Se non leggi correttamente questo messaggio, clicca qui              18 Novembre 2021 - 14 Kislev 5782
IL RACCONTO ISPIRATO DALL'ESPERIENZA IN KIBBUTZ 

Israele degli albori, una testimonianza d'autore
Il Quaderno di Voghera torna in libreria

Torna in libreria Quaderno d’Israele, l'appassionante testimonianza sul nascente Stato ebraico opera dello scrittore Giorgio Voghera. Un racconto frutto dell’esperienza personale di svariati anni trascorsi nel kibbutz che l’autore raggiunse dopo la promulgazione delle leggi razziste e un successivo periodo di internamento e sorveglianza coatta. Un’occasione, la riscoperta di queste pagine memorabili, per tornare a riflettere sul segno e lascito di un grande intellettuale del Novecento, i suoi ideali, le sue scelte di vita e prosa.
“Una sorta di dissipazione onesta contrassegna la prosa di Voghera, da cui emerge, nel Quaderno più che in ogni altro scritto, il leitmotiv della ‘compassione’, mai dell’odio o dell’egoismo particolaristico” sottolinea Alberto Cavaglion nell’introduzione alla nuova edizione del libro, pubblicata da Edizioni di Storia e Letteratura. “Una lezione di saggezza – aggiunge – che esporta nel fuoco del conflitto arabo-ebraico senza lasciarsi trasportare dalle ideologie, senza schierarsi per partito preso. La sua è una testimonianza del disincanto, equilibrata e armonica, un invito a guardare alle origini del conflitto senza pregiudizi”. A Quaderno d’Israele è stata dedicata una recente serata di approfondimento al Museo ebraico di Trieste.


Il problema che il caso Voghera pone al lettore di oggi consiste nel non risolto rapporto fra testimonianza e letteratura. Autorelegatosi in una sorta di esilio, Voghera, pur sentendo dentro di sé impellente la vocazione narrativa, si negò alla letteratura e virò senza pentirsi in direzione di una saggistica autobiografica: «Non ho abbastanza fantasia per inventare, appena per modificare un poco le circostanze». Era un maestro nel confondere le carte, nel sottovalutare le proprie virtù: «Credo sia una logica conseguenza di questo mio atteggiamento il fatto che per me l’importante è proprio avere qualcosa da dire; non la ricerca formale, non la bella pagina, lo squarcio poetico». Un impellente bisogno di raccontare scalpita in lui come il bue scalpita nella lingua di Teognide, secondo uno di quei paradossi presocratici che amava moltissimo. Il rabdomantico Bazlen è stato fra i primi a notare questa esuberanza narrativa non contenibile. Della prosa di Voghera parla come di un mare «che fa traboccare il calice». Dopo il Quaderno verrà poi un lungo saggio filosofico, Nostra Signora Morte (1983), e la ripresa di temi di vita ebraica in Palestina, in un secondo libro sulle origini di Israele e il rapporto con il mondo arabo, Carcere a Giaffa (1985). Trovato il modo di passare oltre le riflessioni sull’intellettuale maldestro che si costringe a pesanti lavori manuali in nome di ideali con cui non sempre riesce a identificarsi («oscillante», scrive ancora Cases, «tra il senso del dovere e dell’impegno collettivo e la spinta a piantar tutto»), il lettore avrà modo di osservare che se il protagonista del Segreto aveva qualche cosa di freddo, di impettito, il protagonista del Quaderno si distingue per l’autoironia, per la generosità con cui si concede al lettore: sia quando descrive il paesaggio desertico da bonificare con il sudore della fronte, sia quando racconta i suoi soavissimi rapporti con le donne, sia quando si fa cronista e riferisce aneddoti, profili ad alta precisione di orafo, sia quando con spirito dissacratorio demolisce luoghi comuni, leggende letterarie, triestine e non. Una sorta di dissipazione onesta contrassegna la prosa di Voghera, da cui emerge, nel Quaderno più che in ogni altro scritto, il leitmotiv della ‘compassione’, mai dell’odio o dell’egoismo particolaristico. Se mai spunta, qua e là, con maggiore insistenza nelle pagine su Svevo, un pizzico di invidia per la gloria letteraria che l’autore della Coscienza ottenne negli ultimi anni della vita, onorato da tutti nella famigerata A.M.R.I. Il tema della ‘compassione’ è la chiave interpretativa più corretta per comprendere il Quaderno e tutta quanta l’opera del Voghera autogestito, non quello che si fa ombra con la figura paterna. Nel Mondo come volontà e come rappresentazione, libro molto diffuso nella Trieste di Saba e di Svevo, Schopenhauer dice che l’amore puro è per essenza compassione. Il termine tedesco è mitleiden. Voghera traduce con «conoscenza della sofferenza altrui», Svevo aveva già adoperato questo vocabolo per descrivere l’amore coniugale di Zeno per Augusta. Il mitleiden, secondo Schopenhauer, è uno dei gradi superiori dell’umanità, dopo la giustizia e dopo la bontà. Voghera mescola questo concetto con la devozione amorosa che i chassidim nel mondo yiddish chiamano devekùt. Claudio Magris nella prefazione alla prima edizione del Quaderno osserva questa predilezione verso il mondo dell’ebraismo orientale. È uno sguardo ‘compassionevole’ quello con cui Voghera osserva la realtà del mondo circostante. Uno sguardo che lo tiene lontano dall’odio e dal rancore. Ogni volta che s’appresta a descrivere la nascita di un sentimento amoroso – l’innamoramento è sempre la prima scintilla di scrittura, lo è anche nel Quaderno per la figura di Havazzèlet – fa capolino la medesima parola: ‘compassione’. La storia di Jaffa, orfana bambina, la confessione di Ester felice di essersi sacrificata per amore. Sul triste esito della storia con Havazzèlet il Quaderno si chiude con la frase «il mondo è buono», che è l’adattamento ‘compassionevole’, riferito a una storia d’amore, della citazione biblica di Gen. 1,31, lo stesso versetto di cui si serve Primo Levi nell’ultimo capitolo di Se questo è un uomo. Anche gli incubi nel Quaderno sono compassionevoli, come si legge nella scena dell’aggressione: «Forse pensavano che era stato nel loro diritto, che avevano fatto bene a pestarmi, perché proprio li avevo tirati per i capelli; ma lo stesso avevano una certa compassione per me». Una lezione di saggezza, che Voghera esporta nel fuoco del conflitto arabo-ebraico senza lasciarsi trasportare dalle ideologie, senza schierarsi per partito preso. La sua è una testimonianza del disincanto, equilibrata e armonica, un invito a guardare alle origini del conflitto senza pregiudizi, com’è chiarito nell’articolo Perché ho pubblicato il ‘Quaderno d’Israele’, dove si riporta una frase resa più solenne dal fatto di essere messa in bocca al padre: «D’altro canto, se uno scrittore ha troppa paura di essere noioso e di non essere abbastanza originale, vuol dire che non dà abbastanza importanza a quello che dice e non gli preme veramente di dirlo: e allora è meglio che non scriva affatto».

Alberto Cavaglion

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LA NUOVA PROVA DEL GRANDE SCRITTORE ISRAELIANO

Abraham B. Yehoshua, l'ultimo romanzo
e quegli spunti per l'Italia ebraica 

Ho divorato in una notte l’ultimo romanzo di Abraham B. Yehoshua, La figlia unica: straordinario!
La prima impressione è stata quella di uno spreco per le oltre diecimila battute dedicate alla ricopiatura di due estratti del romanzo Cuore di Edmondo De Amicis, pubblicato la prima volta a Torino nel 1886 dalla casa editrice Treves di Milano. Poi ho capito che il messaggio era l’utilizzo didattico di questo testo obsoleto nella scuola media italiana del Duemila: uno dei pochi messaggi situazionisti in un romanzo dove la fantasia trascende la realtà.
La seconda protagonista è la professoressa Emilia Gironi. Fino al suo ultimo giorno di lavoro, prima della pensione come supplente di un insegnante in maternità, vuole riversare sui suoi studenti lo spirito candido e umanitario di Edmondo De Amicis. Non si riesce ad interpretare la città dove è ambientato, ad un’ora e mezza dall’Alto Adige e la medesima distanza da una cittadina di mare dove si raggiunge in motoscafo la villa utilizzata come location. Le maschere di carnevale fanno pensare a Venezia ma Venezia non è. Si potrebbe ipotizzare Verona, ma il posto di mare sembra più ligure che adriatico. La distanza però non torna, quindi la fantasia supera la realtà.
La cosa straordinaria è il coté ebraico che lo scrittore di 85 anni sembra conoscere meglio di qualsiasi romanziere italiano.
Il milieu della borghesia ebraica assimilata attraverso i matrimoni misti è dipinto in modo iperrealista, in contraddittorio con le tradizioni religiose, in funzione del Bat Mitzvah della protagonista Rachele che ha dodici anni. La ragazza viene affidata dalla famiglia ad un trentenne rabbino israeliano per imparare l’ebraico e le preghiere, conoscere le regole della casherut che è obbligata ad osservare, mentre genitori e nonni non la rispettano. Il risultato è che il rabbino rimane affascinato da questo mondo, che lui incarna nella ragazza che ha 20 anni meno di lui, ma rimane un personaggio secondario che svanisce nel nulla.
Le contraddizioni si susseguono, contornati dal personale di servizio i cui membri si sostituiscono l’un l’altro, provenienti da paesi diversi. L’unico punto fermo è l’autista italiano, usato da tutti i protagonisti ma non ascoltato da nessuno. Il cane da caccia e il pappagallo sono parte della famiglia e allo stesso tempo uno status symbol borghese.
Questo mondo si sta estinguendo, e solo la tragedia dell’operazione al cervello, di un appendice che per pudore non viene chiamata tumore, riesce a riunire la famiglia di divorziati, conviventi e amanti non chiamati per quello che sono. Come ha fatto un grande scrittore israeliano a capire in modo così analitico un mondo complesso come la borghesia ebraica assimilata, quando i dirigenti comunitari e i rabbini anziché cercare di capire si voltano dall’altra parte? Questa è la domanda da non eludere.
Mi piacerebbe sapere chi ha collaborato alla preparazione del romanzo perché non venga sprecato questo patrimonio di conoscenze. Raccomando ai protagonisti della vita ebraica italiana di leggerlo, perché provoca più suggestioni di una ricerca sociologica.

(Nell'immagine: Abraham B. Yehoshua ospite del Meis nel 2018 - Foto di Marco Caselli Nirmal)

Vittorio Ravà 

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SCHUTZ DAL PAPA PER LA PRESENTAZIONE DELLE CREDENZIALI

Vaticano, il nuovo ambasciatore d'Israele
domani mattina da Bergoglio

“Sono nato in Israele nel 1957, quando lo Stato aveva appena nove anni di vita. I miei genitori, profughi tedeschi, hanno raggiunto l’allora Palestina mandataria negli Anni Trenta. La consapevolezza di essere parte di questa storia e di dovermi battere per l’affermazione di diritti anche di base, compresa la sovranità nazionale, è quello che più mi definisce. Sono un israeliano abituato a non dare per scontata l’esistenza di questo Paese”.
Già ambasciatore d’Israele in Colombia, Spagna e Norvegia, nel corso di una recente intervista Raphael Schutz si raccontava in questi termini. Tra poche ore questo navigato diplomatico con oltre 30 anni di esperienza alle spalle sarà in Vaticano per la cerimonia di presentazione delle lettere credenziali a papa Bergoglio. L’atto solenne e formale del suo insediamento come nuovo ambasciatore d’Israele presso la Santa Sede.



Molte responsabilità, molte sfide nel suo orizzonte. “La più grande – il pensiero del suo predecessore Oren David nell’intervista di fine mandato con Pagine Ebraiche – rimane sempre quella di far capire le circostanze uniche in cui si trova Israele e le difficoltà che è costretto ad affrontare. È importante che la Chiesa continui a diffondere il messaggio della dichiarazione Nostra Aetate in tutti i paesi del mondo e a tutti i livelli”. Schutz si è trasferito a Roma ad inizio ottobre. Tra le sue prime apparizioni pubbliche la cerimonia in ricordo del piccolo Stefano Gaj Taché vittima dell'attentato palestinese al Tempio Maggiore del 9 ottobre 1982.

(Nelle immagini: l’ambasciatore Schutz durante la sua missione in Norvegia; in primo piano alla cerimonia in ricordo dell’attentato al Tempio Maggiore di Roma)

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CORDOGLIO NELL'ITALIA EBRAICA

Rav Joseph Pacifici (1928-2021)

L’Italia ebraica perde un grande Maestro: il rabbino Joseph Pacifici, scomparso in Israele all’età di 93 anni. Rabbino capo di Gibilterra dal 1956 al 1969, aveva conseguito l’ordinazione rabbinica a Londra, poco più che ventenne, dalle mani del rabbino Shemuel Yosef Rabinov. Aveva poi insegnato al Collegio rabbinico di Torino e, anche dopo aver compiuto l’Aliyah, non aveva mai reciso i legami col suo Paese d’origine. Fino all’ultimo ha continuato ad essere tra gli animatori della rivista Segulat Israel ispirata alla lezione e ai valori di suo padre Alfonso Pacifici, una delle figure più significative dell’ebraismo novecentesco.
“Pur lontano dall’Italia la sua figura restava un faro. Un esempio per tutti coloro che hanno a cuore la Tradizione e intendono difenderla piuttosto che vivere un ebraismo annacquato. Rav Pacifici incarna un ideale verso il quale gli ebrei italiani dovrebbero volgere se vogliono mantenere le proprie radici”, la testimonianza di rav Alberto Moshe Somekh. Il sodalizio è di lunga data e, sottolinea rav Somekh, “attraversa quasi l’intera storia di Segulat Israel: la mia collaborazione è iniziata infatti dal secondo numero”.
Commosso anche rav Luciano Caro, rabbino capo di Ferrara, che fu suo allievo sui banchi del Collegio torinese. “È stato lui – si emoziona – a schiudermi le porte del Talmud. Le sue lezioni non lasciavano mai indifferenti: sapeva affascinare e sempre si aveva l’impressione di far parte della discussione, di essere protagonisti diretti dei fatti che si andavano ad evocare. C’era in noi studenti, e ricordo tra gli altri rav Giuseppe Laras e rav Roberto Bonfil, una profonda ammirazione”.
A ricordarlo con particolare commozione la Comunità ebraica di Gibilterra, cui sempre è rimasto legato nel tempo e che ha deciso di onorarlo con un momento di preghiera e testimonianza in sua memoria. Sia il suo ricordo di benedizione.

(Nell’immagine: la commemorazione di rav Pacifici nella sinagoga di Gibilterra)

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LA GIORNATA DI STUDIO IN SAPIENZA PER MARIO TOSCANO

Identità nazionale ed ebraismo,
il complesso '900 italiano

Una giornata di studio per riflettere, da varie angolature, su “Identità nazionale ed ebraismo nell’Italia del Novecento”. È la strada scelta dal Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università Sapienza per festeggiare il pensionamento di Mario Toscano, docente della facoltà e tra i più importanti storici italiani in questo campo. Nato a Roma nel 1951, Toscano è autore tra gli altri di studi come La “Porta di Sion”. L’Italia e l’immigrazione clandestina ebraica in Palestina (1945-1948) ed Ebraismo e antisemitismo in Italia. Dal 1848 alla guerra dei sei giorni. Tra le molte opere curate invece ci sono L’abrogazione delle leggi razziali in Italia, Integrazione e identità, L’esperienza ebraica in Germania e Italia dall’Illuminismo al fascismo e L’Italia racconta Israele. 1948-2018 pubblicato nel 70esimo anniversario dalla fondazione dello Stato ebraico. 
Gratitudine per il suo lungo impegno è stata espressa da Tito Marci, il preside della facoltà, e a seguire dalla direttrice del dipartimento Maria Cristina Marchetti. Cinque le relazioni sul tema oggetto di indagine: Alberto Cavaglion ha esordito parlando di “Ebraismo e fascismo. La questione della nazionalizzazione parallela”; sono poi intervenuti Francesca Sofia (“Gli ebrei e l’integrazione: itinerari francesi”); Monica Miniati (“Donne ebree italiane: la lezione di un maestro”); Renato Moro (“La cultura politica laica”); Alessandra Tarquini (“La sinistra italiana e gli ebrei”).

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L'EVENTO IN PROGRAMMA A ROMA

KZ Lager, i giovani e la Memoria come impegno

Da Bergen-Belsen a Buchenwald, da Dachau ad Auschwitz-Birkenau. Sono 23 i campi di concentramento e sterminio visitati da Davide Romanin Jacur in oltre 50 Viaggi della Memoria che l’hanno visto accompagnare in quei luoghi migliaia di persone tra studenti, insegnanti, rappresentanti delle istituzioni.
Esperienze da cui l’autore, a lungo presidente della Comunità ebraica di Padova e attuale assessore al Bilancio UCEI, ha tratto un libro importante per chi ha a cuore la Memoria e il passaggio del suo testimone: KZ Lager (ed. Ronzani). Un libro “necessario e completo”, ha scritto Antonia Arslan. Merito anche della viva voce dei ragazzi che hanno partecipato a quei viaggi ed espongono, tra le sue pagine, pensieri e riflessioni.
Kz Lager sarà al centro di uno speciale evento in programma martedì 23 novembre alle 11 presso il Liceo Classico Statale Eugenio Montale di Roma (via Bravetta 545). Interverranno, assieme all’autore, la dirigente scolastica Sabrina Quaresima, Maria Vittoria Barbarulo, Andrea Bienati, Ugo Caffaz e Silvia Godelli. Modererà l’incontro Manuele Gianfrancesco. Sarà possibile partecipare in presenza, prenotandosi entro il 21 novembre all’indirizzo di posta elettronica prenotazioni@ucei. L’evento potrà essere seguito anche in streaming sul profilo Facebook o sulla webtv UCEI.

Clicca qui per scaricare lo speciale di Pagine Ebraiche sul libro. 

Rappresentanza
Un augurio al Consiglio UCEI eletto di buon lavoro.
Spero, in questo senso mi appello, che si voglia finalmente rimediare all’enorme forzatura che comporta, di fatto, l’umiliazione in Statuto di otto Comunità, tra la pattuglia delle cosiddette “piccole”. Mi riferisco all’art. 41,1,C nel quale si legge: “Diciannove eletti dagli iscritti alle altre Comunità, tra gli iscritti alle rispettive Comunità, in ragione di un rappresentante per ciascuna Comunità, che esprimono in totale non più di 15 voti. A tal fine, i rappresentanti di ciascuna delle quattro coppie di Comunità indicate nell’allegato B esprimono un unico voto per ciascuna coppia, per un totale di 4 voti, sulla base di accordi tra loro o, in caso di mancato accordo, sulla base di quanto disposto dal Regolamento interno dell’Unione". 
In soldoni, otto Comunità hanno mezzo voto ciascuna oppure, se preferite, un voto da spartirsi in due.
Trovo francamente, non da oggi, assurda questa previsione sorta per mantenere invariato il rapporto di forze intercorrente tra i poli delle due “grandi”, Roma e Milano, e le altre, vigente quando si eleggevano i delegati al Congresso, poi sostituito dal Consiglio.
Gadi Polacco
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