Pagine Ebraiche – Dossier Musei
La lunga storia del matrimonio ebraico
Mazal Tov! Lo diciamo tutti al termine della cerimonia del matrimonio, un augurio per il futuro della coppia che abbiamo scelto come titolo della mostra aperta al pubblico al Meis di Ferrara il 4 giugno e che si concluderà il 5 settembre.
Una mostra che il direttore del museo, Amedeo Spagnoletto, con cui ho avuto il piacere di curare l’esposizione, ha voluto dedicare alla speranza di un ritorno alla normalità, dopo questo lungo periodo di limitazioni. Quando è stato il momento di mettere su carta i ragionamenti che hanno portato alla concretizzazione del percorso espositivo, ammetto, ho dovuto pensare a lungo su come affrontare la questione. Una mostra segue un processo a tappe e in questo caso la prima è stata quella di domandarsi quali temi del museo avessero bisogno di un approfondimento. La permanente del Meis infatti segue un percorso cronologico in continua evoluzione, in cui viene presentata la storia della presenza ebraica in Italia.
Ci siamo chiesti più volte come conciliare la natura storica del percorso, con l’urgenza di raccontare una comunità, una religione e una cultura ancora attiva e presente. Gli ebrei italiani non sono infatti un ricordo passato, ma una storia del presente. Siamo così arrivati a individuare il tema del matrimonio, momento centrale nella vita di un individuo, ma anche della famiglia e della comunità, durante il quale ci si impegna a formare una coppia e un nuovo nucleo familiare. Individuate e comprese le ragioni della mostra ci siamo concentrati sulla scelta degli oggetti, ciò che rende unico il linguaggio di un percorso espositivo. Ci siamo trovati davanti due linee guida, da una parte gli oggetti legati al rito, dall’altra le varie forme di espressione che circondano il matrimonio, quelle che abbiamo raccolto sotto la dicitura “usi e costumi”. L’idea portante è stata quella di presentare oggetti che racchiudessero in sé storie personali, che potessero dimostrare concretamente quanto il valore di un manufatto possa essere sia artistico che culturale. Arriva così il momento di svelare il primo oggetto a cui ho pensato: l’opera di Sigalit Landau in collaborazione con Yotam From, Salt Crystal Bridal Gown. Una serie di fotografie segue il processo di cristallizzazione di un abito nero immerso nel Mar Morto, l’azione del sale trasforma lentamente un simbolo di lutto, in un abito bianco. L’artista ha tratto ispirazione dal “Dybbuk” di An Sky, opera teatrale in cui una giovane sposa viene posseduta da uno spirito. Questa lenta trasformazione di una situazione negativa in un elemento positivo è qualcosa che possiamo riconoscere tutti, a fronte delle costrizioni e delle privazioni causate dalla pandemia.
In mostra le due immagini dell’abito da sposa dialogano con Una per Tutte, Tutte per Una l’opera di Florah Deborah, artista franco-italiana ora di base a Tel Aviv, che ha riflettuto per noi sul tema del mikveh, il bagno rituale, con l’intenzione di evitare una rappresentazione didascalica e di aprire metaforicamente uno spazio privato. Allo stesso tempo, per proseguire la riflessione sulle storie dei singoli, abbiamo cercato di portare oggetti che aprissero scorci inaspettati, abbiamo fin da subito deciso che dovevano essere presenti i doni alla sposa e così insieme ai candelabri è stato individuato un oggetto meno classico, frutto di un guizzo di Spagnoletto. Una chatelaine, manufatto che in passato ovviava alla mancanza di tasche nelle gonne e veniva agganciata a una cintura dalla quale pendevano utensili utili per la donna, fra cui ditali, coltellini, matite e taccuini. Un dono che veniva tramandato nella famiglia Levi di Firenze. Una mostra sul matrimonio ebraico non è completa senza la presenza di una ketubbah. In questo caso ne abbiamo ben quattro, con storie e fatture diverse. Due di queste provengono dalle collezioni della Biblioteca Estense Universitaria e dimostrano in modo dirompente l’uso di abbellire i contratti matrimoniali. La più antica, del 1629, è riccamente miniata, mentre quella del 1728 è decorata grazie alla tecnica della micrografia, dove i contorni delle figure sono composti da testi in ebraico. Due ketubbot ottocentesche completano il percorso, di minore pregio artistico, ma cariche di significato. Si tratta di documenti che sono stati donati o lasciati in comodato d’uso al museo e che abbiamo voluto mostrare al pubblico. La missione del Meis è infatti quella di rappresentare gli ebrei ita- liani, compito reso più semplice grazie alla collaborazione dei privati.
Proprio con l’idea di rafforzare e, in alcuni casi, creare un legame con gli ebrei italiani abbiamo pensato di chiedere la loro partecipazione per arricchire lo spazio dedicato alla chuppah. Il museo aveva a disposizione alcune immagini di matrimoni, ma grazie alla partecipazione di tanti abbiamo potuto mostrare foto che coprono il periodo dal 1920 fino ad oggi, una testimonianza della vitalità dell’ebraismo italiano. Tutti questi momenti e oggetti distanti fra loro sono stati messi in relazione dall’allestimento ideato dall’architetto Giulia Gallerani, che è riuscita ad unire in un percorso semplice, ma non banale le varie anime del matrimonio ebraico.
Cito come esempio la vetrina centrale ideata per accogliere gli oggetti effimeri che vengono pro- dotti per le nozze, gli inviti, i birkonim e le kippot da distribuire agli invitati, una struttura che scandisce lo spazio, alleggerita dall’inserimento di grafiche che dialogano con quelle dell’ambiente dedicato alla chuppah.
I giudizi sul nostro lavoro di curatori sono invece in mano al pubblico, che speriamo riesca a intuire alcune delle nostre riflessioni, ma che soprattutto possa avere una piacevole esperienza di visita.
Sharon Reichel, dossier Musei – Pagine Ebraiche agosto 2021