"Rivolta del Ghetto di Varsavia,
simbolo universale di coraggio"
Il presidente polacco Andrzej Duda, quello tedesco Frank-Walter Steinmeier e quello israeliano Isaac Herzog hanno onorato assieme il ricordo dei combattenti che presero parte alla rivolta del Ghetto di Varsavia, nell’ottantesimo anniversario dell’insurrezione.
“Ottanta anni dopo la rivolta del Ghetto di Varsavia, simbolo di eroismo e coraggio, sono qui come presidente dello Stato democratico del popolo ebraico, a nome di tutte le vittime, dei sopravvissuti e degli insorti”, le considerazioni del presidente israeliano nel raggiungere il monumento commemorativo davanti al quale, oltre mezzo secolo fa, in una storica giornata di dicembre, Willy Brandt decise di inginocchiarsi. Herzog, nel rievocare quanto avvenuto nella primavera del ’43, ha citato il pensiero di una delle insorte: Zivia Lubetkin, l’unica donna nel comando del gruppo Żydowska Organizacja Bojowa. “Sapevamo di non avere alcuna possibilità di vittoria, nel senso comune del termine. Ma sapevamo che alla fine ne saremmo usciti vittoriosi. La nostra forza stava in questo: credevamo nella giustizia, abbiamo creduto nell’umanità”, testimonierà la donna. Anche Steinmeier e Duda hanno preso la parola. “Ci troviamo qui, in questo luogo storico, in ricordo di coloro che sono stati assassinati e nell’accettazione della nostra responsabilità per il raggiungimento del miracolo della riconciliazione”, il pensiero espresso dal primo. Secondo Duda, gli insorti del Ghetto “sono degli eroi condivisi: eroi d’Israele, eroi per gli ebrei di tutto il mondo, eroi di Polonia e del popolo polacco”. A sottolineare l’importanza di questo anniversario è stato anche il Presidente italiano della Repubblica Sergio Mattarella, intervenuto stamane a Cracovia all’Università Jagellonica, che ha parlato della Shoah come di una barbarie che “rimane indefettibile nelle nostre menti e nei nostri cuori”. Un’occasione per rammentare la visita delle scorse ore ad Auschwitz-Birkenau in compagnia di Andra e Tatiana Bucci, da lui definita “una esperienza indimenticabile”. È la Memoria – ha affermato Mattarella, rivolgendosi ai docenti e studenti dell’ateneo – “che alimenta la coscienza che, a sua volta, ci rende pienamente esseri consapevoli”.
"Varsavia e la resistenza silenziosa,
una lezione per il presente"
La storia dei cinquantamila civili che vivevano nel Ghetto di Varsavia nell’aprile del 1943 è poco raccontata. Molto, comprensibilmente, si è detto dell’eroismo del migliaio di combattenti male armati che per quasi un mese riuscirono a tenere testa all’esercito nazista. Poco invece si sa delle vite delle decine di migliaia di uomini, donne e bambini, che fecero un altro tipo di resistenza. “Non erano combattenti, non appartenevano alle organizzazioni clandestine come la ŻOB (l’Organizzazione di Combattimento Ebraica) o la ŻZW (l’Unione Militare Ebraica). Ma comunque si opposero ai nazisti e al loro sistema di deportazione e uccisioni. Invece di presentarsi al trasporto, si nascosero. La loro resistenza silenziosa non fu meno importante di quella armi in mano. Non c’è contraddizione. Sono la storia dello stesso destino ebraico”.
Per questo, spiega a Pagine Ebraiche Zuzanna Schnepf-Kołacz, il museo della storia degli ebrei polacchi Polin ha voluto dedicare ai 50mila civili la mostra per l’ottantesimo anniversario dell’insurrezione del Ghetto. “Intorno a noi un mare di fuoco”, il titolo dell’esposizione curata da Schnepf-Kołacz, che spiega come l’anniversario rappresenti “un punto di partenza non solo per commemorare i morti nel ghetto, ma anche per ascoltare le storie dei sopravvissuti: il nostro programma per l’anno 2023 ci consentirà di acquisire una prospettiva critica sulla storia e di guardare al presente e al futuro, come ci ha incoraggiato a fare Marian Turski il 27 gennaio 2020 quando ci ha ricordato il cosiddetto undicesimo comandamento, un messaggio del suo amico Roman Kent: ‘Non essere indifferente’. Parole che riteniamo particolarmente significative e attuali, oltre un anno dopo l’invasione russa dell’Ucraina, con tanti rifugiati in cerca di un posto sicuro in Polonia”.
Da dove nasce l’idea della mostra?
Lo spunto è della professoressa Barbara Engelking, per raccontare una storia sconosciuta al grande pubblico: quella appunto dei civili nascosti nei bunker sotto terra, circondati dal fuoco appiccato, casa per casa, dai nazisti. Abbiamo scelto dodici storie emblematiche, basate su testimonianze scritte durante la guerra o subito dopo. Era importante per me e la professoressa Engelking che la narrazione nei racconti non fosse in qualche modo distorta dalla memoria o da altre narrazioni nate dopo la guerra. I dodici protagonisti sono cinque donne e sette uomini. Non si conoscevano, anche se è difficile dire se non si siano incontrati in qualche momento del loro cammino attraverso l’inferno della rivolta. A volte si nascondevano in una strada vicina, nella casa accanto. Erano giovani. A parte l’undicenne Krystyna Budnicka, quasi tutti avevano vent’anni. Il più anziano, Symcha Binem Motyl, aveva 34 anni. Cinque non sono sopravvissuti alla guerra; non sappiamo come siano morti. Le esperienze dei protagonisti e delle protagoniste della mostra sono state diverse, ma i sentimenti e i pensieri si sono intersecati e sovrapposti in molti punti, creando un’unica storia di disperazione, impotenza, solitudine, abbandono da parte del mondo e consapevolezza che la fine era vicina.
Come avete fatto a ricostruire le storie di queste persone?
Siamo partiti come dicevo dalle testimonianze scritte, per poi cercare documenti, fotografie, capire chi fosse sopravvissuto alla Shoah, e, nel caso, quale fosse stato il suo destino dopo la guerra. Di alcune persone non conosciamo neanche il nome, non abbiamo un volto. Le nostre ricerche in ogni caso hanno coinvolto gli archivi di Varsavia, in Israele e Stati Uniti. Ma la documentazione più interessante è arrivata dalle famiglie che siamo riusciti a contattare. Alcuni figli e nipoti dei protagonisti della mostra sono venuti all’inaugurazione.
Quando il regime nazista nel novembre 1940 istituì il ghetto di Varsavia, nella città vecchia, fra i tantissimi che vi si ritrovarono rinchiusi non potevano ovviamente mancare gli artisti. Pochi coloro che riuscirono a sopravvivere, ma delle loro opere, se non sono arrivate sino a noi, è rimasta comunque traccia. “Getto warszawskie. Przewodnik po nieistniejącycm mieście” (Il ghetto di Varsavia, guida a una città inesistente) di Barbara Engelking e Jacek Leociak e “Byli w koronie naszej największym klejnotem – artyści w getcie warszawskim” (Erano i gioielli migliori della nostra corona, artisti nel ghetto di Varsavia) di Renata Piątkowska sono due tra i tentativi di ricostruire la ricchezza della vita culturale di quella che è stata, pur nelle vicissitudini atroci, una città nella città, piena di vita e di cultura.
Dai numerosi caffè e ristoranti con un proprio programma musicale e artistico – il più famoso fu il Kawiarnia Sztuka (Art Café), dove si esibirono sia Władysław Szpilman che Wiera Gran, insieme a Pola Braun, Diana Blumenfeld e Marysia Ajzensztadt, nota anche come “l’usignolo del ghetto”. Una serata regolare, di grande successo, era quella dedicata al “Żywy dziennik”, il giornale vivente, cabaret ispirato alla vita nel ghetto e alla cronaca sulla stampa quotidiana. Molti musicisti cacciati dalla Warsaw Philharmonic e dalla Polish Radio Orchestra avevano formato la Jewish Symphonic Orchestra, diretta da Szymon Pullman…i suoi concerti vennero però vietati, per i nazisti era inaccettabile suonassero anche brani di compositori ariani. Non mancavano ovviamente i cantori di sinagoga di una certa fama, tra cui Gershon-Yitskhok Leibovich Sirota, noto ai tempi anche come “il Caruso ebreo”, che era arrivato a esibirsi a New York, registrando il tutto esaurito alla Carnegie Hall.
Celebre è l’iniziale rifiuto da parte della casa editrice Einaudi nel mandare in stampa “Se questo è un uomo”, il capolavoro di Primo Levi. Un errore di valutazione al quale avrebbe posto rimedio soltanto molti anni dopo. Non altrettanto noto, ma comunque significativo, un secondo “no” opposto rispetto alla possibilità di patrocinare un accurato lavoro di Mario Lattes sul Ghetto di Varsavia, nonostante un contratto già firmato.
Elaborato a partire dalla sua tesi di laurea, discussa nel 1960 all’Università di Torino, si caratterizza per essere il saggio più completo ed esaustivo mai scritto sul tema da un autore italiano. Per fortuna, anche se soltanto mezzo secolo dopo, ci ha pensato Edizioni Cenobio a colmare questa lacuna, dandone diffusione con la curatela di Giacomo Jori. Pagine da sfogliare e risfogliare mentre si avvicina l’appuntamento col centenario di Lattes, nato a Torino nell’ottobre del 1923. Una figura affascinante e versatile, e in parte ancora da scoprire.
“Pittore e poeta, scrittore e polemista, animatore culturale e intellettuale schivo” evidenziavamo su Pagine Ebraiche, nel ventennale della morte, che Olschki aveva deciso di marcare con la pubblicazione di tutte le sue opere, riunite in tre volumi. Simbolica, nel gennaio del 2015, la scelta di presentare il saggio nella cornice dell’Istituto Italiano di Cultura di Varsavia.
“E uscirono due orse dalla boscaglia e sbranarono quarantadue dei ragazzi…” (2Melakhim 2,24). Non fu, ahimè, un episodio isolato. L’opinione pubblica è oggi divisa sulla sorte di Jj4, l’orsa che ha recentemente ucciso un ventiseienne in Val di Sole, dopo aver ferito gravemente altre persone in passato. Il suo branco è stato importato nel 2000 dalle autorità locali per un progetto di ripopolamento faunistico del Trentino occidentale finanziato dalla Comunità Europea. Tenterò una lettura della questione ai sensi della Halakhah, senza togliere ad altri il compito di trovare una soluzione adeguata. Esprimo anzitutto la mia solidarietà alla famiglia in lutto.
L’orso è nominato nel Tanakh tredici volte, spesso associato al leone. In Eykhah 3,10 è usata la metafora “orso insidiatore”. Nella profezia messianica di Yesha’yahu (11,7) si prospetta che “la mucca e l’orso pascoleranno insieme”: la mitezza della prima ridimensiona l’aggressività del secondo. I Maestri del Talmud (Qiddushin 72a) paragonano i Persiani per certi loro comportamenti grossolani all’orso, animale goffo che si muove senza posa. Altre volte l’orso diviene addirittura simbolo della tentazione (Bereshit Rabbà 87,3).
L’indole pericolosa dell’orso è riflessa nelle fonti halakhiche fin da antico. Tre sono i passi della Mishnah che ci interessano in particolare. In ‘Avodah Zarah 16a i Maestri hanno proibito la vendita di orsi e leoni a non ebrei al pari delle armi, a prescindere dalla loro nocività individuale (Maimonide, Hil. ‘Avodah Zarah 9,8 e Lechem Mishneh ad loc.). Seguendo questa logica l’iniziativa delle autorità trentine di reintrodurre gli orsi in regione è per lo meno discutibile. Se, come vedremo, estinguere gli animali è proibito, non c’è peraltro alcun obbligo di rimpiazzare specie pericolose laddove siano già estinte, quale che ne sia stata la causa: soprattutto mettendoli di fatto a contatto con l’uomo, come attesta la cronaca.
La letteratura yiddish di cui si è parlato in alcuni recenti interventi su Pagine Ebraiche è la celebrazione di un mondo che fu. Per certi versi ciò è vero. Buona parte degli ebrei della Polonia, Bielorussia e Lituania che parlavano yiddish sono stati trucidati nella Shoah.
Ma ciò che non è stato menzionato è che, pur ridimensionato nei numeri e traslocato altrove, questo mondo e la sua lingua, l’yiddish, sono ben vivi e vegeti.
Ci sono oggi almeno un milione di persone al mondo che parlano l’yiddish. O come madrelingua o come lingua corrente. Oggi non vivono più a Cracovia, Odessa o Vilna. Ma basta fare un giro nei quartieri chassidici e charedi da Brooklyn a Gerusalemme, da Anversa a Melbourne, da Bnei Berak a Londra e si sente parlare l’yiddish per strada.
Ci sono scuole e yeshivot in cui la lingua principale è l’yiddish. Lo si parla a casa: ci sono giochi da tavolo, libri per bambini, giornali e novelle per adulti in yiddish. Ci sono cantanti e canzoni in yiddish. In alcune zone di Brooklyn le campagne elettorali dei politici americani includono cartelloni in yiddish. A Boro Park è possibile addirittura prelevare soldi dal bancomat in yiddish.
In concomitanza con Yom HaShoah, il giorno in cui nel calendario ebraico si commemorano le vittime dello sterminio, una delle due opere che l’artista Alexandro Palombo ha realizzato per il Memoriale della Shoah di Milano è stata deturpata. Il responsabile dell’atto vandalico ha sfregiato con segni neri le stelle gialle delle casacche dei deportati che indossano i protagonisti dell’opera. “Procederemo nei prossimi giorni a verificare i filmati delle telecamere cercando di individuare il responsabile" spiega Roberto Jarach, il presidente del Memoriale. "Ciò che ci preoccupa è cogliere in quest’atto una possibile tendenza revisionista e antisemita”. L’auspicio è che il resto della cittadinanza “risponda con il suo opposto, solidarietà ed empatia".