Tanti leader, pochi programmi

Lo scontro che in vista delle elezioni politiche del 25 settembre si fa sempre più acceso pone al centro la rivalità tra personalità carismatiche o pseudo-carismatiche alla guida di partiti contrapposti, ma lascia vistosamente in ombra i contenuti, i progetti di miglioramento e di sviluppo che dovrebbero dare un significato e una agenda di lavoro ai gruppi che si candidano ai seggi parlamentari. Che ciò sia dovuto al meccanismo della attuale legge elettorale, con il ruolo centrale dei collegi uninominali e le conseguenti forzate alleanze tra formazioni vicine tese a comporre schieramenti tra loro antitetici, è solo parzialmente vero. La tendenza all’apparentamento “contro” potrebbe infatti produrre non solo un’ accentuazione di rivalità nei confronti degli avversari, ma anche l’elaborazione di programmi comuni tra alleati.
Dietro il vuoto o la carenza di temi, di visioni prospettiche temo che in realtà si celi qualcosa di più profondo, un male introiettato ormai nella società del nostro tempo e nel suo modo di comunicare. Quasi tre decenni di populismo variegato e crescente (se facciamo partire questa concezione e questo stile comunicativo dalla “discesa in campo” di Berlusconi nel 1994) si sono col tempo radicati nel nostro sistema sociale, impregnando il modo di pensare la politica e non solo, le relazioni pubbliche e private, il costume collettivo e l’atteggiamento di ognuno. Il populismo di massa nel quale ci siamo progressivamente immersi ha certo subito notevoli trasformazioni ed evoluzioni/involuzioni, legate soprattutto al rivoluzionario sviluppo tecnologico che in questi ultimi anni ha creato e diffuso quei social media capaci di dilatarne oltremisura caratteri ed effetti.
La politica dei nostri giorni – dalla formazione al dibattito, dalla propaganda alla polemica, dalla cronaca al commento – è espressione diretta del mondo populista in cui viviamo, e inevitabilmente ne ha ormai da tempo assunto connotati, linguaggio, metodi, strumenti tecnici. Ecco dunque il personalismo che regna sovrano, ecco il culto del leader che con la sola sua presenza esprime una tendenza. Ecco i “like”, che valgono poco in termini di contenuto ma hanno ben altra efficacia in termini di consenso di massa rispetto a opinioni o critiche circostanziate. Ecco i “selfie”, che accostando visivamente in tempo reale capo carismatico e supporter entusiasta sono l’immagine folgorante del divismo politico dei nostri giorni. Ecco i “tweet”, irrinunciabili commenti a caldo lanciati da tutti i politici, che a scapito di ogni approfondita riflessione disegnano e arroventano il clima delle inevitabili polemiche. E in mezzo a tutta questa indispensabile (?) celebrazione mediatica dell’individualismo più effimero chi trova ancora il tempo per pensare e costruire la politica come sistema di elaborazione plurale per il benessere collettivo o comunque per la realizzazione di interessi sociali diffusi? E soprattutto quanti ancora ne condividono una simile interpretazione? E’ naturale dunque che tutto l’impegno venga profuso nella cura della propria immagine, nella ricerca affannosa di alleanze e nella demonizzazione dello schieramento avverso, senza riguardi particolari nei confronti della dimensione autentica dei problemi e delle strade spesso complesse atte a risolverli. La politica rischia così di divenire puro gioco di potere per il potere, di destra o di sinistra che sia, senza l’adeguata attenzione alle questioni realmente sul tappeto, creando quindi una crescente distanza tra cittadini e “addetti ai lavori”.
In siffatte condizioni appare allora anche abbastanza conseguente, per quanto certo non condivisibile, il diffuso disinteresse e disprezzo per la dimensione del “politico” in sé. Se quella che Platone – proprio nel “Politico” – vedeva un po’ aristocraticamente come la rara abilità di unire la trama con l’ordito per costruire una struttura equilibrata di governo diviene arte di promuovere se stessi e la propria parte con ogni mezzo, allora alla lunga non può che derivarne un crescente senso di estraneità, l’astensionismo nelle occasioni di voto che è sotto gli occhi di tutti, e in definitiva la caratterizzazione negativa della politica e del politico di professione come “male”. Il che, certo, è un male assoluto per la società, le istituzioni, lo Stato, come per la vita di ciascun cittadino.
Se l’attuale carenza di programmi non propagandistici ha alle spalle questo clima generale di disfacimento populistico la situazione è davvero difficile, perché ora come ora non si vede come sia possibile invertire una tendenza di lungo periodo e ormai introiettata. Sarà possibile raccogliere e trasformare in senso positivo (cioè costruttivo, condiviso, sociale) le enormi potenzialità espressive/ comunicative offerte dalla tecnologia e soprattutto modificare radicalmente l’atteggiamento egoistico legato alla pura immagine che domina oggi l’orizzonte politico?
Ce ne sarebbe davvero bisogno, perché tanti sono i settori da cui emerge grave sofferenza e che necessitano di seria programmazione: dai profondi squilibri sociali effetto della crisi economica accentuata dalla guerra alla formazione dei giovani e alle prospettive, per loro, di lavoro qualificato nel nostro Paese; dalle situazioni di disagio legate all’immigrazione – con la necessità di attuare una avveduta organizzazione dell’accoglienza e dell’integrazione nonché un effettivo riconoscimento dei diritti civili a partire dalle seconde e terze generazioni – all’emergenza climatica e ambientale che produce danni sempre più devastanti. E questi sono solo alcuni dei molti temi caldi e urgenti.
In gioco c’è dunque ben di più della poltrona parlamentare da conquistare a suon di tweet.
David Sorani

(9 agosto 2022)