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16 settembre 2015 - 3 Tishri  5776
PAGINE EBRAICHE 24

ALEF / TAV DAVAR PILPUL

alef/tav
David
Sciunnach,
rabbino
“Moshè andò e disse queste parole a tutto Israele …” (Devarìm 31, 1). Ha detto il commento Noàm Meghadìm: Anche dopo che Moshè Rabbenù è “andato” via da questo mondo “disse queste parole a tutto Israele”. Moshè parla costantemente al popolo d’Israele, ogni volta che un ebreo studia la Torah è come se la ricevesse da Moshè stesso.  
 
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David
Assael,
ricercatore
Il grande piano tedesco di accoglienza sembra già essere tramontato e l’Europa è ripiombata in un attimo nelle sue divisioni e contraddizioni.
 
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In Israele ancora tensione
Sono continuati anche durante il secondo giorno della festività ebraica di Rosh Hashanah gli scontri tra militari israeliani e dimostranti palestinesi, con lanci di mattoni e sassi da parte di questi ultimi, presso il luogo sacro che corrisponde alla Spianata delle Moschee per i musulmani e al Monte del Tempio per gli ebrei. Le versioni, riporta la Stampa, sono diverse: secondo fonti palestinesi i militari sarebbero entrati nella moschea per fermare i palestinesi barricati, calpestando i tappeti e arrivando al pulpito dei sermoni, mentre la polizia israeliana assicura che non vi è stata violazione del luogo sacro. Il gruppo terroristico di Hamas cerca intanto di gettare benzina sul fuoco e, nel corso della terza giornata di scontri, ha parlato di “dichiarazione di guerra da parte di Israele alla quale gli arabi devono rispondere”.
 
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  davar
israele
Gerusalemme, equilibrio difficile
Contromisure per combattere la nuova spirale di violenza. È quanto ha garantito il Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu nel corso di una riunione del gabinetto di sicurezza, tenutasi per affrontare la questione delle tensioni e scontri di questi giorni a Gerusalemme, nel luogo sacro per ebrei e musulmani noto come Monte del Tempio o Spianata delle Moschee.

Nell'area, soldati israeliani si sono dovuti confrontare, nel corso delle celebrazioni della festa ebraica di Rosh Hashannah, con alcuni dimostranti palestinesi e con il lancio da parte di questi ultimi di sassi e molotov. “Daremo alle autorità gli strumenti per agire in modo fermo contro chi compie queste azioni”, ha dichiarato Netanyahu. Proprio il lancio di pietre ha causato domenica, a Gerusalemme, una vittima: mentre si stava dirigendo verso casa, alla vigilia di Rosh Hashanah, l'auto del sessantaquattrenne Alexander Levlovitz è stato colpita da alcuni massi. Il veicolo è andato fuori strada, causando la morte del conducente.
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 Memoria - Via San Nicolò 30
Traditori cercansi, meglio ebrei
Se una storia non fa la Storia

Via San Nicolò 30 – Traditori e traditi nella Trieste nazista è il titolo del libro che le edizioni Il Mulino mandano in libreria domani, giovedì 17 settembre. Nel testo il giornalista Roberto Curci evoca fra l’altro le vicende del delatore ebreo triestino Mauro Grini che favorì l’arresto e la deportazione di molti altri ebrei italiani. Il giornale dell’ebraismo italiano Pagine Ebraiche tratterà l’argomento con molti servizi nel suo numero di ottobre, in distribuzione nelle prossime settimane. Anticipiamo in questo notiziario quotidiano una nota del direttore della redazione e l’analisi di due storici italiani, Anna Foa e Simon Levis Sullam, che hanno dedicato molti studi agli anni delle persecuzioni e delle deportazioni.

Nell’autunno del 1943, quando la politica dell’odio antiebraico fortemente voluta dal regime fascista aveva ormai raggiunto le sue inevitabili, estreme conseguenze, ognuno dei 39 mila ebrei italiani era nell’immediato pericolo di vita.
Almeno 7291 di loro trovarono la morte nei mesi seguenti. Molti, molti altri avrebbero subito la stessa sorte se non fossero stati tratti in salvo dal coraggio di alcuni cittadini, di alcune istituzioni religiose cattoliche e soprattutto del governo della Confederazione elvetica, unica istituzione democratica superstite in un’Europa continentale ormai in fiamme, che aprì le frontiere per dare riparo ad almeno seimila ebrei italiani.
Le forze occupanti tedesche procedettero alle prime retate fra il settembre e il novembre del 1943, sulle base delle informazioni ottenute dalle autorità italiane, che dal 1938 si erano dedicate a schedare i cittadini ebrei presenti in Italia. In quelle settimane oltre 2500 persone furono deportate.
Da allora in poi la quasi totalità degli ebrei superstiti fu costretta a entrare in clandestinità e gli arresti che seguirono, la deportazione di altri 5000 esseri umani, fu operata grazie alla consolidata pratica della delazione che il regime fascista aveva inoculato da anni nella popolazione.
Furono migliaia i delatori che per odio o per interesse favorirono la cattura di ebrei alla ricerca di un riparo. Furono migliaia, e appartenenti a ogni strato sociale, a ogni ambiente culturale e ben rappresentativi di come era stata degradata la società italiana dalla dittatura fascista.
Fra migliaia e migliaia, due di essi, una donna a Roma e un uomo a Trieste, erano ebrei. Due su 39 mila, forse ancora qualcuno, anche se altri nomi evocati a Roma non portarono effettivamente ad alcun esito nelle indagini, collaborarono attivamente per favorire l’arresto dei loro fratelli, li tradirono e li mandarono a morte. Probabilmente agirono come gli altri delatori, perché anche gli ebrei italiani sono italiani come gli altri, con le loro debolezze, le loro contraddizioni e le loro vigliaccherie, per avidità e per odio. E nel loro caso si può forse ritenere che agirono anche nella speranza di avere salva la vita.
Perché stupirsene? Due fra 39 mila ebrei, due su migliaia di delatori cattolici, non sono un gran numero. E se fossero stati sei non cambierebbe gran cosa. Non dimostrano proprio nulla, se non il male devastante che il fascismo portò all’Italia, il tradimento delle istituzioni nei confronti dei propri cittadini ebrei, la vigliaccheria della maggioranza.
E intanto tutto il mondo è andato avanti. L’Europa civile, a cominciare dalla Germania, ha imparato a fare seriamente i conti con il proprio passato, a chiamare le cose con il proprio nome.
Non proprio tutto il mondo. Ci sono anche le eccezioni, e fra le eccezioni ci siamo noi. Se altrove il processo di maturazione e di pulizia ha fatto molta strada, a casa nostra, con i negazionisti alle porte, siamo appena ai primi timidi tentativi. Una politica perseguita coerentemente da ogni governo già dal 1944, poi dalla frettolosa amnistia Togliatti del governo De Gasperi nel 1946, il primo provvedimento di questa natura ad essere adottato nell’Europa liberata, quando i criminali che avevano operato nelle strutture del fascismo e collaborato con l’occupante tedesco furono lasciati liberi. Ben pochi, dopo i primi atti di sommaria giustizia partigiana, pagarono per le loro colpe. E men che meno i delatori, perché aprire un processo serio al fenomeno della delazione di massa, sotto il profilo giudiziario come anche sotto il profilo dell’analisi storica, comporterebbe necessariamente la conseguenza di demolire il mito dell’innocenza italiana, degli “italiani brava gente” che solo rari e timidi segnali hanno finora contraddetto.
Una circolare del giugno 1946 emanata dal ministro degli Interni, il socialista Giuseppe Romita, metteva una pietra sulla possibilità di fare chiarezza sulle responsabilità italiane. L’Italia doveva essere vittima innocente di un male venuto da altrove, e “le iniziative italiane in materia di razza non solo non erano spontanee, ma cessarono di avere un carattere puramente formale solo dal momento in cui l’applicazione delle misure antisemite passò sotto il controllo degli invasori tedeschi”.
Per questo le migliaia di delatori possono essere dimenticate, ma quei due delatori ebrei no. E non stupisce come l’industria editoriale coronata e benpensante, così restia a pubblicare saggi e ricerche coraggiose sulle responsabilità italiane, le responsabilità del regime, dello Stato e della popolazione, si dimostri invece ansiosa di mettere in evidenza le vicende di quel paio di sventurati.
Sarà la ricerca del sensazionalismo, sarà la crisi che colpisce in pieno anche i bilanci di editrici blasonate e cattoilluminate, sarà un certo clima di riduzionismo, se non di negazionismo storico e la tentazione di giocare con il fuoco di un umore nuovamente maldisposto nei confronti della presenza di culture altre, di una diversità autentica e ben radicata nelle vicende italiane. Per le migliaia di delatori solo silenzio e omertà.
Eppure il caso di Celeste Di Porto, la giovane romana che favorì l’arresto di altri ebrei e finì sotto processo nel 1947, ha meritato invece cronache, saggi e anche romanzi. E la stessa sorte tocca oggi anche al triestino Mauro Grini, che nel 1947 fu condannato in contumacia per i suoi abominevoli misfatti alla pena capitale dalla Corte d’assise di Milano. Di lui si occupa ora, con Via San Nicolò 30, edito da Il Mulino, il giornalista Roberto Curci, che in un libro ben congegnato e scritto ancora meglio, rievoca molti fantasmi ancora oggi presenti nel groviglio di identità e di storia avviluppato attorno alla città giuliana.
Fatti noti, abilmente e scrupolosamente ricostruiti e molto ben raccontati con un lavoro perfettamente legittimo, che dovrebbe essere letto e accolto favorevolmente. Pagine che fanno male soprattutto perché mettono in evidenza quello che manca: la storia e i destini delle migliaia di delatori italiani che mandarono a morte migliaia di ebrei concittadini aspetta ancora di essere scritta. Le responsabilità della struttura pubblica, le ambiguità di alcuni componenti della stessa Resistenza e della classe politica del primo dopoguerra anche.
In un saggio illuminante, La delazione degli ebrei. Una memoria silenziosa nell’Italia repubblicana 1944-1961, la ricercatrice italiana Paola Bertilotti della Scuola normale superiore di Lione, racconta non solo le venature antisemite disseminate dalla stampa cattolica che seguì il processo Grini (il quotidiano democristiano “Il Popolo” rievocava l’immagine dell’ebreo-giuda titolando il 4 marzo 1947 “La Corte d’assise straordinaria s’è pronunciata: l’ebreo traditore è stato condannato a essere fucilato nella schiena”, un linguaggio che allora suscitò qualche perplessità, mentre nelle ammiccanti disinvolture della stampa nazionale contemporanea passerebbe probabilmente del tutto inosservato), ma anche dell’antisemitismo che ancora inquinava le strutture pubbliche.
“Appare evidente – si legge nel saggio – che il processo di epurazione contro i delatori non incitò la stampa italiana a un’analisi approfondita delle responsabilità nazionali nella campagna antisemita. Del resto, la pratica della denuncia degli ebrei all’Amministrazione pubblica si perpetuò nell’Italia dell’immediato dopoguerra. A seguito di un attentato perpetrato da agenti dell’Irgun il 31 ottobre del 1946 contro l’ambasciata britannica a Roma, la polizia italiana sottomise i cittadini ebrei italiani e i rifugiati ebrei stranieri a una intensificata sorveglianza. In questo contesto di tensione, la Direzione generale della pubblica sicurezza poté intraprendere con il massimo scrupolo, grazie a una delazione anonima, un’inchiesta mirata ad accertare l’esistenza di pretesi progetti ebraici per la presa di controllo dell’industria nazionale”.
A rievocare così scomode memorie, c’è da chiedersi quanto sarà lunga ancora la strada per questa imprudente ricercatrice prima di trovare collocazione in un ateneo nostrano o avere l’onore di entrare nel catalogo di un editore benpensante. Negli ultimi anni, infatti, non sono mancate le coraggiose ricerche degli storici italiani, come non sono mancate le occasioni di rivedere profondamente le catastrofiche conseguenze della scelta di collocare artificiosamente l’Italia dalla parte delle vittime, anche al costo di negare le terribili responsabilità del passato. A mancare sono state una politica della Memoria, una volontà collettiva della società, dell’esecutivo, dell’accademia, dell’intero sistema culturale e dell’editoria di suscitare insieme quel salto di qualità collettivo che avrebbe garantito una maturazione reale dell’opinione pubblica italiana e una crescita effettiva della coscienza nazionale.
Se per scrivere la Storia, infatti, ci si accontenta di raccontare le vicende di un singolo individuo e della sua famiglia, si può compiere certo un’operazione apprezzabile e anche letterariamente interessante, ma ben difficilmente si può surrogare la necessità di fornire, proprio in questa stagione di negazionismo e di tante incertezze e soprattutto ai giovani, un quadro generale dentro al quale anche le sventure dei singoli e i loro comportamenti possono trovare una spiegazione.
E il contesto, quello dei tanti italiani dediti alla delazione, aspetta intanto ancora di essere portato definitivamente alla luce.
È quindi necessario che di questo libro importante e avvincente, ma anche, non certo per calcolo dell’autore, fuorviante per il vuoto ancora non colmato da nessun editore illuminato, parlino soprattutto gli storici, non i giornalisti. E per questo è importante che il mondo ebraico italiano si tenga ben al riparo dalla tentazione dell’anatema culturale. L’ebraismo italiano non ha niente da nascondere di fronte alla ricerca storica seria e non avrebbe alcuna ragione di cedere a tentazioni censorie che finirebbero per favorire solo chi vuole puntellare una propria storia di comodo. Che si faccia piena luce sui quei due sventurati delatori ebrei, a patto che si faccia un poco di luce anche su tutte le altre migliaia di farabutti che non agirono nemmeno sotto la minaccia della vita. E soprattutto che si faccia luce anche sul contesto e sulle responsabilità del regime in quella che fu l’Italia di allora.
Un discorso a parte dovrebbe essere poi dedicato alla straordinaria, a tratti appassionante, abilità dell’autore di evocare tanti aspetti paralleli del groviglio triestino. Trieste, infatti, non è soltanto una bella città per i turisti di passaggio. Per chi la conosce e ci abita resta soprattutto un luogo della mente, un crocevia della condizione umana e della storia d’Europa.
La figura di Saba, rosa dalla nevrosi identitaria, è evocata ad arte in tante sue contorte ambiguità quasi nell’opinabile speranza di contaminarla con l’ombra agghiacciante dei suoi vicini. Le sue parole, per quanto pesanti erano sfacciatamente esplicite: non dovrebbero essere strumentalizzate per farne l’ennesimo stereotipo dell’ebreo prigioniero dell’odio di sé. Per la stessa ragione è davvero indecente volerne fare un pedofilo come è accaduto in una recente e puerile titolazione dei giornali. Servirà forse a fare l’inventario delle sue fragilità (ma chi ne è mai stato esente, a Trieste?), si suppone possa essere utile a vendere copie (ma allora come mai di copie, fra libri e giornali, a Trieste e in Italia se ne vendono sempre meno?). Ben difficilmente tutto questo ci consentirà di comprendere meglio l’unica cosa che davvero ci resta: la sua poesia.
Al numero 30 della via San Nicolò la sartoria della famiglia Grini stava infatti proprio accanto alla libreria antiquaria dove Umberto Saba compose la più alta poesia del Novecento. Al piano superiore esercitava le funzioni rabbiniche quel tale che approdato a Roma e poi tratto in salvo da amici della Resistenza durante la Shoah, decise al termine del conflitto di abbandonare a se stessa la propria decimata comunità e di abbracciare la fede cattolica. A quello superiore nacque in tempi più felici il primo figlio di un James Joyce che dava lezioni di inglese a Italo Svevo. Solo pochi passi più in là, sulla stessa via, stava Rita Rosani, la maestra della scuola ebraica medaglia d’oro della lotta di Liberazione.
Aveva solo 23 anni quando sparò l’ultimo colpo che restava in canna per consegnarci il dovere di scrivere la storia di un’Italia migliore.

gv

memoria – Via San Nicolò 30
L'enigma non si scioglie
La storia narrata da Roberto Curci inizia con due suicidi, avvenuti a poche settimane di distanza, nel 1922, di due giovani sorelle di una famiglia di ebrei triestini, i Frankel. Delle due giovani perderemo subito le tracce, ma non della loro famiglia, ché ritroveremo una terza sorella tra i protagonisti di questa storia, né del proprietario della libreria antiquaria in cui le due sorelle lavoravano, del resto un loro cugino d’acquisto, Umberto Poli, più conosciuto come Umberto Saba. E la casa triestina dove si trovava la libreria antiquaria di Saba, che era poi la stessa dove c’era anche la sartoria della famiglia del protagonista di questa storia, Mauro Grini, era in via San Nicolò al numero civico 30. L’indirizzo che dà il nome al libro scritto da Roberto Curci, giornalista e scrittore che ha frugato attentamente negli archivi, per riportare alla luce una storia triste e sotto vari aspetti ancora non chiarita, “Via San Nicolò 30. Traditori e traditi nella Trieste nazista”.
La Trieste negli anni dell’occupazione nazista, una Trieste che non era formalmente annessa al Reich ma era parte della Zona d’operazione del Litorale Adriatico, è lo sfondo del libro. Il protagonista è un ebreo: non una vittima, come molti altri personaggi del libro, finiti alla Risiera di San Sabba e poi ad Auschwitz, ma un delatore, una spia che lavorò a stretto contatto con i nazisti per denunciare gli ebrei che tentavano di sfuggire all’arresto, che ne fece prendere varie centinaia, e che scomparve negli ultimi giorni della guerra, forse assassinato dagli stessi nazisti, forse in fuga sotto altro nome e scampato alla condanna che lo attendeva. Chi è Mauro Grini e che cosa c’è all’origine della sua attività di spia? Curci non riesce ad individuare nessuna motivazione in grado di spiegarla, a parte la pura e semplice avidità di denaro, dal momento che riceveva 7000 lire per ogni ebreo denunciato. Anche le versioni sul momento in cui Grini cominciò a collaborare con i nazisti sono divergenti. Secondo alcune versioni, la sua collaborazione iniziò nell’aprile o maggio del 1944, dopo l’arresto, e rappresentò una sorta di scambio per garantire la vita dei suoi famigliari. Ma ci sono testimonianze di una sua attività già nei mesi precedenti, subito dopo l’occupazione.
All’epoca, Mauro Grini ha 34 anni, un passato scapestrato, una famiglia con cui è in rapporti tesi, un fratello, Carlo, che nel dopoguerra dirà di essere stato arrestato grazie a lui. Mauro viene arrestato nella primavera del 1944 ed è detenuto alla Risiera di San Sabba con il resto della sua famiglia, ma sia lui che i suoi si trovano in una posizione privilegiata: nessuno di loro è destinato alla deportazione e suo padre gestisce nel campo un laboratorio di sartoria. Mauro, da parte sua, entra ed esce liberamente dalla Risiera e insieme alla moglie Maria Collini si accompagna ai nazisti nella caccia agli ebrei. Secondo una scheda diffusa prima della Liberazione dal Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia, Grini avrebbe fatto arrestare trecento ebrei a Trieste, cento circa a Venezia, e nel marzo 1945 continuava alacremente la sua attività a Milano. Al suo attivo, in particolare la deportazione degli ebrei ricoverati in case di cura, ospedali, manicomi, case di riposo. Tra questi, i 22 ricoverati alla casa di riposo di Venezia, fra di loro il rabbino Ottolenghi cieco e sordo. Grini si muove, oltre che a Trieste, nel Veneto e in Lombardia e alla fine del 1944 lo troviamo perfino a Firenze. Nei suoi giri per individuare gli ebrei si accompagna ad un ufficiale nazista di alto grado, Franz Stangl. Stangl che operò anche in Germania nell’operazione T4, fu comandante dei campi di sterminio di Sobibor e Treblinka, e poi passò a Trieste alla Risiera di San Sabba. Nel dopoguerra, Stangl riuscì a fuggire subito prima di essere processato e si rifugiò in Brasile. Vi visse libero per oltre quindici anni, poi nel 1967 le ricerche del centro Wiesenthal portarono al suo riconoscimento. Fu estradato in Germania e condannato all’ergastolo per l’assassinio di 900˙000 esseri umani. Morì d’infarto nel 1971, il giorno dopo aver terminato di rilasciare a Gitta Sereny una lunga intervista destinata a confluire nel suo libro intitolato “In quelle tenebre”.


Anna Foa, storica
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memoria – Via San Nicolò 30
Le responsabilità italiane
«Odio, amore, sangue – nella vita e nella poesia – si mescolano più che non si creda. Specialmente in epoche, come la nostra, turbate», scriveva Umberto Saba in una delle sue lapidarie Scorciatoie (1946), a proposito della delatrice ebrea romana Celeste Di Porto. Così il poeta coglieva dolorosamente il drammatico intreccio di vita e di morte che aveva attraversato la penisola italiana, segnata nei due anni e mezzo precedenti dalla guerra civile e dalla Shoah. E così ne rievocava le pagine forse più tragiche e oscure: quelle della delazione all’interno della stessa comunità ebraica, esperienza che la stessa Trieste di Saba, ma anche Venezia, Milano, Firenze avevano tristemente conosciuto per l’azione diabolica di Mauro Grini.
La figura di Grini, ebreo triestino che denunciò centinaia di correligionari durante la Shoah, tristemente scolpita nella memoria di molte comunità ebraiche italiane, è ora al centro di una minuziosa e impietosa ricostruzione da parte di Roberto Curci, già giornalista del Piccolo di Trieste (Via San Nicolò 30. Traditori e traditi nella Trieste nazista, Il Mulino). Affollano le pagine del libro una manciata di collaborazionisti triestini a rappresentare una tipologia ben più numerosa di quanto non si creda, e alcune decine di vittime ebree per lo più denunciate da Grini, le cui vicissitudini sono rievocate per frammenti. Alcuni tedeschi, alcuni collaborazionisti e le poche vittime superstiti si sarebbero date indirettamente convegno negli anni Settanta al processo sulla Risiera di San Sabba, il campo di concentramento e sterminio: processo che solo in parte contribuì a gettare luce sui crimini nazisti a Trieste e aprì appena qualche spiraglio sul tema della collaborazione italiana alla Shoah.
Hannah Arendt nella Banalità del male (1963) e Primo Levi nei Sommersi e salvati (1986) hanno affrontato in modo diverso, ma ugualmente acuto e dolente, il tema della collaborazione nell’universo moralmente sconvolto dello sterminio, indagando quella che Levi chiamò la «zona grigia», in cui vittime e carnefici si incontrano, le prime giungendo a condividere parte delle responsabilità dei secondi. Casi difficili da giudicare – e persino da rievocare – nell’inferno della caccia all’uomo, della deportazione e dei lager, che gli storici hanno tuttavia iniziato non solo a ricostruire ma anche ad interpretare. Innanzitutto il desiderio di aver salva la vita, poi l’illusione del guadagno, ma anche la vendetta, lo spirito di rivalsa, l’antica inimicizia, fecero da innesco e poi da motore di abominevoli comportamenti, che portarono alla denuncia di conoscenti, vicini di casa, soci d’affari, amici, talora familiari e parenti.
Il racconto di Roberto Curci, costruito come un’indagine investigativa che procede per indizi, ma riesce anche a ricomporre frammenti di storia spesso sconosciuti, è reso tragico non solo dal destino di morte della maggior parte dei suoi protagonisti, ma anche dall’unità di luogo e di azione: oltre alla Risiera, l’indirizzo triestino che dà il titolo al volume, a cui si trovano la sartoria della famiglia Grini, l’abitazione di varie altre famiglie ebree e la libreria di Saba, che la ricerca rivela imparentato con il delatore. Così come è particolarmente concentrata l’unità di tempo del racconto: venti febbrili mesi, di occupazione, guerra civile, deportazioni. Perciò la storia vissuta e narrata corrisponde, grazie a questa unità e condensazione, ai canoni classici della tragedia. Ma al di là degli aspetti formali ed estetici del racconto, indubbiamente incalzante, seppure sempre moralistico e mai empatico – ma per comprendere storicamente l’orrore non è sufficiente la condanna e la presa di distanza: occorrerebbe anche l’empatia e al limite l’identificazione, per quanto ardua – sono certamente gli aspetti e interrogativi storici ed etici che la narrazione tocca e suscita in modo talora lancinante.


Simon Levis Sullam, storico
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pordenonelegge al via
Attualità, dai migranti alla scuola
Sarà Daniel Pennac ad inaugurare questo pomeriggio la sedicesima edizione di Pordenonelegge, con la presentazione del libro intervista che ripercorre la sua carriera di scrittore, ma già da questa mattina dialoghi, lezioni magistrali, interviste, reading, spettacoli e percorsi espositivi animano la città. "Sarà un’edizione con focus privilegiato sull’attualità – ha spiegato il direttore artistico, Gian Mario Villalta insieme ai curatori Alberto Garlini e Valentina Gasparet - Sarà a Pordenone la filosofa ungherese Agnes Heller, in queste ore osservatrice speciale, da Budapest, del dramma dei migranti. Avremo anche lo scrittore ucraino Andrej Kurkov, l’inviato Federico Rampini e il filosofo Edgar Morin, che dialogherà sul 'Pericolo delle idee'”.
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qui torino
Gli ebrei e l'Italia moderna
I diversi flussi migratori che portarono gli ebrei in Italia, la loro condizione una volta sbarcati nella Penisola, la costruzione dei ghetti e le complesse relazioni tra realtà ebraica e mondo esterno. Sono alcuni dei punti al centro dell’analisi del libro di Marina Caffiero, docente di Storia Moderna alla Sapienza, “Storie degli ebrei nell’Italia moderna. Dal Rinascimento alla Restaurazione” (ed. Carrocci, 2014), presentato al Museo Diffuso di Torino. All’incontro, moderato da Guido Vaglio, direttore del Museo Diffuso hanno preso parte, tra gli altri, Gianmaria Ajani, Rettore dell’Università degli Studi di Torino, Giovanni Filoramo, docente di Storia del Cristianesimo dell’Università di Torino e Claudio Vercelli, storico e ricercatore presso l’Istituto Salvemini (nell’immagine i relatori).

Alice Fubini
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rosh hashanah 5776 - qui torino
Un anno di vigore
In questo secolo nel mondo ebraico è alquanto comodo fare degli auguri. Infatti le lettere che in ebraico indicano questo secolo (tav-shin) sono anche le iniziali dell’espressione teèh shenat (sia un anno…). Noi dobbiamo riempire le altre due lettere come meglio riusciamo. Le altre due lettere sono la ‘ain e la vav, che sono le iniziali di ‘oz we-hadar (vigore e bellezza). Troviamo questa espressione nell’Eshet chayl, nell’ultimo capitolo dei Proverbi, riferiti alla donna di valore. Il versetto dice “è adorna di vigore e bellezza, e sorride all’ultimo giorno”. La tradizione ha riferito questa espressione all’anima umana. Gli tzadiqim, attraverso i propri raggiungimenti, sono soddisfatti della loro vita, e proprio per questo subito prima di lasciare questo mondo, quando sono al massimo dello splendore, benedicono i loro figli. Mi auguro che possiamo passare con vigore e bellezza, sia individualmente che collettivamente, questo 5776, sorridendo al suo ultimo giorno, e soprattutto che possiamo essere soddisfatti di quello che facciamo. Che tutti i buoni propositi che abbiamo espresso in queste feste possano realizzarsi e che noi e tutto Israele possiamo avere salute, pace, tranquillità e benessere. Shanà Tovà!

Ariel Di Porto, rabbino capo di Torino

rosh hashanah 5776 - qui venezia
Un anno per l'integrazione
Chiudiamo un anno che ancora una volta si è caratterizzato per l’acuirsi ‎di alcuni elementi di incertezza negli equilibri internazionali che, particolarmente come ebrei, ci fanno guardare non senza preoccupazione al futuro. Eppure anche in questo contesto abbiamo ragioni di fiducia.
Di fronte all’esodo storico che vede centinaia di migliaia di persone giungere in una Europa che ha difficoltà a confrontarsi con questa nuova realtà di migrazione, gli ebrei, come minoranza integrata all’esito di un percorso non facile e caratterizzato da tragici momenti, sono portatori di una tradizione capace di mediazione culturale e quindi, in questo momento, più che mai moderna‎.
Nell’anno che si apre ricorrerà il Cinquecentenario della costituzione del Ghetto di Venezia, ricorrenza triste da segnare, ma anche punto di partenza di una lunga storia che ha visto gli ebrei veneziani, nonostante ogni ostacolo, costruire con fiducia e tenacia un futuro ‎che ha coniugato l’integrazione con il mantenimento della propria identità culturale.


Paolo Gnignati, presidente Comunità ebraica di Venezia
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rosh hashanah 5776 - qui trieste
Un anno di felicità
Cari correligionari, shalom e benedizioni, nelle nostre Tefillot per i grandi Moadim diciamo “Simha le’artzecha veSasson le’irecha” – Dà gioia alla Tua Terra e allegria alla Tua città!.
L’aspirazione alla felicità è centrale per la nostra psiche ebraica. Siamo incoraggiati a celebrare ciò che abbiamo in un passaggio chiave nel libro di Bereshit, che inizieremo a leggere a Simhat Torah, festa che conclude i Moadim di Tishrí.

Eliezer Shai Di Martino, rabbino capo di Trieste
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pilpul
Ticketless - Pietra di Bismantova
Come s’è fatto con il Giorno della Memoria così anche la Giornata della Cultura Ebraica richiederebbe un primo bilancio. Uno dei limiti che mi sembrano più evidenti è la sua forma esclusivamente urbana. Resta fuori il paesaggio, che nelle regioni del nord è stato fondamentale. In una delle prossime Giornate bisognerebbe organizzare gite fuori porta a Ferrara e Mantova, nelle anse del Po descritte da tanti autori ebrei. Un luogo della memoria ebraica è poi la Pietra di Bismantova, nell’Appennino reggino, dove i nostri padri dicevano che sarebbe andata a posarsi la prossima Arca di Noè.

Alberto Cavaglion

Periscopio - I marxisti oggi
Anch’io, come tanti ragazzi, molti anni fa, per un periodo breve ma intenso, ho subito il fascino di Marx e del marxismo. Anche a me, come a tanti miei coetanei, l’immagine barbuta e severa del filosofo di Treviri ha dato l’idea che qualcuno, diciotto secoli dopo Gesù, fosse tornato sulla terra per ricordare a tutti che bisogna lottare contro le ingiustizie; che è possibile cambiare la storia; che le giovani generazioni devono rompere gli schemi ereditati dai vecchi; che i privilegi dei ricchi sono spesso frutto di prepotenze e ruberie; che, come avrebbe detto poi, in una famosa canzone, Giorgio Gaber, “nessuno ha il diritto di essere felice da solo”; che la violenza può a volte essere giustificata o necessaria per dare la libertà agli oppressi e agli sfruttati; che la religione tende a coprire molte ipocrisie, se non è addirittura da considerare “l’oppio dei popoli” ecc. ecc.

Francesco Lucrezi, storico
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