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PARIGI E IL RICORDO DELL'ATTENTATO AL RISTORANTE JO GOLDENBERG

"Quarant'anni senza giustizia, un deserto
dal quale vogliamo uscire al più presto"

“Quarant’anni durò la peregrinazione degli ebrei nel deserto prima di raggiungere la Terra Promessa. Anche noi speriamo di uscire al più presto da quarant’anni di attesa. Un deserto, nel nostro caso, che è quello dell’assenza di giustizia”. È l’immagine proposta da Yonathan Arfi, neo presidente del Consiglio rappresentativo degli ebrei di Francia, durante la cerimonia commemorativa tenutasi quest’oggi a Parigi nel ricordo delle sei vittime dell’attentato palestinese al ristorante Jo Goldenberg avvenuta all’ora di pranzo del 9 agosto del 1982. Giustizia che resta al momento lontana dal compiersi, quasi una chimera senza un cambio di passo significativo, visto che tre sospetti terroristi continuano a godere della protezione di Autorità Nazionale Palestinese e Giordania. E solo uno dei sospetti membri del commando, Abu Zayed, è stato estradato dalla Norvegia alla fine del 2020. Di recente il suo nome è stato associato anche a un’altra cellula del terrore: quella che uccise il piccolo Stefano Gaj Taché nell’attacco al Tempio Maggiore di Roma del 9 ottobre successivo. “È necessario andare a fondo di varie questioni, perché ancora non ci siamo riusciti”, l’amara constatazione di Arfi. Delle dinamiche della strage parigina. Ma non solo. Tra i temi da approfondire, ha infatti incalzato, le rivelazioni secondo le quali la Francia avrebbe stretto all’epoca “un accordo con dei gruppi terroristici”. Una ferita dell’ingiustizia impossibile da rimarginare e “che ci ricorda una stagione di attacchi contro luoghi ebraici e sinagoghe anche nel resto d’Europa, dal Belgio all’Italia”. Tra gli intervenuti il ministro della Giustizia Eric Dupond-Moretti, che ha assicurato “il massimo impegno” per far luce su quei tragici fatti e nell’azione di contrasto all’antisemitismo e all’antisionismo nella forma, tra gli altri, “del movimento BDS”.

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LA SCOMPARSA DI OLIVIA NEWTON-JOHN (1949-2022)

La star di Grease e il nonno Nobel in fuga da Hitler

Mondo dello spettacolo in lutto per la scomparsa di Olivia Newton-John, indimenticabile volto di uno dei film più amati della storia del cinema: Grease. Quattro volte vincitrice dei Grammy Award, l’attrice e cantante britannica di nascita e australiana d’adozione era nipote di uno dei più grandi “cervelli” del Novecento: il fisico ebreo tedesco Max Born (1882-1970), vincitore nel ’54 del Nobel per la Fisica per le sue ricerche nel campo della meccanica quantistica. Amico di Albert Einstein e maestro tra gli altri di figure del calibro di Enrico Fermi e Julius Robert Oppenheimer, aveva lasciato la Germania con l’avvento del nazismo e da lì era riparato in Gran Bretagna, insegnando prima all’Università di Cambridge e poi a quella di Edimburgo. Ritiratosi dalla docenza, aveva scelto di tornare a vivere nel suo Paese d’origine.
“La fisica teorica fiorirà ovunque tu sarai — non c’è un altro Born nella Germania di oggi. La cosa migliore è seguire l’istinto senza pensarci su troppo a lungo”, gli aveva scritto Einstein in una lettera giovanile. Un carteggio, quello tra i due, dipanatosi nel corso di vari decenni e con molti lettori illustri. Tra gli altri Bertrand Russell, che ne scriverà in questi termini: “Entrambi gli uomini erano brillanti, umili e completamente privi di paura nelle loro prese di posizione pubbliche. In un’epoca di mediocrità e di pigmei morali le loro vite risplendono di intensa bellezza”. Una memoria cara ancha alla nipote. “Mia madre era molto orgogliosa di questa sua radice ebraica. Ne parlava spesso” aveva raccontato Olivia Newton-John in una recente intervista con la televisione israeliana. “Curiosamente, varie mie amiche sono ebree”.

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PAGINE EBRAICHE - "LIBRI IN VALIGIA"

La grande guerra dell'informazione

Negli Stati Uniti la bolla dei media è esplosa dopo le elezioni. Il boom della presidenza Trump, che aveva segnato una crescita vertiginosa dell’audience e dei profitti, si è rivelato transitorio. La crescita si è interrotta e la frenesia del ciclo delle notizie è stata rimpiazzata da una sorta d’indifferenza. Non è solo che Biden fatica a tenere la gente incollata allo schermo, a differenza del suo predecessore. È che lo scenario continua a cambiare – dalla distribuzione delle forze in campo alla sensibilità collettiva.
L’ultimo libro di Jill Abramson, Mercanti di verità, racconta questa rivoluzione con l’occhio al dettaglio del reporter e l’esperienza maturata in una lunga controversa carriera ai massimi livelli. Cresciuta in una famiglia ebraica, dopo incarichi a Time e al Wall Street Journal è stata la prima donna a diventare direttore esecutivo del New York Times – ruolo da cui tre anni dopo è stata licenziata per comportamenti ritenuti discutibili e arbitrari. Neanche Mercanti di verità è uscito indenne dal polverone che puntuale l’accompagna, ma al di là delle polemiche in queste pagine articolate attorno a quattro protagonisti dell’informazione – Buzzfeed, Washington Post, New York Times e Vice – si coglie la mutazione strutturale che sempre più sposta i ricavi sul fronte digitale e in questo processo sperimenta nuove formule rimodellando la capacità di attenzione e critica dei cittadini. “È un momento entusiasmante per il giornalismo”, scrive Abramson. E vale la pena leggerne.

Daniela Gross

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L'INTERVENTO

Edith Stein e le difficoltà del dialogo

Sia Avvenire che Famiglia cristiana ricordano che 80 anni fa, il 9 agosto 1942, veniva uccisa ad Auschwitz-Birkenau Edith Stein. Edith Stein (1891-1942) è una ebrea vittima della Shoah, come milioni di suoi fratelli e sorelle. È anche una suora carmelitana, con il nome di Teresa Benedetta della Croce, una santa della Chiesa cattolica, co-patrona d’Europa e candidata al titolo di Dottore della Chiesa. Iniziati gli studi presso l’università di Breslavia decise di proseguirli a Gottinga dove teneva le sue lezioni Edmund Husserl. Con il celebre fenomenologo si laureò con una tesi sull’empatia e poi ne divenne assistente. Durante la Grande guerra prestò servizio come infermiera volontaria. Una serie di incontri e di esperienze la condussero a convertirsi nel 1922 al cattolicesimo. Il 12 aprile 1933, alcune settimane dopo l’ascesa al potere di Hitler, Edith Stein scrisse a Roma per chiedere a papa Pio XI e al suo segretario di stato – il cardinale Eugenio Pacelli, già nunzio apostolico in Germania e futuro papa Pio XII – di non tacere e di denunciare le prime persecuzioni contro gli ebrei.

Marco Cassuto Morselli 

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La sfida di un museo
Un’antica polemica ebraica oppone l’impegno alla musealità all’impegno per la vita. Lo sguardo a un passato esibito in bacheca contro il fervore di una vita ebraica attiva – dove per ‘vita ebraica attiva’ si intendono molteplici strade possibili, ovviamente. Non so se altri, in altre società e culture, abbiano teorizzato e dibattuto con altrettanta intensità questa opposizione. Come accade spesso, fra gli estremi del museo e della vita assoluta esistono molte variabili intermedie, esistono compromessi e conciliazioni infinite. 
 
Dario Calimani
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Una parola da cancellare
Un tweet di Amnesty Italia recitava “Oggi si giocherà Roma Tottenham ad Haifa. Non è stato possibile incontrarci, ma abbiamo inviato su richiesta di@Official ASRoma questo rapporto sull’apartheid israeliano contro i palestinesi (..) Ci auguriamo di proseguire il confronto su questi temi”. L’Osservatorio Enzo Sereni, per il tramite del suo Presidente Paolo Pollice, ha inviato una sua replica. 
Emanuele Calò
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Tanti leader, pochi programmi
Lo scontro che in vista delle elezioni politiche del 25 settembre si fa sempre più acceso pone al centro la rivalità tra personalità carismatiche o pseudo-carismatiche alla guida di partiti contrapposti, ma lascia vistosamente in ombra i contenuti, i progetti di miglioramento e di sviluppo che dovrebbero dare un significato e una agenda di lavoro ai gruppi che si candidano ai seggi parlamentari.
 
David Sorani
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