Se non leggi correttamente questo messaggio, clicca qui               8 Luglio 2021 - 28 Tamuz 5781
VERSO LA FINALE

Italia-Inghilterra: i Maestri del calcio
e la scomoda verità di Momigliano

“It’s coming home”, cantano i tifosi inglesi da qualche giorno. E a maggior ragione dopo la partita vinta ieri sera contro la Danimarca, che pur con qualche difficoltà supplementare li ha proiettati verso la finale di Euro 2020. L’ultimo ostacolo, come noto, si chiama Italia.
Due grandi tradizioni a confronto. I Maestri del calcio moderno, però, non sembrano aver dubbi: la vittoria sarà loro. E così si compirà l’inevitabile “ritorno a casa” di un trofeo continentale che pure, nella loro storia, non hanno mai vinto. Se ci aggiungiamo il solo torneo conquistato finora, il Mondiale del 1966 ospitato proprio Oltremanica, un bottino abbastanza gramo per chi questo sport l’ha inventato e portato a un livello di sofisticazione molto alto. Ma siamo proprio sicuri che sia così? Che la primogenitura del calcio sia davvero inglese?
Un libro tra i più originali in materia – Calcio!, dello scrittore colombiano Juan Esteban Constain – ci ricorda che l’argomento è complesso. Protagonista di questo godibilissimo romanzo ancorato su basi storiche accurate è Arnaldo Momigliano, il grande studioso ebreo dell’età classica fuggito dall’Italia dopo la promulgazione delle leggi razziste. Ad Oxford, dove quell’illustre esule è stato accolto, ha l’ardire di esporre una tesi scomoda che urta l’uditorio: il calcio non è inglese, ma italiano. E più precisamente fiorentino.
“Come osa!”, si agita la platea. Proprio lui, l’ebreo Momigliano che il suo Paese ha appena cancellato dalla lista dei cittadini degni di questo nome. L’offesa è di tale entità che si arriva addirittura a un processo. L’unico modo ormai per dirimere una controversia che si è fatta lacerante.


Siamo nel regno della finzione. Ma quello che Constain fa dire a Momigliano è molto vero: il “football” come lo conosciamo oggi non sarebbe forse mai esistito se per secoli non si fosse giocato il cosiddetto calcio storico fiorentino, noto anche col nome di calcio in livrea o calcio in costume.
Una tradizione antichissima, che risale addirittura al Quattrocento.
Calcio! ruota attorno a una partita, disputata il 17 febbraio 1530 in una città vicina ormai a cadere sotto il controllo delle truppe di Carlo V. Ma intenzionata, fino all’ultima energia, a mostrarsi vitale. A difendere con gesti anche eclatanti il valore della libertà.
Per uno di quei paradossi della storia il calcio storico avrebbe ritrovato vigore proprio sotto il fascismo. E in particolare sulla spinta di Alessandro Pavolini, allora federale di Firenze e futuro uomo del Minculpop. Un ritrovato slancio negli stessi anni in cui l’Italia del pallone costruiva il suo più roseo cammino con due vittorie consecutive ai Mondiali (’34 e ’38) e addirittura l’oro olimpico a Berlino ’36. Era l’Italia di Vittorio Pozzo, il cui record di vittorie consecutive è stato prima eguagliato e poi superato nel corso di questo Europeo.
La nazionale di Mancini ha già fatto molto. Manca ora solo l’ultimo tassello per completare un’opera sontuosa e che, anche per il particolare momento che l’intera umanità sta attraversando, travalica i confini dell’agonismo “puro” e “semplice”.
Ricordava un grande tifoso, l’ex rabbino capo d’Inghilterra e del Commonwealth rav Jonathan Sacks: “Il calcio è molto più di un semplice gioco. Il calcio, per molti versi, è come la religione. Ha il suo imprescindibile aspetto di ritualità perché essere tifosi significa fondare la nostra identità su un qualcosa più grande di noi. Ma è anche un intenso momento di fede, perché si tratta di sostenere la tua squadra anche quando le convinzioni più profonde che puoi aver maturato sono messe a dura prova dalle circostanze contingenti. E quando arriva il goal della vittoria, finalmente, ci si stringe in un abbraccio collettivo per raggiungere quello stato di trascendenza che un grande filosofo come Hobbes ha definito ‘la gloria improvvisa’. Una terminologia perfetta per spiegare questa sensazione”.
Ancora novanta minuti (o forse centoventi) per capire se “is coming home” o, come tutti ci auguriamo, “sta tornando a casa”. 

Adam Smulevich twitter @asmulevichmoked

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IL DOSSIER "MUSEI" SU PAGINE EBRAICHE DI LUGLIO 

La lunga storia del matrimonio ebraico

L'intera Giunta regionale dell'Emilia-Romagna sarà oggi in visita al Meis, il Museo nazionale dell'ebraismo italiano e della Shoah di Ferrara.
Guidata dal presidente Stefano Bonaccini, la Giunta sarà accolta dal presidente del Museo Dario Disegni e dal suo direttore rav Amedeo Spagnoletto. 
La visita arriva a poche settimane dall'ingresso della Regione come ente partecipante nella Fondazione del Meis, dove affianca Ministero della Cultura, Comune di Ferrara, Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano. "Quando le generazioni passano e i superstiti si estinguono sono le comunità civili nella loro interezza a dover divenire testimoni del tempo: diffondere la cultura della memoria è un grande investimento per la pace e la tolleranza nel futuro”, aveva affermato allora Bonaccini. 
Proprio al Meis, e in particolare alla sua ultima mostra, è dedicato un ampio spazio all'interno del dossier Musei sul numero di luglio di Pagine Ebraiche in distribuzione.
La testimonianza di Sharon Reichel, curatrice dell'allestimento insieme al direttore Spagnoletto.




Mazal Tov! Lo diciamo tutti al termine della cerimonia del matrimonio, un augurio per il futuro della coppia che abbiamo scelto come titolo della mostra aperta al pubblico al Meis il 4 giugno e che si concluderà il 5 settembre.
Una mostra che il direttore del museo, Amedeo Spagnoletto, con cui ho avuto il piacere di curare l’esposizione, ha voluto dedicare alla speranza di un ritorno alla normalità, dopo questo lungo periodo di limitazioni. Quando è stato il momento di mettere su carta i ragionamenti che hanno portato alla concretizzazione del percorso espositivo, ammetto, ho dovuto pensare a lungo su come affrontare la questione. Una mostra segue un processo a tappe e in questo caso la prima è stata quella di domandarsi quali temi del museo avessero bisogno di un approfondimento. La permanente del Meis infatti segue un percorso cronologico in continua evoluzione, in cui viene presentata la storia della presenza ebraica in Italia.



 

Ci siamo chiesti più volte come conciliare la natura storica del percorso, con l’urgenza di raccontare una comunità, una religione e una cultura ancora attiva e presente. Gli ebrei italiani non sono infatti un ricordo passato, ma una storia del presente. Siamo così arrivati a individuare il tema del matrimonio, momento centrale nella vita di un individuo, ma anche della famiglia e della comunità, durante il quale ci si impegna a formare una coppia e un nuovo nucleo familiare. Individuate e comprese le ragioni della mostra ci siamo concentrati sulla scelta degli oggetti, ciò che rende unico il linguaggio di un percorso espositivo. Ci siamo trovati davanti due linee guida, da una parte gli oggetti legati al rito, dall’altra le varie forme di espressione che circondano il matrimonio, quelle che abbiamo raccolto sotto la dicitura “usi e costumi”. L’idea portante è stata quella di presentare oggetti che racchiudessero in sé storie personali, che potessero dimostrare concretamente quanto il valore di un manufatto possa essere sia artistico che culturale. Arriva così il momento di svelare il primo oggetto a cui ho pensato: l’opera di Sigalit Landau in collaborazione con Yotam From, Salt Crystal Bridal Gown. Una serie di fotografie segue il processo di cristallizzazione di un abito nero immerso nel Mar Morto, l’azione del sale trasforma lentamente un simbolo di lutto, in un abito bianco. L’artista ha tratto ispirazione dal “Dybbuk” di An Sky, opera teatrale in cui una giovane sposa viene posseduta da uno spirito. Questa lenta trasformazione di una situazione negativa in un elemento positivo è qualcosa che possiamo riconoscere tutti, a fronte delle costrizioni e delle privazioni causate dalla pandemia.

In mostra le due immagini dell’abito da sposa dialogano con Una per Tutte, Tutte per Una l’opera di Florah Deborah, artista franco-italiana ora di base a Tel Aviv, che ha riflettuto per noi sul tema del mikveh, il bagno rituale, con l’intenzione di evitare una rappresentazione didascalica e di aprire metaforicamente uno spazio privato. Allo stesso tempo, per proseguire la riflessione sulle storie dei singoli, abbiamo cercato di portare oggetti che aprissero scorci inaspettati. Abbiamo fin da subito deciso che dovevano essere presenti i doni alla sposa e così insieme ai candelabri è stato individuato un oggetto meno classico. 

Sharon Reichel - Dossier "Musei" Pagine Ebraiche luglio 2021

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SEGNALIBRO 

L'ebreo in bilico, tra Shoah e antisemitismo

“Si può scrivere per la fama, e si può scrivere per l’Arte. Si può scrivere per la scienza o per dar voce allo spirito. Si scrive per affermare di esistere o per un bisogno istintivo di comunicare. Ogni scrittura ha un suo motivo, e in ogni scrittura c’è dell’autobiografia, di contenuti o di stile. Ma si può scrivere anche a nome di qualcun altro, per rispondere all’aspettativa di chi mai ha avuto l’ardire di esprimersi, per appagare un bisogno da anni represso, per rispondere con imperdonabile ritardo alla frustrazione di coloro ai quali la storia non ha dato una voce”.
L’ebreo in bilico – l’ultimo saggio di Dario Calimani, da oggi nelle librerie con l’editore Giuntina – è una ricognizione autobiografica su cosa significhi difendere la Memoria dai tentativi di oblio e annacquamento, rapportarsi con la propria identità in ogni sua sfumatura e purtroppo talvolta anche con un sentimento ostile trasversalmente diffuso nella società italiana. Un sentimento che si annida anche in mondi, teoricamente più istruiti, che si immaginerebbero immuni dal pregiudizio.
Il viaggio di una vita. Nei diversi universi e nelle diverse situazioni toccate con mano da Calimani, storico collaboratore di queste testate, per molti anni docente di Letteratura inglese all’Università Ca’ Foscari di Venezia e da qualche mese presidente della Comunità ebraica lagunare.
Le sofferte memorie familiari, tra sterminio e salvezza. I ricordi del periodo militare, con le prime difficoltà a conciliare vita privata e servizio pubblico. E la scelta, da allora, di non privarsi più della barba che l’esercito gli aveva imposto di radersi. Amicizie e rapporti incrinatesi davanti a considerazioni malevole. Il preside di facoltà che dopo il ritrovamento di una svastica nell’aula dove insegna esprime sì solidarietà, ma in modo ammiccante aggiunge poi: “Però tu ci ha giocato un po’”. Tra detti e non detti. Tra veleni, strafalcioni, piccole e grandi miserie, un itinerario non semplice da tracciare. E comunque coraggioso e schietto. Un libro utile per capire quanta strada resti ancora da percorrere.
Per gentile concessione dell'editore ne pubblichiamo un brano. 

Il Ghetto visto dagli altri

Mi chiede di incontrarla una consumata regista Rai, per un documentario che sta girando sul Ghetto di Venezia. E io mi dispongo mentalmente all’incontro. Ripasso nella mia mente quanto so del Ghetto. Non sono uno storico, ma me ne sono occupato, e qualche dato saliente della sua storia lo conosco; soprattutto, ho una vaga idea di come il Ghetto sia stato visto dall’esterno, da viaggiatori e scrittori che l’hanno visitato. Sento di dovermi preparare a sfatare preconcetti e idee superficiali sugli ebrei e sui tre secoli di emarginazione ebraica. Ma voglio essere ottimista, e penso che una regista Rai certamente ha letto e studiato prima di venire a Venezia. E poi, essendo romana, è di certo venuta a contatto con gli ebrei attraverso l’importante comunità ebraica della capitale.
Ci penso mentre cammino per il Ghetto e, guardandomi attorno, osservo le peculiarità su cui potrò indirizzare la sua attenzione: le basse finestre degli altissimi edifici, il campo spazioso in cui migliaia di persone, per secoli, hanno vissuto nella più totale indigenza. È il Ghetto miserabile da cui, con criminale facilità, il 17 agosto 1944 furono deportati gli anziani della Casa di Riposo Israelitica.
Lo spirito del passato aleggia sulle mura delle case, nella scritta del Banco Rosso, nelle vere da pozzo, nelle iscrizioni ebraiche incise sulla pietra, negli alti finestroni delle sinagoghe debitamente, ma a fatica, mimetizzate alla vista del passante, nelle cupole che affiorano dai tetti.
È straziante leggere il resoconto che ne fa lo scrittore americano William Dean Howells, console a Venezia fra il 1861 e il 1865, il quale lo attraversa solo per caso e, dopo aver visitato la Sinagoga Spagnola ed essersi aggirato per calli e callette, osserva: “Non capisco perché ebrei di qualsiasi ceto debbano rimanere nel maleodorante Ghetto, ma è certo che vi rimangono in gran quantità. Forse l’impurità del luogo e la sua atmosfera favoriscono la purità della razza; ma mi chiedo se gli ebrei sepolti sulla riva sabbiosa del Lido, dove soffia la dolce brezza marina – deve per forza soffiare per secoli prima di poterli purgare dal Ghetto –, non debbano essere invidiati dagli abitanti di quelle case alte e sporche e di quei vicoli sporchi e bassi. Non c’era nulla di salubre o gradevole o attraente che alleviasse la perniciosità del Ghetto agli occhi dei suoi visitatori […] Ai bei tempi andati, quando la peste vendicava i poveri e gli oppressi e si riversava sui loro oppressori, quale flagello lugubre e pauroso dev’essere uscito di notte e di giorno da quelle strade orrende, per affluire ai perimetri marmorei dei palazzi patrizi, portando ai letti dei ricchi e degli alteri l’immondo squallore del Ghetto tramutato in veleno! Grazie a Dio, i bei tempi andati sono passati per sempre. In queste antiche terre si impara a odiare e ad aborrire il passato”.
Il degrado e l’indigenza sono ben visibili anche a distanza di oltre mezzo secolo dall’apertura delle porte del Ghetto. L’eredità di tre secoli di segregazione serra ancora nella sua morsa gli ebrei del ghetto. Difficile, per la massa di derelitti, sollevarsi da una miseria disperata, accettata come destino irreversibile. In un certo senso, a metà Ottocento, le porte del Ghetto sono ancora chiuse. Quando a qualche convegno sento storici e musicologi parlare della bellezza della cultura sviluppata nel Ghetto penso sempre, come contraltare, a questa descrizione.

Dario Calimani - L'ebreo in bilico (ed. Giuntina)

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La fragilità del governo israeliano
Che il governo Bennett-Lapid fosse nato fragile era chiaro fin dal primo momento, fin dalla votazione sulla fiducia, quando alla già debole maggioranza di 61 seggi su 120 ne venne subito a mancare uno. Adesso, alla prima prova parlamentare su un provvedimento controverso, ne sono venuti a mancare due e ciò ha provocato la non approvazione di un provvedimento proposto dal governo. In realtà si trattava solo di prorogare una norma già esistente, quella che impedisce per motivi di sicurezza l’estensione automatica della cittadinanza israeliana ai palestinesi sposati con israeliani.
Valentino Baldacci
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Machshevet Israel - Il diluvio, gli animali e noi
All’epoca di Noè, per colpa dell’uomo gli animali furono (quasi) sterminati e per merito dell’uomo gli animali furono salvati. Si potrebbe sintetizzare così la mitica visione biblica di quel che accadde agli animali all’epoca del diluvio, enfaticamente chiamato ‘universale’. Se tale aggettivazione è risibile in termini geofisici, non lo è in termini filosofici, nel senso che il racconto contiene qualcosa che ha davvero una pretesa universale, ossia insegnamenti etico-religiosi di loro natura olistici.
Massimo Giuliani
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Spuntino - Non procrastinare
Perché in fatto di voti e giuramenti la Torà (nella parashà di Matot che questo sabato si legge insieme a Mas’ei, concludendo il quarto libro del pentateuco) si rivolge ai capi tribù e non direttamente a tutto il popolo? Forse per sottolineare l’importanza di dare il buon esempio agli altri, che vale soprattutto quando si detiene una carica. Se si prende un impegno bisogna mantenerlo. Per questo motivo è buona norma aggiungere l’espressione “blì neder” ( = senza impegno) ad ogni promessa, anche se implicita in una mera dichiarazione d’intento.
 
Raphael Barki
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Il noce
Nel Levitico ci sono dettagliate spiegazioni sui sacrifici. Tutte le spiegazioni e le descrizioni che troviamo nel testo riguardano gli oggetti dell’offerta e le modalità come venivano presentati al Santuario, ma non si accenna mai a come si alimenta il fuoco per ardere i sacrifici, né l’approvvigionamento del combustibile, che doveva essere presente al Santuario in grande quantità, visto che di fatto il fuoco non veniva mai spento.
 
Roberto Jona
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