Machshevet Israel
Il diluvio, gli animali e noi

All’epoca di Noè, per colpa dell’uomo gli animali furono (quasi) sterminati e per merito dell’uomo gli animali furono salvati. Si potrebbe sintetizzare così la mitica visione biblica di quel che accadde agli animali all’epoca del diluvio, enfaticamente chiamato ‘universale’. Se tale aggettivazione è risibile in termini geofisici, non lo è in termini filosofici, nel senso che il racconto contiene qualcosa che ha davvero una pretesa universale, ossia insegnamenti etico-religiosi di loro natura olistici. Un’etica e una religione che non abbiano pretesa di dire cose universali non sono degne del nome (e per questo il giudaismo è una religione e al contempo è un’etica erga omnes, di cui le Dieci Parole o Dieci Comandamenti, se ben compresi – ma il più delle volte non lo sono, specie dal mondo cristiano e dalla cultura cosiddetta laica – sono un manifesto straordinario). Un esempio di ‘cose universali’ che il giudaismo ha da dire riguarda il rapporto tra umanità e mondo degli altri viventi (detti ‘animali’, ossia che hanno un’anima, una ruach, un soffio vitale, sebbene l’evidente comunanza di ‘vita’ che unisce a livello biologico gli umani e gli altri animali sia un tema che la filosofia occidentale, nata nel segno dell’antropocentrismo socratico, non è mai riuscita ad elaborare, anzi a digerire). Il disincantato Qohelet invece ne è consapevole e si duole, a suo modo, del comune destino mortale degli uni e degli altri.
Torniamo all’arca di Noè, che trattiamo spesso come una bella favola. Anzi, ad Adamo ed Eva – l’uomo, in senso lato, non maschilista – sebbene sia detto che solo all’Adam furono da Dio “portate tutte le bestie dei campi e tutti i volatili del cielo per vedere come li avrebbe chiamati” (Bereshit/Gn 2,19-20). Ben due versetti sono dedicati a quest’azione, un comando implicito (a quanto si può intuire). Si sa che chiamare o nominare è un atto linguistico altamente performativo, dalle enormi valenze morali e sociali. ‘Dare il nome’, ‘nominare’, è un atto di signoria e di creatività, una forma di imitatio Dei. Non è un mero ‘gioco dei nomi’. Secondo un’antica tradizione rabbinica registrata nel Talmud, trattato Sanhedrin, Dio avrebbe dato ad Adamo, e possiamo midrashicamente immaginare l’abbia fatto mentre gli chiedeva di dare i nomi agli animali, ben sei precetti, poi detti ‘’noachidi: divieto di idolatria, di blasfemia, di omicidio, di relazioni sessuali improprie (bestialità?) e di furto, con l’obbligo aggiuntivo di istituire tribunali per garantire la giustizia e l’ordine politico. Ora, noi sappiamo che quei precetti sono sette: dov’è quello di “non mangiare parti di animale vivo”, che non sia stato ‘sacrificato’? Il consumo di carne animale in antico era percepito come un permesso divino, e l’animale doveva essere ‘sacrificato’, reso sacro, per mezzo di un rito religioso che ottenesse dalla divinità, vera proprietaria della vita, una licenza a tale consumo. L’occidente ha perso da tempo questo framework e ha spinto quel consumo agli eccessi immorali che sappiamo. Come ha detto un bracciante in tv, tempo fa, molto del nostro cibo quotidiano (carne ma spesso anche frutta e verdura) è eticamente marcio!
Ebbene, quando è arrivato nel novero dei sette quest’ultimo divieto? Secondo la tradizione talmudica quello sarebbe stato l’unico divieto dato da Dio a Noè e ai suoi figli, completando così il gruppo simbolico dei sette precetti. Perché proprio quel solo precetto fu dato a Noè? Riflettiamo. Noè è l’unico giusto della sua generazione, un nuovo Adamo, uno spartiacque (no pan intended): ebbe il terribile, spaventoso, non invidiabile privilegio di sopravvivere, con la sua ristretta famiglia, al diluvio e tra le responsabilità che Dio gli accollò ci fu quella di salvare almeno una coppia di ogni specie animale. Anche qui, non stiamo alla lettera ma al senso simbolico. Avrebbe il salvatore degli animali potuto cibarsi di loro senza il permesso divino? O senza una norma halakhica (ante litteram) in materia? Con Noè l’umanità diventa ‘carnivora’ non a dispetto dell’arca, ma a motivo di essa; pertanto il mangiar carne dovrà essere regolato da quel precetto che ne vieta un consumo senza previa macellazione rituale, senza sacrificio e offerta… senza permesso. Miticamente, si tratta di un messaggio fortissimo: la nostra responsabilità per gli altri animali (gli animali non umani che condividono con noi il soffio della vita) passa attraverso una nuova coscienza del nostro alimentarci di loro. Il senso del mondo post-diluviano è dato, eticamente e socialmente, dai precetti noachidi, tra i quali spicca – unico dato a Noè – il nostro dovere di consumare cibo in modo etico, teologicamente orientato, davvero ‘umano’. Ahinoi, questa lezione basilare, che viene dalla sapienza biblica e talmudica, non è stata ancora capita. Il cristianesimo, che continua a guardare con sufficienza il discorso sui nostri doveri etici verso il mondo animale, ha contribuito non poco a che tale lezione non venisse ascoltata e quei testi compresi. Come se nel peccato originale fosse soltanto l’anima umana a essere stata posta in gioco e come se la kashrut fosse un retaggio di trogloditi. Sì, ha ragione rav Adin Steinsaltz: il Talmud sarà il dono dell’ebraismo al terzo millennio cristiano.

Massimo Giuliani, Università di Trento

(8 luglio 2021)