
Elia Richetti,
rabbino
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Mi-qètz.
Un versetto di questa Parashà afferma che “Yosèf era lui il potente del
Paese, lui che dava il cibo a tutta la gente del Paese”.
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Sergio
Della Pergola,
Università
Ebraica
di Gerusalemme
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Con
la risoluzione 2334 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite si è
interrotta la tradizione maturata nel corso degli ultimi decenni di
storia diplomatica secondo cui gli Stati Uniti pongono il veto a
decisioni che possano sembrare negative nei confronti dello Stato
d’Israele. La direttiva è arrivata chiaramente e direttamente dal
Presidente uscente Barack Obama all’inizio dell’ultimo dei suoi 96 mesi
di mandato presidenziale. In realtà non è successo nulla di nuovo. Il
tono del discorso politico internazionale da sempre ripete gli stessi
motivi, e in particolare rifiuta la narrativa israeliana riguardante lo
stato dei territori occupati al termine della guerra dei Sei giorni del
giugno 1967: territori in grandissima parte non annessi, ma tuttavia
amministrati sotto la tutela delle forze militari israeliane. Nessun
paese al mondo ha mai approvato la costruzione di insediamenti
israeliani nei territori e in particolare in Giudea e Samaria, nota
internazionalmente come Cisgiordania o West Bank. Tutti i paesi hanno
votato contro, sempre, e in tutte le occasioni possibili. Con
l’eccezione degli Stati Uniti. Nessun paese al mondo riconosce oggi
Gerusalemme come capitale dello Stato d’Israele dove dovrebbero
trovarsi le ambasciate di tutti i paesi che hanno rapporti con Israele.
Gli Stati Uniti hanno giocato per anni con la retorica del
trasferimento della sede diplomatica, ma a tutt’oggi l’ambasciata sta a
Tel Aviv. Di fronte a questi fatti ben noti a tutti, lo stato ebraico
sotto la direzione di Benyamin Netanyahu – Primo ministro (con
interruzioni) fin dal 1996, e nel corso degli ultimi mesi anche
ministro degli Esteri – ha giocato una partita diplomatica sciocca e
temeraria. Questa politica autolesionista ha seguito due piste
principali, entrambe insipienti e nocive per la causa di Israele. La
prima pista è stata quella di ostentare in tutte le occasioni militanza
politica a favore del partito Repubblicano statunitense, ossia a favore
dell’opposizione politica al presidente Democratico in carica.
Netanyahu si è accanitamente opposto a Obama in occasione delle diverse
successive campagne elettorali, e lo ha addirittura sfidato
pubblicamente in occasione di un plateale discorso a Camere americane
congiunte. E dopo tutto questo Bibi si lamenta quando Obama compie la
sua perfida e sottile vendetta politica negli ultimi sprazzi del suo
mandato. Ancora più grave la seconda pista seguita dalla politica
estera israeliana. Gli insediamenti nei territori non rappresentano un
blocco unico e ineluttabile ma, al contrario, sono composti da varie
stratificazioni che evocano situazioni sociologiche differenti e
reazioni ben differenziate in Israele e nel mondo.
Esistono i nuovi quartieri ebraici costruiti attorno a Gerusalemme dopo
il 1967: Gilo (dove era situata l’artiglieria giordana che nel 1967
cannoneggiava le strade della città), Ramot, Talpiot Mizrach. Chiunque
abbia la testa sulle spalle capisce che questi quartieri fanno parte
permanente del comune di Gerusalemme, sono abitati non da coloni, ma da
normali cittadini urbani, e nessuno sogna che possano essere sgomberati
e consegnati a chicchessia. Poi esistono Ma’alé Adumim e Beitàr Élit,
due città sui 40-50.000 abitanti a poche centinaia di metri dal vecchio
confine, che fungono da quartieri dormitorio per Gerusalemme, anch’esse
popolate da pacifici strati sociali medio-bassi. Fanno parte del
consenso di ciò che Israele si terrà in qualsiasi accordo con i
Palestinesi. Poi c’è il Gush Etzion, il complesso di insediamenti
rurali che facevano parte della Palestina ebraica fino al 1948 e sono
stati ricostruiti dopo il 1967. Anche questa parte viene raramente
messa in discussione nell’ipotesi di un futuro accordo. Poi c’è Ariel,
una città più all’interno della Samaria, meno facilmente accessibile. È
legittimo discuterne, anche se è improbabile che possa venire rimossa.
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Stati Uniti-Israele,
il punto più basso
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Sui
giornali oggi in edicola pochi dubbi sul fatto che, con l’intervento di
aperta condanna degli insediamenti delle scorse ore, si sia toccato il
punto più basso delle relazioni tra Stati Uniti e Israele. “Difficile
trovare nella memoria storica americana parole così dure contro il
governo israeliano, come quelle pronunciate ieri da John Kerry” osserva
il Corriere. “Dichiarazioni di inusuale durezza, poco diplomatiche e
irrituali per un’amministrazione in uscita” scrive il Sole 24 Ore.
Le parole del segretario di Stato uscente e il successivo tweet di
Donald Trump (“Sii forte Israele, tra poco arrivo”) sono oggi
analizzati da numerosi opinionisti. Secondo Gianni Riotta (La Stampa),
Kerry ha lanciato un monito “da editorialista deluso, non da
diplomatico di ferro: senza uno Stato palestinese Israele perde
l’identità ebraica o la democrazia”.
“Questo discorso altro non è, nei fatti, che la conferma del retaggio
del suo presidente: dopo aver per la prima volta nella storia americana
confermato, astendendosi, un voto dell’Onu che condanna Israele, ha
lanciato Kerry come un missile contro l’unico stato democratico e laico
del Medio Oriente” sostiene invece Fiamma Nirenstein sul Giornale.
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LA CONFERENZA STAMPA DI FINE ANNO Gentiloni a Pagine Ebraiche:
"Il Medio Oriente è una priorità"
“Se
consentiamo al terrorismo islamico di appropriarsi della causa
palestinese, corriamo un grave pericolo. Un pericolo che non possiamo
permetterci. È un tema che vogliamo riportare al centro dell’agenda”.
Lo ha affermato il Primo ministro Paolo Gentiloni, rispondendo alle
domande di Pagine Ebraiche in occasione della tradizionale conferenza
stampa di fine anno. “Esiste una strada individuata dalla comunità
internazionale, che con i colloqui di Camp David è stata a un
millimetro dalla conclusione. La strada è quella dei due Stati.
Sfortunatamente si è insabbiata – ha detto Gentiloni – ma resta quella
da seguire”.
Il Primo ministro ha poi aggiunto: “Gli insediamenti israeliani non
favoriscono la soluzione ‘due Stati, due popoli’ ma è altrettanto
sbagliata l’idea che l’isolamento diplomatico costituisca il giusto
strumento di pressione nei confronti di Israele. La soluzione può
essere raggiunta soltanto attraverso un negoziato”.
Sul tema della sicurezza interna, anche alla luce dei recenti fatti di
cronaca, il premier ha inoltre affermato: “Non esistono paesi non a
rischio e di questo penso che dobbiamo essere onestamente consapevoli e
trasmettere questa onesta consapevolezza ai cittadini”.
“Esistono paesi – ha proseguito Gentiloni – che fanno tutto lo sforzo
possibile per prevenire attraverso intelligence e apparati sicurezza.
Poi esistono condizioni che differenziano i diversi paesi e, da un
lato, l’Italia ha posizione geopolitica esposta: siamo al centro del
Mediteranno, che è un’area di crisi tra le più pericolose al mondo.
Dall’altro lato, siamo un paese che è riuscito ad avere livelli di
convivenza tra comunità diverse meno drammatici di altri paesi”.
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otto giorni otto luci Essere al centro
Come
ti sei fatta bella e come ti sei fatta piacevole, o amore tra le
delizie (Cantico dei Cantici 7:7). Il trattato Soferim (20:5) riporta
una fonte che afferma che questo versetto alluda sia alla Mezuzà (mah
yafyta – come ti sei fatta bella) sia alla Chanukkyà (mah na‘amta –
come ti sei fatta deliziosa). La fonte di questa riferimento è lo Zohar
(Vaychy, 686) che, al verso relativo alla benedizione di Giacobbe a
Issakhar (Egli vede che il riposo è buono e la terra che è deliziosa;
Genesi 49:15), la tribù d’Israele che simboleggia gli studiosi della
Torà, spiega: “Egli vede che il riposo è buono/tov indica la Torà
Scritta, e la terra che è deliziosa/na‘ema indica la Torà Orale”. La
Mezuzà, fissata alla destra della nostra porta, rappresenta dunque la
Torà scritta e la Chanukkyà, che mettiamo in questi giorni alla
sinistra della porta, rappresenta quella orale. E noi? Proviamo a stare
nel mezzo.
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Jciak I giovani delle colline
La
condanna dell’Onu e le prese di posizione di Donald Trump e del
neoambasciatore americano in Israele li hanno scaraventati di nuovo
sulle prime pagine. Ma gli insediamenti ebraici in Giudea e Samaria
(West Bank), come del resto quelli di Gerusalemme Est, non hanno mai
smesso di far parlare di sé. Sul fatto che siano uno dei nodi più
brucianti dello scenario israelo-palestinese non ci sono dubbi. Ma ad
aggiungere pepe alla questione è la mutevole galassia dei suoi
fondatori, animatori, sostenitori, difficile da decifrare soprattutto
nelle sue frange più giovani ed estremiste. A inoltrarsi in questo
territorio è Shimon Dotan, 66 anni, regista israelo-americano, che nel
documentario The Settlers intervista un centinaio di uomini e donne che
vivono negli insediamenti, nello sforzo di raccontare lo sviluppo del
movimento dopo il 1967 e la sua ultima evoluzione, la gioventù delle
colline. Leggi
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Setirot
- Il nodo
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Che
da anni l’Onu nei confronti di Israele palesi una vera e propria
ossessione negativa è fuor di dubbio. Che la leadership palestinese
continui a dimostrarsi inaffidabile e comunque debole e corrotta è una
mia convinta opinione (che altri ovviamente hanno tutti i diritti di
non sottoscrivere e contestare). Che il governo Netanyahu
democraticamente eletto sia il peggiore della storia dello Stato di
Israele è altrettanto una mia convinta opinione (che altri ovviamente
hanno ogni diritto di non sottoscrivere e contestare). Ma senza troppi
giri di parole la questione è una e una sola: come possono convivere
sincera ricerca di trattative di pace e insediamenti nei territori
contesi/occupati?
Stefano Jesurum, giornalista
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In ascolto - Irving Berlin
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Quest’anno
gli americani saranno stati particolarmente felici nell’augurare Happy
Chrismukkah, visto che vigilia e primo giorno di entrambe le feste
coincidono. Il problema di conciliare le due tradizioni ci riporta ai
racconti di Gershom Scholem e alla società ebraica tedesca degli anni
’30, ma il problema di “sintesi” di allora, raffigurato in modo
efficace dall’installazione dell’albero di Natale in una sala del
Judische Museum di Berlino, oggi non ha lo stesso sapore.
In effetti la musica, al di là di qualche performance di scarsa
qualità, non si è proprio lasciata prendere da questo mix, quasi come
se volesse dirci che ogni tradizione ha diritto alle proprie melodie ed
è possibile cantare le une e le altre senza dover per forza trovare un
incontro.
Maria Teresa Milano
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21 gennaio |
A
coloro che ritengono Israele isolato politicamente come non mai,
andrebbero chieste due cose: la prima perché le posizioni di un
presidente degli Stati Uniti uscente e bocciato clamorosamente dagli
elettori americani, debbano essere più rilevanti di quelle di un
presidente eletto che invece sostiene lo Stato d’Israele insieme alla
maggioranza dei membri del Congresso e del Senato. Poi, se e quando
terminerà la ricerca spasmodica di essere accettati dal resto del
mondo. È lo stesso principio dell’assimilazione, di chi riteneva che
bisognasse rifiutare parte della propria identità per essere cittadini
migliori.
Daniel Funaro
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Katherine
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"Quando
arriviamo?”. A Katherine piace ricordare sua madre che le chiede di
ripetere la domanda che faceva da piccola piccola, quando – appena
partita per un breve viaggio o una semplice gita – alla prima fermata
(un semplice stop sulla strada o la prima stazione della metropolitana)
già voleva arrivare. Alle ultime pagine di questo romanzo misterioso –
una spy story interiore – Katherine è a Ugolgrad, un’isola delle
Svalbard, l’arcipelago norvegese dell’estremo nord; non molte settimane
prima era a Roma, in motorino o a ballare.
Valerio Fiandra
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Piccola luce
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Potremmo
pensare a Chanukkah, anche quest’anno, con il sorriso sornione di chi
vede che, di nuovo, le Chanukkiot di casa non hanno preso fuoco – con
grande fatica abbiamo infatti rinunciato, da qualche tempo, ad
accendere quelle bellissime auto prodotte, dopo un tentativo di
incendio al davanzale della finestra del salotto nella nostra vecchia
casa, ove avevamo fieramente utilizzato una Chanukkiah fatta di das e
due di legno (materiale altamente infiammabile quest’ultimo, come dire
che ce la siamo cercata, ma il das?).
Sara Valentina Di Palma
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