PAGINE EBRAICHE - DONNE PROTAGONISTE / 1

Lottare per i diritti umani, nel segno dell'ebraismo

L’Agenzia italiana per la Cooperazione allo Sviluppo, in collaborazione con la Fondazione MAXXI – Museo Nazionale delle Arti del XXI Secolo, ha organizzato un’esposizione, inaugurata da un evento tenutosi al Maxxi di Roma, dedicata al ventennale di uno dei suoi progetti più importanti: CinemArena, il cinema itinerante che percorre le piste dei luoghi più remoti del mondo per portare la magia dello spettacolo cinematografico sotto le stelle e promuovere campagne di informazione su tematiche sociali e sanitarie di fondamentale importanza per la salute e la vita di tutti, soprattutto di chi non sa leggere, non vede la televisione, non ha accesso a internet e a nessun tipo di informazione.
L’Agenzia è una delle principali novità della legge di riforma della cooperazione (Legge n. 125/2014) e ha iniziato ad operare nel 2016 con l’ambizione di allineare l’Italia ai principali partner europei e internazionali nell’impegno per lo sviluppo. E per l’Italia, come si legge nel sito istituzionale dell’Aics, la cooperazione non è solo ‘parte integrante e qualificante della politica estera italiana’, ma un suo compimento, quasi una nuova e più moderna forma di politica estera. L’orizzonte della cooperazione è quello disegnato nella legge, ossia “sradicamento della povertà e riduzione delle disuguaglianze, promozione dei diritti umani e dell’eguaglianza di genere, sostegno alla democrazia liberale e alla costruzione dello stato di diritto.
Si tratta di un’agenda non ‘economica’ ma di promozione umana. Il tema del futuro è la distribuzione più equa della ricchezza, la garanzia dell’accesso al diritto alla salute e all’istruzione e la sostenibilità ambientale”.
A misurarsi e ad essere impegnate a tutto tondo su temi quali la riduzione delle disuguaglianze, la promozione dei diritti umani e dell’eguaglianza di genere anche tre donne ebree - Simonetta Di Cori, Carola Disegni e Laura Di Castro - che, grazie al loro percorso identitario, stanno riuscendo a dare il meglio di sé in una vicenda umana dal forte impatto sociale, quale quella che caratterizza il progetto. Per loro, raccontano, l’essere ebree significa anche impegno verso gli altri, i più deboli, gli stranieri, per far valere diritti e uguaglianza nei confronti di chi soffre.

(Nell'immagine in alto l'impegno sul campo in Gambia; a seguire gli interventi di Carola Disegni, Laura Di Castro e Simonetta Di Cori durante l'evento romano)

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PAGINE EBRAICHE - DONNE PROTAGONISTE / 2

Il secolo (instancabile) di Iris Apfel

Farà cent’anni a fine agosto, ma ha già iniziato a festeggiare. A modo suo, come ha sempre fatto. Iris Apfel, la fashion icon più longeva del pianeta, ha appena lanciato una nuova linea di occhiali per Zenni, gigante statunitense dell’ottica online. Cento montature, una per ogni anno di vita, grandi, colorate e spiritose come quelle che hanno fatto di lei uno dei volti più riconoscibili d’America.
Qualche mese prima aveva fatto il suo ingresso trionfale da Lowe’s, il colosso americano del fai da te. Il suo viso, incorniciato da una matassa di collane e dagli immancabili immensi occhiali, ammicca gigantesco a ogni corsia in duemila negozi annunciando la sua nuova collezione di articoli per la casa. Poltrone, vasi, cuscini e tavolini che tentano l’impresa impossibile di replicare il suo stile estroso – l’eccentricità, il gusto del variopinto e dell’eccesso. Estrosa è la stessa incursione di Apfel nel gran mare del gusto popolare, dopo una vita trascorsa nelle più rarefatte sfere della moda e del design. La Casa Bianca, per dirne una, dove ha curato gli interni per nove presidenti (solo Jacqueline Kennedy l’ha snobbata, preferendo uno stilista francese) o il Metropolitan Museum che nel 2005 al suo guardaroba personale ha dedicato una mostra dal trionfante titolo Rara Avis.
I segnali della svolta pop erano però nell’aria. Scavallati i novanta, con sovrana eleganza Iris si è accomodata nell’immaginario collettivo nel ruolo inedito di “divetta geriatrica” – la definizione è sua. Prima il delizioso documentario dedicatole dal quasi coetaneo Albert Maysles (2014, Netflix), poi la Barbie dedicatale da Mattel che ne ha fatto, a 96 anni, la signora più anziana a cui il tributo è
stato riservato. Un anno dopo, la firma con Img, l’agenzia che rappresenta supermodelle come Gigi Hadid e Gisele Bundchen. Adesso, gli occhiali e del mobilio. A breve, la sua biografia a misura di bambini nella celebre collana Little people big dreams e chissà che cosa porterà il futuro. In altre parole, un trionfo che sbugiarda ogni pregiudizio sull’età e soprattutto sull’età delle donne. Non che il mondo si sia rovesciato, non ancora. È che Iris gioca secondo le sue regole.

Daniela Gross - Pagine Ebraiche luglio 2021

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PAGINE EBRAICHE - DONNE PROTAGONISTE / 3

Ruth Westheimer, la dottoressa d'America

La vita sessuale non finisce a novant’anni. Parola di Ruth Westheimer, la minuscola spumeggiante signora che gli americani conoscono semplicemente come Dr. Ruth, dal nome del programma radiofonico “Ask Dr. Ruth” che ne ha fatto la terapista sessuale più famosa d’America, autrice di numerosi libri e ospite ricercatissima dei talk show. Novantatré anni compiuti da poco, ha alle spalle una vita così avventurosa che dopo essere stata oggetto nel 2019 di un documentario intitolato come la sua trasmissione, da poco diventata una piéce teatrale, Becoming Dr. Ruth. A ripercorrere i suoi passi, è impossibile non cedere all’ammirazione per una donna che malgrado tutto ha sempre scelto di guardare avanti. Sopravvive alla Shoah, dove perde i genitori, grazie a un kindertransport che dalla Germania a dieci anni l’ha portata in Svizzera. Giovanissima, emigra in Israele ed entra a far parte dell’Haganah dov’è ferita così gravemente che si teme perda l’uso delle gambe. Studia psicologia a Parigi e sociologia negli Stati Uniti, dove si trasferisce prima dei trent’anni. La sua carriera mediatica inizia negli anni Ottanta. Parlare di sesso in una società puritana non è facile, ma la sua energia, il suo senso dell’umorismo e il profondo rispetto nei confronti degli interlocutori ne fanno una beniamina del pubblico.

d.g

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PAGINE EBRAICHE - DONNE PROTAGONISTE / 4

Fran Lebowitz e l'arte della chutzpah

Da mezzo secolo è una delle voci più amate e odiate d’America. C’è però voluto l’amico Martin Scorsese a catapultare la settantenne Fran Lebowitz oltre i confini nazionali grazie a un documentario, Pretend it’s a city (Netflix), che la porta in scena nel suo ambiente naturale. L’adorata New York, la città che ha scelto a 19 anni e rifiuta di lasciare malgrado i turisti che ciondolano per strada, gli affitti troppo alti e la vita che non è più quella di una volta. Puntata dopo puntata, la vediamo in quella che ormai è la sua uniforme – occhiali tartaruga, camicia da uomo, Levi’s e stivali da cowboy – mentre si produce in una cascata di invettive, battute e sarcasmi che la restituiscono in tutta la sua intelligente perfidia. Per quanto suoni strano, è la sua specialità. Fran Lebowitz, di cui da poco è libreria La vita è qualcosa da fare quando non si riesce a dormire (Bompiani, 240 pp.), è affetta dal peggiore blocco dello scrittore di cui si abbia memoria.
Nipote di ebrei immigrati dalla Russia, appena arriva a New York per mantenersi fa un po’ di tutto – le pulizie, la tassista, l’autrice di racconti porno. Poi collabora con riviste prestigiose – Change, Interview dove Andy Warhol la assume per tenere una rubrica, Mademoiselle. È caustica, sardonica e i suoi articoli di critica culturale ne fanno una celebrità.
Pubblica due libri, Metropolitan Life (1978) e Social Studies (1981) che raccolgono i suoi pezzi. E lì si blocca. Non scrive un libro da quarant’anni, fatta eccezione per un racconto per bambini. Eppure non solo ci ride sopra ma ne ha fatto un lavoro. Anziché scrivere, Fran Lebowitz appare. Non è un’attrice, non è una conferenziera. Si limita a fare davanti a una platea ciò che un tempo faceva con la scrittura – commenta la vita, il mondo e soprattutto la sua adorata New York. Chi la ama, adora la sua conversazione pungente così ashkenazita-newyorkese. Chi la detesta, ne parla come di una privilegiata che sulla città di oggi e le sue dinamiche non ha più niente da dire. 

d.g

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PRESENTE ANCHE IL CAPO DELLO STATO HERZOG 

Gli Emirati inaugurano l'ambasciata in Israele:
"I nostri popoli hanno molto in comune"

Dopo l'apertura in giugno dell'ambasciata israeliana negli Emirati Arabi Uniti, è arrivato il turno dell'ambasciata emiratina in Israele ufficialmente inaugurata quest'oggi a Tel Aviv. Una giornata storica, che ha visto la presenza del presidente israeliano Isaac Herzog e dell'ambasciatore Mohamed Al Khaja. 
"Questa ambasciata non è solo un hub per i diplomatici, ma una base per continuare la nostra nuova partnership", le parole dell'ambasciatore Al Khaja. “Segna un nuovo paradigma per la pace e un modello per un nuovo approccio collaborativo per la risoluzione dei conflitti”.
Per Herzog veder sventolare la bandiera degli Emirati, appena un anno fa, "sarebbe sembrato un sogno inverosimile". Nulla però di più "naturale e normale", visti i molti punti in comune tra i due popoli. "Stiamo costruendo stati moderni con le sabbie del deserto e - ha detto durante la cerimonia - abbiamo reso possibile l'impossibile".

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GLOBAL FORUM CONTRO L'ANTISEMITISMO - L'ALLARME DI ISRAELE

"Ventennale Durban 2001, una conferenza di odio"

Per rendere più efficace la lotta all’antisemitismo due le richieste ai governi del neo presidente israeliano Isaac Herzog: l’adozione di misure repressive più stringenti, ma anche della definizione operativa dell’International Holocaust Remembrance Alliance. L’occasione di questo appello è stato il settimo Global Forum for Combating Antisemitism, organizzato dal ministero degli Esteri insieme a quello Diaspora.
“L’odio è diffuso anche da organizzazioni enormi che inclinano la bilancia contro gli ebrei e il loro diritto all’autodeterminazione con un proprio stato nazionale” ha affermato Herzog, puntando il dito con chi irresponsabilmente si muove in questo senso sia offline che online (come nel caso dei social network, richiamati nel suo intervento). A preoccupare anche il prossimo ventennale della Conferenza di Durban: un evento che, come già l’iniziativa del 2001, si annuncia “nel segno dell’odio” e di una velenosa retorica antisemita e antisionista che ha già portato alcuni Paesi ad annunciare in modo ufficiale la propria defezione (tra gli altri Usa, Inghilterra e Canada).
A fare gli onori di casa al Global Forum apertosi ieri sera il ministro degli Esteri Yair Lapid: “Per troppo tempo – le sue parole – siamo stati sulla difensiva. Per troppo tempo abbiamo pensato che raccontare chi sono gli ebrei avrebbe impedito agli antisemiti di odiarci ulteriormente. Il mio suggerimento è di cambiare paradigma: è il momento di spiegare la vera storia degli antisemiti; di dire al mondo contro cosa lottiamo”.

(Nell'immagine l'intervento del ministro Lapid)

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Ticketless - Studi secolari
L’intervento di Rav Somekh, Studi talmudici e studi secolari, è come sempre molto acuto e incisivo. Non resisto alla tentazione di formulare qualche domanda di chiarimento, indossando i panni del perplesso in cerca di una guida. Non entro nel merito della sentenza di cui ci viene svelata la reale portata, fuori del chiacchiericcio e della polemica spicciola. Parlo della tesi sostenuta e mi soffermo sul finale: «Chi sceglie la linea “esclusiva” deve sorvegliare affinché la sua Torah non si distanzi eccessivamente dal mondo reale, ma chi opta per la combinazione di Torah e scienza ha un’altra grossa responsabilità: deve sorvegliare affinché il difficile equilibrio che instaura non si alteri. L’ebraismo italiano ha apparentemente scelto questa via da almeno cinque secoli. Ma negli ultimi duecento anni quanti talmudisti abbiamo avuto nel “bel paese”, a fronte del gran numero di scienziati e letterati che abbiamo prodotto?».
Le cose a me sembra stiano in modo meno dilemmatico sia per i precedenti tre secoli, sia per gli ultimi due. Rav Somekh si riferisce soltanto al mondo della scienza o della letteratura. Una prospettiva, la sua, curiosamente positivistica (o estetica). Come se la scienza e la letteratura fossero i soli mondi “altri”! Non parla della filosofia, che con l’arte e con la religione dovrebbero essere, fino a prova contraria, le tre forme di vita spirituale su cui da due secoli a questa parte ragiona la storia del pensiero occidentale. La linea cosiddetta “esclusiva”, tanto esclusiva a me non sembra sia stata. Il confronto non va fatto con il mondo scientifico, dove sappiamo e Rav Somekh ci ricorda, sono esistiti sempre grandi Maestri che furono medici, ma con la storia del pensiero occidentale, greco-romano.
 
Alberto Cavaglion
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Periscopio - L'antisemitismo cristiano
Nel mio contributo dello scorso mercoledì 7 luglio, a proposito della questione del rapporto tra Dante e l’antisemitismo medievale, e della domanda se – in che senso, in che misura – il poeta possa essere personalmente considerato antisemita – alla quale ho già anticipato la mia risposta: non, non lo è stato -, avevo scritto che, per potere formulare un’opinione in merito, è necessario distinguere tra due forme di antisemitismo, che definisco “caldo” (o “attivo”) e “freddo” (o “passivo”).
Prima di spiegare tale distinzione, è appena il caso di ricordare un dato sul quale abbiamo avuto molte volte occasione di soffermarci, ossia la grande mutevolezza storica dell’antisemitismo.
 
Francesco Lucrezi
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