La Resistenza della cultura

Quando il regime nazista nel novembre 1940 istituì il ghetto di Varsavia, nella città vecchia, fra i tantissimi che vi si ritrovarono rinchiusi non potevano ovviamente mancare gli artisti. Pochi coloro che riuscirono a sopravvivere, ma delle loro opere, se non sono arrivate sino a noi, è rimasta traccia. “Getto warszawskie. Przewodnik po nieistniejącycm mieście” (Il ghetto di Varsavia, guida a una città inesistente) di Barbara Engelking e Jacek Leociak e “Byli w koronie naszej największym klejnotem – artyści w getcie warszawskim” (Erano i gioielli migliori della nostra corona, artisti nel ghetto di Varsavia) di Renata Piątkowska sono due tra i tentativi di ricostruire la ricchezza della vita culturale di quella che è stata, pur nelle vicissitudini atroci, una città nella città, piena di vita e di cultura.
Dai numerosi caffè e ristoranti con un proprio programma musicale e artistico – il più famoso fu il Kawiarnia Sztuka (Art Café), dove si esibirono sia Władysław Szpilman che Wiera Gran, insieme a Pola Braun, Diana Blumenfeld, e Marysia Ajzensztadt, nota anche come “l’usignolo del ghetto”. Una serata regolare, di grande successo, era quella dedicata al “Żywy dziennik”, il giornale vivente, cabaret ispirato alla vita nel ghetto e alla cronaca sulla stampa quotidiana. Molti musicisti cacciati dalla Warsaw Philharmonic e dalla Polish Radio Orchestra avevano formato la Jewish Symphonic Orchestra, diretta da Szymon Pullman… i suoi concerti vennero però vietati, per i nazisti era inaccettabile suonassero anche brani di compositori ariani.
Non mancavano ovviamente i cantori di sinagoga di una certa fama, tra cui Gershon-Yitskhok Leibovich Sirota, noto ai tempi anche come “il Caruso ebreo”, che era arrivato a esibirsi a New York, registrando il tutto esaurito alla Carnegie Hall. Come sottolineano Leociak ed Engelking, continuare a fare ciò che era normale prima della guerra nel ghetto si era trasformato in un segno di resistenza all’ordine mondiale che i nazisti cercavano di imporre. Si cercava di non rinunciare a nulla: cinque erano i teatri, tre mettevano in scena opere in yiddish, due in polacco, e nei venti mesi del ghetto non smisero mai di lavorare, con quasi settanta opere prime presentate al pubblico. Più difficile la vita di giornalisti, scrittori e soprattutto dei pittori, privati non solo della possibilità di guadagnarsi da vivere, ma anche della possibilità di procurarsi i materiali necessari a lavorare. Anche i grandi nomi furono costretti ad accettare lavori di fortuna, nonostante il tentativo di fondare una sorta di spazio condiviso dove pittori e scultori, ma anche scrittori e giornalisti, potessero non solo avere accesso a un pasto, benché modesto, ma anche condividere idee e quell’attività culturale che riuscivano a portare avanti. Tra le pochissime opere d’arte sopravvissute alla distruzione del ghetto un’eccezione è data dal lavoro di Gela Seksztajn, che riuscì a nascondere più di trecento opere in quell’archivio segreto del ghetto noto come Ringelblum Archive.
Sono sopravvissuti anche alcuni ritratti di bambini, opera di quello che probabilmente era stato un insegnante di disegno, mentre l’opera di Maurycy Rynecki attualmente conservata allo Yad Vashem è possibile sia posteriore alla distruzione del ghetto. Le opere di Roman Kramsztyk, invece, si sono salvate perché erano state fatte uscire in qualche maniera. È ancora una volta grazie al Ringelblum Archive o al contrabbando fuori dai cancelli che una parte degli scritti prodotti nel ghetto si sono salvati (così è stato per i testi di Korczak, per esempio) e gli autori non mancavano davvero: pare fossero una novantina gli autori richiusi che, in yiddish, ebraico e polacco non smisero di lasciare traccia. Dal più famoso, quell’Itzhak Katzenelson autore di “Dos lid fun oysgehargetn yidishn folk”, il canto del popolo ebraico massacrato, ai meno noti, la volontà degli scrittori, ma anche di quei contabili e impiegati di cui si sono salvati resoconti, era di lasciare testimonianza. Che non fosse possibile dimenticare non solo la distruzione, ma soprattutto la vita che nonostante tutto fioriva.

Ada Treves

(Nell’immagine: il ritrovamento dell’archivio Ringelblum)