Il noce

Nel Levitico ci sono dettagliate spiegazioni sui sacrifici. Tutte le spiegazioni e le descrizioni che troviamo nel testo riguardano gli oggetti dell’offerta e le modalità come venivano presentati al Santuario, ma non si accenna mai a come si alimenta il fuoco per ardere i sacrifici, né l’approvvigionamento del combustibile, che doveva essere presente al Santuario in grande quantità, visto che di fatto il fuoco non veniva mai spento.
L’albero di noce cresce bene in Israele soprattutto nel nord del Paese dove, ad esempio nella valle di Izreel e in Galilea, si avvantaggia sia del clima relativamente fresco sia della fertilità del terreno. Benché diffuso sia nei tempi biblici che in quelli del Talmud, nel Tanach è citato una volta soltanto nel Cantico dei Cantici dove si parla di un “giardino di noci”.
Malgrado nel Tanach sia nominato solo una volta, nella letteratura rabbinica l’albero del noce è preso a simbolo del Popolo Ebraico e dalle interpretazioni allegoriche si possono trarre molte informazioni su svariati aspetti della sua coltivazione.
I suoi frutti erano molto apprezzati e la richiesta era elevata, al punto che per soddisfarla occorreva ricorrere anche all’importazione.
Il noce da frutto (Juglans regia L., 1753) è l’albero più conosciuto ed economicamente importante nel suo genere: è anche chiamato “noce comune”. Il frutto (seme) viene detto appunto noce. La particolarità è che mentre di altre drupe (ciliegia, albicocca, pesca) la parte edule è il mesocarpo (polpa) e l’endocarpo (seme) è poco o affatto commestibile, nel noce la parte edule è proprio il seme, mentre il mesocarpo contiene sostanze (tannini) che non sono commestibili ed hanno pochi impieghi (soprattutto di tipo industriale), ma non alimentare.
Reperti archeologici indicano che i frutti del noce venivano utilizzati come alimento già 9000 anni fa. Le prime testimonianze scritte, in occidente, risalgono a Columella e Plinio il Vecchio. Quest’ultimo nella sua Naturalis historia, testimonia l’importazione del noce in Europa dall’Asia Minore, da parte dei coloni greci tra il VII e il V secolo a. E.V.. Ma ci sono riscontri sulla presenza del noce già dal Terziario in Europa. A seguito delle glaciazioni alcuni esemplari sono riusciti ad arrivare fino al Mediterraneo. Dunque, l’area del noce nel Quaternario, dopo la fine delle glaciazioni, si estendeva dall’Asia centrale ai Balcani. Ancora oggi sono presenti boschi puri di noce in Kirgizistan.
ll noce è un albero vigoroso e caratterizzato da un tronco solido, alto, dritto e con un portamento maestoso e presenta radici robuste. Può raggiungere i 30 metri di altezza ed è molto longevo.
Fra le caratteristiche del legno di noce si ritrova la stabilità, ossia la capacità di questo legname di resistere alle deformazioni che possono intervenire dall’esterno. Ed è anche estremamente adattabile al taglio. Inoltre, il legno di noce ha una buona attitudine alle finiture, sia alla levigatura che alla verniciatura e, infine, anche alla lucidatura. Proprio la lucidatura viene anche avvantaggiata dalla sua capacità di non impregnarsi: le cere lucidanti, quindi, agiscono solo sulla superficie senza intaccare la parte interna del legno e renderla spugnosa e quindi meno resistente. Questo perché è molto compatto: per sua natura assorbe poca umidità e quindi è meno soggetto ad eventuali deformazioni nel corso del tempo. Per questo motivo, anche se si piega con molta difficoltà, è utilizzato per la realizzazione di mobili, soprattutto quelli che richiedono una particolare durabilità e per la realizzazione di pavimenti (parquet).
Nella Mishnà troviamo tutta una serie di interessanti norme sull’impiego del legno da opera che forniscono preziose e interessanti informazioni sulle piante arboree presenti in Israele e in Medio Oriente. A questo scopo occorre partire da una norma del Deuteronomio (20:20) che prescrive che perfino assediando una città nemica non si devono abbattere gli alberi “che portano frutti commestibili”. Questa definizione, anche se generale, di fatto, si riferisce quasi soltanto alla vite e al fico e all’olivo. E questa stessa norma (a maggior ragione) veniva applicata nell’approvvigionamento del combustibile del fuoco dell’altare. Nel Santuario il fuoco ardeva senza interruzione e da Nehemia, apprendiamo che le famiglie si contendevano l’onore di offrire il legno per il fuoco dell’altare: la scelta avveniva tirando a sorte chi fossero i prescelti. Si ritiene che proprio per la sua compattezza il legno di noce fosse ricercato quale combustibile per i sacrifici sull’altare. L’utilizzo di questo legno sembra non contraddire la norma del Deuteronomio (20:20) sopra citata perché la modesta dimensione dei suoi frutti rendevano l’albero pregiato più per il suo legno che per i suoi frutti.
Oggi in Israele l’albero è poco coltivato e i rari esemplari si trovano soprattutto nei giardini e nei frutteti arabi. L’aspetto interessante è che si tratta sempre di esemplari unici: alti, maestosi, tuttavia singoli, Abu Gosh, Eitanim e Motza sono alcuni tra i più noti. Visto il successo di questi esemplari, c’è da chiedersi perché l’agricoltura israeliana non abbia mai dimostrato interesse per questa coltura.
La risposta a questo interrogativo è economica. La pianificazione agricola israeliana è sempre stata molto attenta al risvolto economico delle colture che sceglieva, riservando la sua attenzione a due fattori: il consumo di acqua e il tempo per entrare in produzione.
In certe aree del Nord, come abbiamo visto, (valle d’Izreel e Galilea, nonché Alta Valle del Giordano e Golan), la piovosità naturale e le falde acquifere sono sufficienti a sostenere questa coltura, come riportato perfino da Giuseppe Flavio nella sua opera “la Guerra Giudaica”, ma i (lunghi) tempi economici e produttivi moderni ne hanno sconsigliato l’adozione. A differenza dell’ “antichità” (che si è protratta fino alla metà del ‘900), oggi non basta produrre, magari anche tanto, occorre anche produrre in fretta. Nelle generazioni precedenti ci si accontentava della produzione abbondante, oggi entra nel conto anche il tempo. Una volta il contadino sapeva aspettare, oggi l’agricoltore vuole la produzione immediata e così certe colture, anche se pregiate e possibili, non vengono intraprese. La fretta (o meglio la frenesia) che inquina la vita moderna ha contaminato anche l’agricoltura e le sue scelte.

Roberto Jona, agronomo

(8 luglio 2021)