David
Sciunnach,
rabbino
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“Moshè
andò e disse queste parole a tutto Israele …” (Devarìm 31, 1). Ha detto
il commento Noàm Meghadìm: Anche dopo che Moshè Rabbenù è “andato” via
da questo mondo “disse queste parole a tutto Israele”. Moshè parla
costantemente al popolo d’Israele, ogni volta che un ebreo studia la
Torah è come se la ricevesse da Moshè stesso.
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David
Assael,
ricercatore
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Il
grande piano tedesco di accoglienza sembra già essere tramontato e
l’Europa è ripiombata in un attimo nelle sue divisioni e
contraddizioni.
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In Israele ancora tensione |
Sono
continuati anche durante il secondo giorno della festività ebraica di
Rosh Hashanah gli scontri tra militari israeliani e dimostranti
palestinesi, con lanci di mattoni e sassi da parte di questi ultimi,
presso il luogo sacro che corrisponde alla Spianata delle Moschee per i
musulmani e al Monte del Tempio per gli ebrei. Le versioni, riporta la
Stampa, sono diverse: secondo fonti palestinesi i militari sarebbero
entrati nella moschea per fermare i palestinesi barricati, calpestando
i tappeti e arrivando al pulpito dei sermoni, mentre la polizia
israeliana assicura che non vi è stata violazione del luogo sacro. Il
gruppo terroristico di Hamas cerca intanto di gettare benzina sul fuoco
e, nel corso della terza giornata di scontri, ha parlato di
“dichiarazione di guerra da parte di Israele alla quale gli arabi
devono rispondere”.
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israele Gerusalemme, equilibrio difficile
Contromisure
per combattere la nuova spirale di violenza. È quanto ha garantito il
Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu nel corso di una riunione
del gabinetto di sicurezza, tenutasi per affrontare la questione delle
tensioni e scontri di questi giorni a Gerusalemme, nel luogo sacro per
ebrei e musulmani noto come Monte del Tempio o Spianata delle Moschee.
Nell'area,
soldati israeliani si sono dovuti confrontare, nel corso delle
celebrazioni della festa ebraica di Rosh Hashannah, con alcuni
dimostranti palestinesi e con il lancio da parte di questi ultimi di
sassi e molotov. “Daremo alle autorità gli strumenti per agire in modo
fermo contro chi compie queste azioni”, ha dichiarato Netanyahu.
Proprio il lancio di pietre ha causato domenica, a Gerusalemme, una
vittima: mentre si stava dirigendo verso casa, alla vigilia di Rosh
Hashanah, l'auto del sessantaquattrenne Alexander Levlovitz è stato
colpita da alcuni massi. Il veicolo è andato fuori strada, causando la
morte del conducente.
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Memoria - Via San Nicolò 30 Traditori cercansi, meglio ebrei
Se una storia non fa la Storia
Via
San Nicolò 30 – Traditori e traditi nella Trieste nazista è il titolo
del libro che le edizioni Il Mulino mandano in libreria domani, giovedì
17 settembre. Nel testo il giornalista Roberto Curci evoca fra l’altro
le vicende del delatore ebreo triestino Mauro Grini che favorì
l’arresto e la deportazione di molti altri ebrei italiani. Il giornale
dell’ebraismo italiano Pagine Ebraiche tratterà l’argomento con molti
servizi nel suo numero di ottobre, in distribuzione nelle prossime
settimane. Anticipiamo in questo notiziario quotidiano una nota del
direttore della redazione e l’analisi di due storici italiani, Anna Foa
e Simon Levis Sullam, che hanno dedicato molti studi agli anni delle
persecuzioni e delle deportazioni.
Nell’autunno del 1943, quando la politica dell’odio antiebraico
fortemente voluta dal regime fascista aveva ormai raggiunto le sue
inevitabili, estreme conseguenze, ognuno dei 39 mila ebrei italiani era
nell’immediato pericolo di vita.
Almeno 7291 di loro trovarono la morte nei mesi seguenti. Molti, molti
altri avrebbero subito la stessa sorte se non fossero stati tratti in
salvo dal coraggio di alcuni cittadini, di alcune istituzioni religiose
cattoliche e soprattutto del governo della Confederazione elvetica,
unica istituzione democratica superstite in un’Europa continentale
ormai in fiamme, che aprì le frontiere per dare riparo ad almeno
seimila ebrei italiani.
Le forze occupanti tedesche procedettero alle prime retate fra il
settembre e il novembre del 1943, sulle base delle informazioni
ottenute dalle autorità italiane, che dal 1938 si erano dedicate a
schedare i cittadini ebrei presenti in Italia. In quelle settimane
oltre 2500 persone furono deportate.
Da allora in poi la quasi totalità degli ebrei superstiti fu costretta
a entrare in clandestinità e gli arresti che seguirono, la deportazione
di altri 5000 esseri umani, fu operata grazie alla consolidata pratica
della delazione che il regime fascista aveva inoculato da anni nella
popolazione.
Furono migliaia i delatori che per odio o per interesse favorirono la
cattura di ebrei alla ricerca di un riparo. Furono migliaia, e
appartenenti a ogni strato sociale, a ogni ambiente culturale e ben
rappresentativi di come era stata degradata la società italiana dalla
dittatura fascista.
Fra migliaia e migliaia, due di essi, una donna a Roma e un uomo a
Trieste, erano ebrei. Due su 39 mila, forse ancora qualcuno, anche se
altri nomi evocati a Roma non portarono effettivamente ad alcun esito
nelle indagini, collaborarono attivamente per favorire l’arresto dei
loro fratelli, li tradirono e li mandarono a morte. Probabilmente
agirono come gli altri delatori, perché anche gli ebrei italiani sono
italiani come gli altri, con le loro debolezze, le loro contraddizioni
e le loro vigliaccherie, per avidità e per odio. E nel loro caso si può
forse ritenere che agirono anche nella speranza di avere salva la vita.
Perché stupirsene? Due fra 39 mila ebrei, due su migliaia di delatori
cattolici, non sono un gran numero. E se fossero stati sei non
cambierebbe gran cosa. Non dimostrano proprio nulla, se non il male
devastante che il fascismo portò all’Italia, il tradimento delle
istituzioni nei confronti dei propri cittadini ebrei, la vigliaccheria
della maggioranza.
E intanto tutto il mondo è andato avanti. L’Europa civile, a cominciare
dalla Germania, ha imparato a fare seriamente i conti con il proprio
passato, a chiamare le cose con il proprio nome.
Non proprio tutto il mondo. Ci sono anche le eccezioni, e fra le
eccezioni ci siamo noi. Se altrove il processo di maturazione e di
pulizia ha fatto molta strada, a casa nostra, con i negazionisti alle
porte, siamo appena ai primi timidi tentativi. Una politica perseguita
coerentemente da ogni governo già dal 1944, poi dalla frettolosa
amnistia Togliatti del governo De Gasperi nel 1946, il primo
provvedimento di questa natura ad essere adottato nell’Europa liberata,
quando i criminali che avevano operato nelle strutture del fascismo e
collaborato con l’occupante tedesco furono lasciati liberi. Ben pochi,
dopo i primi atti di sommaria giustizia partigiana, pagarono per le
loro colpe. E men che meno i delatori, perché aprire un processo serio
al fenomeno della delazione di massa, sotto il profilo giudiziario come
anche sotto il profilo dell’analisi storica, comporterebbe
necessariamente la conseguenza di demolire il mito dell’innocenza
italiana, degli “italiani brava gente” che solo rari e timidi segnali
hanno finora contraddetto.
Una circolare del giugno 1946 emanata dal ministro degli Interni, il
socialista Giuseppe Romita, metteva una pietra sulla possibilità di
fare chiarezza sulle responsabilità italiane. L’Italia doveva essere
vittima innocente di un male venuto da altrove, e “le iniziative
italiane in materia di razza non solo non erano spontanee, ma cessarono
di avere un carattere puramente formale solo dal momento in cui
l’applicazione delle misure antisemite passò sotto il controllo degli
invasori tedeschi”.
Per questo le migliaia di delatori possono essere dimenticate, ma quei
due delatori ebrei no. E non stupisce come l’industria editoriale
coronata e benpensante, così restia a pubblicare saggi e ricerche
coraggiose sulle responsabilità italiane, le responsabilità del regime,
dello Stato e della popolazione, si dimostri invece ansiosa di mettere
in evidenza le vicende di quel paio di sventurati.
Sarà la ricerca del sensazionalismo, sarà la crisi che colpisce in
pieno anche i bilanci di editrici blasonate e cattoilluminate, sarà un
certo clima di riduzionismo, se non di negazionismo storico e la
tentazione di giocare con il fuoco di un umore nuovamente maldisposto
nei confronti della presenza di culture altre, di una diversità
autentica e ben radicata nelle vicende italiane. Per le migliaia di
delatori solo silenzio e omertà.
Eppure il caso di Celeste Di Porto, la giovane romana che favorì
l’arresto di altri ebrei e finì sotto processo nel 1947, ha meritato
invece cronache, saggi e anche romanzi. E la stessa sorte tocca oggi
anche al triestino Mauro Grini, che nel 1947 fu condannato in
contumacia per i suoi abominevoli misfatti alla pena capitale dalla
Corte d’assise di Milano. Di lui si occupa ora, con Via San Nicolò 30,
edito da Il Mulino, il giornalista Roberto Curci, che in un libro ben
congegnato e scritto ancora meglio, rievoca molti fantasmi ancora oggi
presenti nel groviglio di identità e di storia avviluppato attorno alla
città giuliana.
Fatti noti, abilmente e scrupolosamente ricostruiti e molto ben
raccontati con un lavoro perfettamente legittimo, che dovrebbe essere
letto e accolto favorevolmente. Pagine che fanno male soprattutto
perché mettono in evidenza quello che manca: la storia e i destini
delle migliaia di delatori italiani che mandarono a morte migliaia di
ebrei concittadini aspetta ancora di essere scritta. Le responsabilità
della struttura pubblica, le ambiguità di alcuni componenti della
stessa Resistenza e della classe politica del primo dopoguerra anche.
In un saggio illuminante, La delazione degli ebrei. Una memoria
silenziosa nell’Italia repubblicana 1944-1961, la ricercatrice italiana
Paola Bertilotti della Scuola normale superiore di Lione, racconta non
solo le venature antisemite disseminate dalla stampa cattolica che
seguì il processo Grini (il quotidiano democristiano “Il Popolo”
rievocava l’immagine dell’ebreo-giuda titolando il 4 marzo 1947 “La
Corte d’assise straordinaria s’è pronunciata: l’ebreo traditore è stato
condannato a essere fucilato nella schiena”, un linguaggio che allora
suscitò qualche perplessità, mentre nelle ammiccanti disinvolture della
stampa nazionale contemporanea passerebbe probabilmente del tutto
inosservato), ma anche dell’antisemitismo che ancora inquinava le
strutture pubbliche.
“Appare evidente – si legge nel saggio – che il processo di epurazione
contro i delatori non incitò la stampa italiana a un’analisi
approfondita delle responsabilità nazionali nella campagna antisemita.
Del resto, la pratica della denuncia degli ebrei all’Amministrazione
pubblica si perpetuò nell’Italia dell’immediato dopoguerra. A seguito
di un attentato perpetrato da agenti dell’Irgun il 31 ottobre del 1946
contro l’ambasciata britannica a Roma, la polizia italiana sottomise i
cittadini ebrei italiani e i rifugiati ebrei stranieri a una
intensificata sorveglianza. In questo contesto di tensione, la
Direzione generale della pubblica sicurezza poté intraprendere con il
massimo scrupolo, grazie a una delazione anonima, un’inchiesta mirata
ad accertare l’esistenza di pretesi progetti ebraici per la presa di
controllo dell’industria nazionale”.
A rievocare così scomode memorie, c’è da chiedersi quanto sarà lunga
ancora la strada per questa imprudente ricercatrice prima di trovare
collocazione in un ateneo nostrano o avere l’onore di entrare nel
catalogo di un editore benpensante. Negli ultimi anni, infatti, non
sono mancate le coraggiose ricerche degli storici italiani, come non
sono mancate le occasioni di rivedere profondamente le catastrofiche
conseguenze della scelta di collocare artificiosamente l’Italia dalla
parte delle vittime, anche al costo di negare le terribili
responsabilità del passato. A mancare sono state una politica della
Memoria, una volontà collettiva della società, dell’esecutivo,
dell’accademia, dell’intero sistema culturale e dell’editoria di
suscitare insieme quel salto di qualità collettivo che avrebbe
garantito una maturazione reale dell’opinione pubblica italiana e una
crescita effettiva della coscienza nazionale.
Se per scrivere la Storia, infatti, ci si accontenta di raccontare le
vicende di un singolo individuo e della sua famiglia, si può compiere
certo un’operazione apprezzabile e anche letterariamente interessante,
ma ben difficilmente si può surrogare la necessità di fornire, proprio
in questa stagione di negazionismo e di tante incertezze e soprattutto
ai giovani, un quadro generale dentro al quale anche le sventure dei
singoli e i loro comportamenti possono trovare una spiegazione.
E il contesto, quello dei tanti italiani dediti alla delazione, aspetta
intanto ancora di essere portato definitivamente alla luce.
È quindi necessario che di questo libro importante e avvincente, ma
anche, non certo per calcolo dell’autore, fuorviante per il vuoto
ancora non colmato da nessun editore illuminato, parlino soprattutto
gli storici, non i giornalisti. E per questo è importante che il mondo
ebraico italiano si tenga ben al riparo dalla tentazione dell’anatema
culturale. L’ebraismo italiano non ha niente da nascondere di fronte
alla ricerca storica seria e non avrebbe alcuna ragione di cedere a
tentazioni censorie che finirebbero per favorire solo chi vuole
puntellare una propria storia di comodo. Che si faccia piena luce sui
quei due sventurati delatori ebrei, a patto che si faccia un poco di
luce anche su tutte le altre migliaia di farabutti che non agirono
nemmeno sotto la minaccia della vita. E soprattutto che si faccia luce
anche sul contesto e sulle responsabilità del regime in quella che fu
l’Italia di allora.
Un discorso a parte dovrebbe essere poi dedicato alla straordinaria, a
tratti appassionante, abilità dell’autore di evocare tanti aspetti
paralleli del groviglio triestino. Trieste, infatti, non è soltanto una
bella città per i turisti di passaggio. Per chi la conosce e ci abita
resta soprattutto un luogo della mente, un crocevia della condizione
umana e della storia d’Europa.
La figura di Saba, rosa dalla nevrosi identitaria, è evocata ad arte in
tante sue contorte ambiguità quasi nell’opinabile speranza di
contaminarla con l’ombra agghiacciante dei suoi vicini. Le sue parole,
per quanto pesanti erano sfacciatamente esplicite: non dovrebbero
essere strumentalizzate per farne l’ennesimo stereotipo dell’ebreo
prigioniero dell’odio di sé. Per la stessa ragione è davvero indecente
volerne fare un pedofilo come è accaduto in una recente e puerile
titolazione dei giornali. Servirà forse a fare l’inventario delle sue
fragilità (ma chi ne è mai stato esente, a Trieste?), si suppone possa
essere utile a vendere copie (ma allora come mai di copie, fra libri e
giornali, a Trieste e in Italia se ne vendono sempre meno?). Ben
difficilmente tutto questo ci consentirà di comprendere meglio l’unica
cosa che davvero ci resta: la sua poesia.
Al numero 30 della via San Nicolò la sartoria della famiglia Grini
stava infatti proprio accanto alla libreria antiquaria dove Umberto
Saba compose la più alta poesia del Novecento. Al piano superiore
esercitava le funzioni rabbiniche quel tale che approdato a Roma e poi
tratto in salvo da amici della Resistenza durante la Shoah, decise al
termine del conflitto di abbandonare a se stessa la propria decimata
comunità e di abbracciare la fede cattolica. A quello superiore nacque
in tempi più felici il primo figlio di un James Joyce che dava lezioni
di inglese a Italo Svevo. Solo pochi passi più in là, sulla stessa via,
stava Rita Rosani, la maestra della scuola ebraica medaglia d’oro della
lotta di Liberazione.
Aveva solo 23 anni quando sparò l’ultimo colpo che restava in canna per
consegnarci il dovere di scrivere la storia di un’Italia migliore.
gv
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memoria – Via San Nicolò 30 L'enigma non si scioglie
La
storia narrata da Roberto Curci inizia con due suicidi, avvenuti a
poche settimane di distanza, nel 1922, di due giovani sorelle di una
famiglia di ebrei triestini, i Frankel. Delle due giovani perderemo
subito le tracce, ma non della loro famiglia, ché ritroveremo una terza
sorella tra i protagonisti di questa storia, né del proprietario della
libreria antiquaria in cui le due sorelle lavoravano, del resto un loro
cugino d’acquisto, Umberto Poli, più conosciuto come Umberto Saba. E la
casa triestina dove si trovava la libreria antiquaria di Saba, che era
poi la stessa dove c’era anche la sartoria della famiglia del
protagonista di questa storia, Mauro Grini, era in via San Nicolò al
numero civico 30. L’indirizzo che dà il nome al libro scritto da
Roberto Curci, giornalista e scrittore che ha frugato attentamente
negli archivi, per riportare alla luce una storia triste e sotto vari
aspetti ancora non chiarita, “Via San Nicolò 30. Traditori e traditi
nella Trieste nazista”.
La Trieste negli anni dell’occupazione nazista, una Trieste che non era
formalmente annessa al Reich ma era parte della Zona d’operazione del
Litorale Adriatico, è lo sfondo del libro. Il protagonista è un ebreo:
non una vittima, come molti altri personaggi del libro, finiti alla
Risiera di San Sabba e poi ad Auschwitz, ma un delatore, una spia che
lavorò a stretto contatto con i nazisti per denunciare gli ebrei che
tentavano di sfuggire all’arresto, che ne fece prendere varie
centinaia, e che scomparve negli ultimi giorni della guerra, forse
assassinato dagli stessi nazisti, forse in fuga sotto altro nome e
scampato alla condanna che lo attendeva. Chi è Mauro Grini e che cosa
c’è all’origine della sua attività di spia? Curci non riesce ad
individuare nessuna motivazione in grado di spiegarla, a parte la pura
e semplice avidità di denaro, dal momento che riceveva 7000 lire per
ogni ebreo denunciato. Anche le versioni sul momento in cui Grini
cominciò a collaborare con i nazisti sono divergenti. Secondo alcune
versioni, la sua collaborazione iniziò nell’aprile o maggio del 1944,
dopo l’arresto, e rappresentò una sorta di scambio per garantire la
vita dei suoi famigliari. Ma ci sono testimonianze di una sua attività
già nei mesi precedenti, subito dopo l’occupazione.
All’epoca, Mauro Grini ha 34 anni, un passato scapestrato, una famiglia
con cui è in rapporti tesi, un fratello, Carlo, che nel dopoguerra dirà
di essere stato arrestato grazie a lui. Mauro viene arrestato nella
primavera del 1944 ed è detenuto alla Risiera di San Sabba con il resto
della sua famiglia, ma sia lui che i suoi si trovano in una posizione
privilegiata: nessuno di loro è destinato alla deportazione e suo padre
gestisce nel campo un laboratorio di sartoria. Mauro, da parte sua,
entra ed esce liberamente dalla Risiera e insieme alla moglie Maria
Collini si accompagna ai nazisti nella caccia agli ebrei. Secondo una
scheda diffusa prima della Liberazione dal Comitato di Liberazione
Nazionale dell’Alta Italia, Grini avrebbe fatto arrestare trecento
ebrei a Trieste, cento circa a Venezia, e nel marzo 1945 continuava
alacremente la sua attività a Milano. Al suo attivo, in particolare la
deportazione degli ebrei ricoverati in case di cura, ospedali,
manicomi, case di riposo. Tra questi, i 22 ricoverati alla casa di
riposo di Venezia, fra di loro il rabbino Ottolenghi cieco e sordo.
Grini si muove, oltre che a Trieste, nel Veneto e in Lombardia e alla
fine del 1944 lo troviamo perfino a Firenze. Nei suoi giri per
individuare gli ebrei si accompagna ad un ufficiale nazista di alto
grado, Franz Stangl. Stangl che operò anche in Germania nell’operazione
T4, fu comandante dei campi di sterminio di Sobibor e Treblinka, e poi
passò a Trieste alla Risiera di San Sabba. Nel dopoguerra, Stangl
riuscì a fuggire subito prima di essere processato e si rifugiò in
Brasile. Vi visse libero per oltre quindici anni, poi nel 1967 le
ricerche del centro Wiesenthal portarono al suo riconoscimento. Fu
estradato in Germania e condannato all’ergastolo per l’assassinio di
900˙000 esseri umani. Morì d’infarto nel 1971, il giorno dopo aver
terminato di rilasciare a Gitta Sereny una lunga intervista destinata a
confluire nel suo libro intitolato “In quelle tenebre”.
Anna Foa, storica
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memoria – Via San Nicolò 30
Le responsabilità italiane
«Odio,
amore, sangue – nella vita e nella poesia – si mescolano più che non si
creda. Specialmente in epoche, come la nostra, turbate», scriveva
Umberto Saba in una delle sue lapidarie Scorciatoie (1946), a proposito
della delatrice ebrea romana Celeste Di Porto. Così il poeta coglieva
dolorosamente il drammatico intreccio di vita e di morte che aveva
attraversato la penisola italiana, segnata nei due anni e mezzo
precedenti dalla guerra civile e dalla Shoah. E così ne rievocava le
pagine forse più tragiche e oscure: quelle della delazione all’interno
della stessa comunità ebraica, esperienza che la stessa Trieste di
Saba, ma anche Venezia, Milano, Firenze avevano tristemente conosciuto
per l’azione diabolica di Mauro Grini.
La figura di Grini, ebreo triestino che denunciò centinaia di
correligionari durante la Shoah, tristemente scolpita nella memoria di
molte comunità ebraiche italiane, è ora al centro di una minuziosa e
impietosa ricostruzione da parte di Roberto Curci, già giornalista del
Piccolo di Trieste (Via San Nicolò 30. Traditori e traditi nella
Trieste nazista, Il Mulino). Affollano le pagine del libro una manciata
di collaborazionisti triestini a rappresentare una tipologia ben più
numerosa di quanto non si creda, e alcune decine di vittime ebree per
lo più denunciate da Grini, le cui vicissitudini sono rievocate per
frammenti. Alcuni tedeschi, alcuni collaborazionisti e le poche vittime
superstiti si sarebbero date indirettamente convegno negli anni
Settanta al processo sulla Risiera di San Sabba, il campo di
concentramento e sterminio: processo che solo in parte contribuì a
gettare luce sui crimini nazisti a Trieste e aprì appena qualche
spiraglio sul tema della collaborazione italiana alla Shoah.
Hannah Arendt nella Banalità del male (1963) e Primo Levi nei Sommersi
e salvati (1986) hanno affrontato in modo diverso, ma ugualmente acuto
e dolente, il tema della collaborazione nell’universo moralmente
sconvolto dello sterminio, indagando quella che Levi chiamò la «zona
grigia», in cui vittime e carnefici si incontrano, le prime giungendo a
condividere parte delle responsabilità dei secondi. Casi difficili da
giudicare – e persino da rievocare – nell’inferno della caccia
all’uomo, della deportazione e dei lager, che gli storici hanno
tuttavia iniziato non solo a ricostruire ma anche ad interpretare.
Innanzitutto il desiderio di aver salva la vita, poi l’illusione del
guadagno, ma anche la vendetta, lo spirito di rivalsa, l’antica
inimicizia, fecero da innesco e poi da motore di abominevoli
comportamenti, che portarono alla denuncia di conoscenti, vicini di
casa, soci d’affari, amici, talora familiari e parenti.
Il racconto di Roberto Curci, costruito come un’indagine investigativa
che procede per indizi, ma riesce anche a ricomporre frammenti di
storia spesso sconosciuti, è reso tragico non solo dal destino di morte
della maggior parte dei suoi protagonisti, ma anche dall’unità di luogo
e di azione: oltre alla Risiera, l’indirizzo triestino che dà il titolo
al volume, a cui si trovano la sartoria della famiglia Grini,
l’abitazione di varie altre famiglie ebree e la libreria di Saba, che
la ricerca rivela imparentato con il delatore. Così come è
particolarmente concentrata l’unità di tempo del racconto: venti
febbrili mesi, di occupazione, guerra civile, deportazioni. Perciò la
storia vissuta e narrata corrisponde, grazie a questa unità e
condensazione, ai canoni classici della tragedia. Ma al di là degli
aspetti formali ed estetici del racconto, indubbiamente incalzante,
seppure sempre moralistico e mai empatico – ma per comprendere
storicamente l’orrore non è sufficiente la condanna e la presa di
distanza: occorrerebbe anche l’empatia e al limite l’identificazione,
per quanto ardua – sono certamente gli aspetti e interrogativi storici
ed etici che la narrazione tocca e suscita in modo talora lancinante.
Simon Levis Sullam, storico
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pordenonelegge al via Attualità, dai migranti alla scuola
Sarà
Daniel Pennac ad inaugurare questo pomeriggio la sedicesima edizione di
Pordenonelegge, con la presentazione del libro intervista che
ripercorre la sua carriera di scrittore, ma già da questa mattina
dialoghi, lezioni magistrali, interviste, reading, spettacoli e
percorsi espositivi animano la città. "Sarà un’edizione con focus
privilegiato sull’attualità – ha spiegato il direttore artistico, Gian
Mario Villalta insieme ai curatori Alberto Garlini e Valentina Gasparet
- Sarà a Pordenone la filosofa ungherese Agnes Heller, in queste ore
osservatrice speciale, da Budapest, del dramma dei migranti. Avremo
anche lo scrittore ucraino Andrej Kurkov, l’inviato Federico Rampini e
il filosofo Edgar Morin, che dialogherà sul 'Pericolo delle idee'”.
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qui torino
Gli ebrei e l'Italia moderna
I
diversi flussi migratori che portarono gli ebrei in Italia, la loro
condizione una volta sbarcati nella Penisola, la costruzione dei ghetti
e le complesse relazioni tra realtà ebraica e mondo esterno. Sono
alcuni dei punti al centro dell’analisi del libro di Marina Caffiero,
docente di Storia Moderna alla Sapienza, “Storie degli ebrei
nell’Italia moderna. Dal Rinascimento alla Restaurazione” (ed.
Carrocci, 2014), presentato al Museo Diffuso di Torino. All’incontro,
moderato da Guido Vaglio, direttore del Museo Diffuso hanno preso
parte, tra gli altri, Gianmaria Ajani, Rettore dell’Università degli
Studi di Torino, Giovanni Filoramo, docente di Storia del Cristianesimo
dell’Università di Torino e Claudio Vercelli, storico e ricercatore
presso l’Istituto Salvemini (nell’immagine i relatori).
Alice Fubini
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rosh hashanah 5776 - qui torino
Un anno di vigore
In
questo secolo nel mondo ebraico è alquanto comodo fare degli auguri.
Infatti le lettere che in ebraico indicano questo secolo (tav-shin)
sono anche le iniziali dell’espressione teèh shenat (sia un anno…). Noi
dobbiamo riempire le altre due lettere come meglio riusciamo. Le altre
due lettere sono la ‘ain e la vav, che sono le iniziali di ‘oz we-hadar
(vigore e bellezza). Troviamo questa espressione nell’Eshet chayl,
nell’ultimo capitolo dei Proverbi, riferiti alla donna di valore. Il
versetto dice “è adorna di vigore e bellezza, e sorride all’ultimo
giorno”. La tradizione ha riferito questa espressione all’anima umana.
Gli tzadiqim, attraverso i propri raggiungimenti, sono soddisfatti
della loro vita, e proprio per questo subito prima di lasciare questo
mondo, quando sono al massimo dello splendore, benedicono i loro figli.
Mi auguro che possiamo passare con vigore e bellezza, sia
individualmente che collettivamente, questo 5776, sorridendo al suo
ultimo giorno, e soprattutto che possiamo essere soddisfatti di quello
che facciamo. Che tutti i buoni propositi che abbiamo espresso in
queste feste possano realizzarsi e che noi e tutto Israele possiamo
avere salute, pace, tranquillità e benessere. Shanà Tovà!
Ariel Di Porto, rabbino capo di Torino
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rosh hashanah 5776 - qui venezia Un anno per l'integrazione
Chiudiamo
un anno che ancora una volta si è caratterizzato per l’acuirsi di
alcuni elementi di incertezza negli equilibri internazionali che,
particolarmente come ebrei, ci fanno guardare non senza preoccupazione
al futuro. Eppure anche in questo contesto abbiamo ragioni di fiducia.
Di fronte all’esodo storico che vede centinaia di migliaia di persone
giungere in una Europa che ha difficoltà a confrontarsi con questa
nuova realtà di migrazione, gli ebrei, come minoranza integrata
all’esito di un percorso non facile e caratterizzato da tragici
momenti, sono portatori di una tradizione capace di mediazione
culturale e quindi, in questo momento, più che mai moderna.
Nell’anno che si apre ricorrerà il Cinquecentenario della costituzione
del Ghetto di Venezia, ricorrenza triste da segnare, ma anche punto di
partenza di una lunga storia che ha visto gli ebrei veneziani,
nonostante ogni ostacolo, costruire con fiducia e tenacia un futuro
che ha coniugato l’integrazione con il mantenimento della propria
identità culturale.
Paolo Gnignati, presidente Comunità ebraica di Venezia
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Ticketless
- Pietra di Bismantova |
Come
s’è fatto con il Giorno della Memoria così anche la Giornata della
Cultura Ebraica richiederebbe un primo bilancio. Uno dei limiti che mi
sembrano più evidenti è la sua forma esclusivamente urbana. Resta fuori
il paesaggio, che nelle regioni del nord è stato fondamentale. In una
delle prossime Giornate bisognerebbe organizzare gite fuori porta a
Ferrara e Mantova, nelle anse del Po descritte da tanti autori ebrei.
Un luogo della memoria ebraica è poi la Pietra di Bismantova,
nell’Appennino reggino, dove i nostri padri dicevano che sarebbe andata
a posarsi la prossima Arca di Noè.
Alberto Cavaglion
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Periscopio
- I marxisti oggi |
Anch’io,
come tanti ragazzi, molti anni fa, per un periodo breve ma intenso, ho
subito il fascino di Marx e del marxismo. Anche a me, come a tanti miei
coetanei, l’immagine barbuta e severa del filosofo di Treviri ha dato
l’idea che qualcuno, diciotto secoli dopo Gesù, fosse tornato sulla
terra per ricordare a tutti che bisogna lottare contro le ingiustizie;
che è possibile cambiare la storia; che le giovani generazioni devono
rompere gli schemi ereditati dai vecchi; che i privilegi dei ricchi
sono spesso frutto di prepotenze e ruberie; che, come avrebbe detto
poi, in una famosa canzone, Giorgio Gaber, “nessuno ha il diritto di
essere felice da solo”; che la violenza può a volte essere giustificata
o necessaria per dare la libertà agli oppressi e agli sfruttati; che la
religione tende a coprire molte ipocrisie, se non è addirittura da
considerare “l’oppio dei popoli” ecc. ecc.
Francesco Lucrezi, storico
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