo. Con la figlia è riuscita a riparare in Polonia appena pochi giorni fa. Il marito invece è ancora in Ucraina, dove sta combattendo per difendere il suo Paese dagli ordigni e dai tank di Mosca. È la sua prima volta a Gerusalemme e non potrebbe essere più significativa. Verso Israele, raccontano, ma presto lo farà lei di persona, insieme al sindaco Moshe Lion, l’ha spinta la voglia di sentirsi sempre e comunque una sportiva. La volontà di non arrendersi a chi, con la minaccia del sangue, vorrebbe spezzare la determinazione sua e dei suoi connazionali. Un messaggio profondo di impegno e tenacia che Kiliarska condividerà, senza confini, da una platea speciale: quella della “città della pace”.
(Nelle immagini Valentyna Kiliarska al suo arrivo a Gerusalemme e vittoriosa sul traguardo di Leopoli)
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ZELENSKY E I NUOVI ELEMENTI SULLA SUA STORIA FAMILIARE
"I nazisti bruciarono il villaggio di mio nonno
e sterminarono la mia famiglia"

I bisnonni del presidente ucraino Volodymyr Zelensky morirono a causa di un incendio appiccato al loro villaggio dai nazisti. Lo ha raccontato lo stesso Zelensky in un'intervista all'emittente americana CNN all'indomani del suo discorso alla Knesset. Come già in passato, il presidente ucraino nell'intervista ha ricordato come suo nonno e i fratelli entrarono tutti nell'Armata Rossa Sovietica. Il primo fu il solo a sopravvivere alla guerra. Poi ha aggiunto un elemento di cui non aveva fatto cenno in altre uscite pubbliche rispetto al destino dei genitori del nonno. “Suo padre e sua madre furono uccisi in un terribile incendio. I nazisti incendiarono l'intero villaggio dove vivevano e dove era nato mio nonno”, ha raccontato Zelensky al giornalista della CNN Fareed Zakaria. Quest'ultimo ha poi chiesto al presidente come lui “che è di origine ebraica” replica alla retorica della “denazificazione” dell'Ucraina usata dal presidente russo Vladimir Putin. “Quando i russi parlano dei neonazisti e si rivolgono a me, io rispondo solo che ho perso tutta la mia famiglia nella guerra, perché tutti loro sono stati sterminati durante la seconda guerra mondiale”.
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LA DECISIONE DI AMPLIARE LA NORMA REGIONALE ANCHE ALLA CULTURA EBRAICA
Memoria della Shoah e conoscenza dell’ebraismo,
l'impegno del Veneto nella formazione

La legge regionale del Veneto in materia di Giorno della Memoria sarà ulteriormente ampliata, implementando non solo lo studio della Shoah come elemento imprescindibile di formazione per i giovani, ma rafforzando anche una più solida consapevolezza su cosa sia l’ebraismo, quale la sua storia e quali le sue peculiarità. A disporlo il Consiglio regionale con apprezzamento unanime per la proposta di aggiornamento presentata dalla presidente della Commissione Cultura Francesca Scatto. Tra gli obiettivi che vi sono espressi quello di promuovere ancora più significativamente “la conoscenza della realtà, della cultura e della tradizione ebraica, con attenzione particolare alla storia e ai luoghi dell’ebraismo nel territorio regionale”. Questo sarà fatto anche attraverso uno specifico fondo annuale dedicato. “L’intento è dilatare lungo l’intero anno l’impegno culturale e didattico della Regione”, ha annunciato la Consigliera Scatto. Un intervento che parte dal principio che conoscere e comprendere “sono il miglior antidoto per contrastare razzismo, discriminazioni e antisemitismo”. Essenziale in questo senso il supporto delle Comunità ebraiche del Veneto e della Fondazione Cdec, che saranno gli enti di riferimento della Regione.
La legge regionale, nata da un’iniziativa del Consigliere Alberto Villanova su impulso di Davide Romanin Jacur, ex presidente della Comunità ebraica di Padova e attuale assessore al Bilancio UCEI, era entrata in vigore nel gennaio 2020. Al centro, tra gli altri, questo assunto: “Conoscere, comprendere, ricordare, opporsi all’antisemitismo, ai pregiudizi razziali, ai sentimenti e costumi di odio che affliggono i nostri tempi e dilagano anche e più che mai oggi attraverso i mezzi di comunicazione di massa è un dovere”.
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LA CERIMONIA DEDICATA ALLA COPPIA DI EBREI TOSCANI DEPORTATI DA ROMA
16 ottobre, il dramma di Guido e Virginia
Due pietre per la Memoria viva

Un lutto impossibile da elaborare, la scomparsa del figlio Raffaello colpito da una malattia incurabile e morto alla vigilia del fatidico otto settembre del 1943. Con il cuore ancora gonfio di dolore Guido Passigli e sua moglie Virginia Coen decidono che una cosa almeno possono farla: cambiare aria. Da Firenze vanno così a Roma, ospiti di familiari, alla ricerca di un po’ di ristoro e serenità. Un soggiorno assai breve, subito interrotto dalla drammatica alba del 16 ottobre. Dopo l’arresto da parte nazista e la detenzione nell’ex Collegio Militare di via della Lungara saranno entrambi deportati ad Auschwitz e lì uccisi. Guido aveva 68 anni, sua moglie 64.
Per non dimenticare quanto accaduto due pietre d’inciampo sono state collocate stamane in via San Michele a Tegolaia, nella frazione di Grassina, di fronte a quella che fu la loro abitazione. Una cerimonia toccante che ha visto la partecipazione tra gli altri del nipote Guidobaldo Passigli, ex presidente della Comunità ebraica fiorentina, che nel libro “La comitiva” racconta la loro storia e si sofferma sul messaggio di addio scritto dalla coppia nelle ore successive alla cattura. L’unico testo scritto e fatto uscire da quell’edificio di cui si sia oggi a conoscenza. “Un prezioso e commovente messaggio, un documento che giunge quasi dall’aldilà, destinato ad uso privato ma che diventa, con la sua pubblicazione, un importante elemento di Public History”, scrive nella prefazione la storica Liliana Picciotto.
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Ticketless - Beppe Sajeva
 Vorrei ricordare oggi un ebreo partigiano, deceduto il 16 marzo scorso all’età di 95 anni. Beppe Sajeva, figlio di un ebreo bosniaco, Khalil Saviev, e di Esther Vitta. In queste ore in cui il pathos della Resistenza ucraina ci ricorda l’eroismo di uomini come Beppe, la commozione è tanto più grande.
Era nato a Torino nel 1927; all’età di 17 anni entrò nella Resistenza, nella brigata autonoma Val Sangone: esperienza narrata poi in un bel volume di memorie: Appunti di vita partigiana di un ragazzo ebreo (Graphica Ma.Ro, 2009). Dopo la fine della guerra, nel 1947, era stato volontario in Israele, dove si trasferì per un certo periodo. Amava Israele ed era orgoglioso delle sue conoscenze di quel mondo e della lingua dei Padri, ma era al tempo stesso insofferente verso ogni retorica.
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Banduristi e deserto del Nevada
 La Kyivs’ka Kapela Banduristiv era un ensemble vocale e strumentale maschile fondato nell’agosto 1918 a Kyiv [Kiev] da Vasyl Yemetz che accompagnava il canto suonando la bandura, popolare strumento cordofono ucraino; ai banduristi non di rado si affiancavano i Kobzari, corporazione di menestrelli erranti ucraini prevalentemente non vedenti.
Il successo della Kapela fu tale che il governo ucraino avviò un progetto di sostegno economico, aprì una Scuola di bandura, un ostello per i non vedenti Kobzari, una fabbrica di bandura e un Museo; a Yemetz fu persino assegnata una inedita cattedra di bandura presso il Conservatorio di Kyiv.
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Periscopio - Dante noachide
 Ritengo che ci sia ancora qualcosa da dire riguardo all’uso distorsivo – di cui abbiamo parlato nelle scorse puntate -, da parte dei redattori de La difesa della razza, dei due versi del Paradiso (XVI 67-68: “sempre la confusion delle persone/ principio fu del mal della cittade”) apposti in epigrafe sulla copertina del primo numero del quindicinale.
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