Periscopio
L’antisemitismo cristiano

Nel mio contributo dello scorso mercoledì 7 luglio, a proposito della questione del rapporto tra Dante e l’antisemitismo medievale, e della domanda se – in che senso, in che misura – il poeta possa essere personalmente considerato antisemita – alla quale ho già anticipato la mia risposta: non, non lo è stato -, avevo scritto che, per potere formulare un’opinione in merito, è necessario distinguere tra due forme di antisemitismo, che definisco “caldo” (o “attivo”) e “freddo” (o “passivo”).
Prima di spiegare tale distinzione, è appena il caso di ricordare un dato sul quale abbiamo avuto molte volte occasione di soffermarci, ossia la grande mutevolezza storica dell’antisemitismo, un fenomeno che si è dimostrato e si dimostra capace di attraversare i millenni, cambiando continuamente – anche in modo assoluto e radicale – le proprie sembianze e finte giustificazioni, conservando sempre un identico “nocciolo duro” (quello dell’odio, del pregiudizio e del disprezzo verso gli ebrei: il loro popolo, i loro simboli, la loro religione, la loro identità, la loro nazione…) impermeabile a qualsiasi evoluzione storica, ideologica e culturale. Per circa diciassette secoli, com’è noto, l’abito pressocché esclusivo dell’antigiudaismo è stato teologico: gli ebrei erano destinati a soffrire, per sempre, in quanto collettivamente ed eternamente responsabili di non avere riconosciuto il Messia e di averlo messo a morte. Con la crisi dell’Ancient Regime, la perdita di potere della Chiesa e l’avvento della modernità, abbiamo visto germinare, da questo immenso serbatoio di malevolenza, una serie di nuovi vestiti, spesso apparentemente alternativi e contraddittori gli uni rispetto agli altri, ma tutti a libera disposizione di chiunque cercasse qualche nuova buona ragione per odiare gli ebrei. E abbiamo visto così fiorire (spesso anche grazie all’impegno di raffinati pensatori, artisti e intellettuali vari) un multicolore ciarpame di argomentazioni pseudo-scientifiche, pseudo-economiche, pseudo-culturali e pseudo-politiche, in grado di porre gli ebrei nel mirino per il loro appartenere a una razza inferiore, oppure per essere troppo furbi e intelligenti; o per essere tutti avidi banchieri e usurai, o pericolosi sovversivi bolscevichi; per essere deboli e inermi innanzi ai nemici, oppure crudeli e spietati guerrieri; per avere rubato terra altrui, oppure per comportarsi male in una terra propria ecc. E si possono odiare gli ebrei, come ben sappiamo, anche dicendo di amarli moltissimo, oppure – come eloquentemente rivela il moderno antisionismo – senza mai neanche nominarli, ma semplicemente elogiando e ammirando chi li colpisce.
Sono cose già dette tante volte, su cui non è il caso di soffermarsi. Ma è bene tenere presente che si tratta sempre solo di abiti, di apparenze, nessuna delle quali vale a esprimere il ‘perché’ dell’antisemitismo, la cui natura resta opaca, oscura, insondabile, in quanto appartenente, come abbiamo avuto modo di dire in passato, a quella che si può chiamare la ‘psico-storia’ dell’umanità. Nessun abito viene mai buttato definitivamente, perché può sempre tornare utile in futuro, e spesso un abito apparentemente nuovo è, in realtà, antichissimo. Si dice, per esempio, che la teoria delle razze nascerebbe soltanto nell’Ottocento, ma ciò non è del tutto vero, perché, per esempio, durante i sette secoli della cd. “reconquista” della Spagna islamica, uno dei principali obiettivi della Santa Inquisizione era la tutela della “limpieza de sangre”: gli ebrei e i marrani venivano perseguitati non solo per la loro (vera o presunta) fede, ma per il loro sangue infetto, che inquinava e corrompeva la ‘limpidezza’ del sangue cristiano. Non si parlava di razze, ma il razzismo, evidentemente, già c’era.
Ma la domanda che si pone è questa: questo odio, questa ripugnanza, sono stati fatti propri allo stesso modo da tutti coloro che hanno vissuto nei tempi e nei luoghi in cui venivano dette e fatte queste cose? È evidente che la risposta, a tale domanda, deve essere negativa. Se ci fermiamo, per esempio, soltanto al terreno teologico, vediamo che la catechesi cristiana è stata costruita, tassello dopo tassello, da tanti pensatori, alcuni dei quali hanno certamente avuto un atteggiamento fortemente ostile nei confronti degli ebrei, promuovendo una sistematica criminalizzazione del popolo ‘deicida’ nel suo insieme: è l’antisemitismo “attivo” e “caldo” (in quanto appartenente alla sfera delle emozioni, dei sentimenti) di personaggi come Giovanni Crisostomo, Tertulliano, Ambrogio, Agostino, che tanto profondamente, e negativamente, hanno inciso sulla storia della Chiesa e della cristianità. Figure alle quali vanno affiancate quelle di predicatori (come Marcione e Origene), che, bollati come eretici, sono usciti dalla storia dell’ortodossia ecclesiastica, ma non certo da quella dell’antisemitismo cristiano (per non parlare di Martin Lutero, che, com’è noto, alla fine della sua vita fu invaso da un sacro furore antiebraico, che sarebbe stato di grande ispirazione per il nazismo).
La Chiesa, com’è noto, per sua natura, evolve, ma senza mai potere rinnegare le sue radici. Se esiste il processo di canonizzazione, non esiste il suo contrario, nessun santo è mai stato destituito dagli onori degli altari, né ciò potrà mai accadere, così come, ovviamente, nessuna frase dei Vangeli canonici (anche quelle dal tenore evidentemente antiebraico) potrà mai essere emendata (pur potendo invece, come continuamente accade, essere oggetto di nuova interpretazione). Le parole dei Padri della Chiesa antisemiti “attivi” (o “caldi”), così, non possono essere cancellate, ma non è detto che chiunque le conosca, le legga e le riferisca sia personalmente partecipe del sentimento di ostilità nutrito da chi le ha per primo pronunciate. Ci può essere, così (ed è stato, per secoli, un fenomeno diffusissimo), un antisemitismo “passivo” (“freddo”), consistente semplicemente nel ripetere espressioni entrate nella catechesi e nel linguaggio comune, senza alcun coinvolgimento emotivo: si può quindi pronunciare la frase secondo cui “gli ebrei hanno ucciso Gesù” senza, con ciò, odiarli, o desiderare che siano puniti, ma semplicemente in ossequio a un luogo comune, o a una verità di fede.
Dante, nel suo “cristianesimo integrale”, non avrebbe mai potuto condannare (o ‘destituire’) nessun santo della Chiesa di Roma. Ma non si mostra mai – mai – minimamente sedotto dalle espressioni di odio di Agostino e Ambrogio, che mostra di ignorare. E il suo principale punto di riferimento teologico, com’è noto, non furono loro, ma fu Tommaso d’Aquino, che non fu assolutamente antisemita.
Il fatto che il poeta scriva che “il buon Tito”, distruggendo Gerusalemme, sarebbe stato strumento di un piano divino (Par. VI. 92-93), dovrebbe quindi valere a iscrivere il poeta unicamente nel novero degli antisemiti “passivi” (o “freddi”)?
Secondo me, come cercherò di argomentare prossimamente, no. Neanche in quello.