Israele, una testimonianza d’autore
Voghera torna nelle librerie

Torna in libreria Quaderno d’Israele, l’appassionante testimonianza sul nascente Stato ebraico opera dello scrittore Giorgio Voghera. Un racconto frutto dell’esperienza personale di svariati anni trascorsi nel kibbutz che l’autore raggiunse dopo la promulgazione delle leggi razziste e un successivo periodo di internamento e sorveglianza coatta. Un’occasione, la riscoperta di queste pagine memorabili, per tornare a riflettere sul segno e lascito di un grande intellettuale del Novecento, i suoi ideali, le sue scelte di vita e prosa.
“Una sorta di dissipazione onesta contrassegna la prosa di Voghera, da cui emerge, nel Quaderno più che in ogni altro scritto, il leitmotiv della ‘compassione’, mai dell’odio o dell’egoismo particolaristico” sottolinea Alberto Cavaglion nell’introduzione alla nuova edizione del libro, pubblicata da Edizioni di Storia e Letteratura. “Una lezione di saggezza – aggiunge – che esporta nel fuoco del conflitto arabo-ebraico senza lasciarsi trasportare dalle ideologie, senza schierarsi per partito preso. La sua è una testimonianza del disincanto, equilibrata e armonica, un invito a guardare alle origini del conflitto senza pregiudizi”.
A Quaderno d’Israele è stata dedicata una recente serata di approfondimento al Museo ebraico di Trieste.

Il problema che il caso Voghera pone al lettore di oggi consiste nel non risolto rapporto fra testimonianza e letteratura. Autorelegatosi in una sorta di esilio, Voghera, pur sentendo dentro di sé impellente la vocazione narrativa, si negò alla letteratura e virò senza pentirsi in direzione di una saggistica autobiografica: «Non ho abbastanza fantasia per inventare, appena per modificare un poco le circostanze». Era un maestro nel confondere le carte, nel sottovalutare le proprie virtù: «Credo sia una logica conseguenza di questo mio atteggiamento il fatto che per me l’importante è proprio avere qualcosa da dire; non la ricerca formale, non la bella pagina, lo squarcio poetico». Un impellente bisogno di raccontare scalpita in lui come il bue scalpita nella lingua di Teognide, secondo uno di quei paradossi presocratici che amava moltissimo. Il rabdomantico Bazlen è stato fra i primi a notare questa esuberanza narrativa non contenibile. Della prosa di Voghera parla come di un mare «che fa traboccare il calice». Dopo il Quaderno verrà poi un lungo saggio filosofico Nostra Signora Morte (1983) e la ripresa di temi di vita ebraica in Palestina, in un secondo libro sulle origini di Israele e il rapporto con il mondo arabo, Carcere a Giaffa (1985). Trovato il modo di passare oltre le riflessioni sull’intellettuale maldestro che si costringe a pesanti lavori manuali in nome di ideali con cui non sempre riesce a identificarsi («oscillante», scrive ancora Cases, «tra il senso del dovere e dell’impegno collettivo e la spinta a piantar tutto»), il lettore avrà modo di osservare che se il protagonista del Segreto aveva qualche cosa di freddo, di impettito, il protagonista del Quaderno si distingue per l’autoironia, per la generosità con cui si concede al lettore: sia quando descrive il paesaggio desertico da bonificare con il sudore della fronte, sia quando racconta i suoi soavissimi rapporti con le donne, sia quando si fa cronista e riferisce aneddoti, profili ad alta precisione di orafo, sia quando con spirito dissacratorio demolisce luoghi comuni, leggende letterarie, triestine e non. Una sorta di dissipazione onesta contrassegna la prosa di Voghera, da cui emerge, nel Quaderno più che in ogni altro scritto, il leitmotiv della ‘compassione’, mai dell’odio o dell’egoismo particolaristico. Se mai spunta, qua e là, con maggiore insistenza nelle pagine su Svevo, un pizzico di invidia per la gloria letteraria che l’autore della Coscienza ottenne negli ultimi anni della vita, onorato da tutti nella famigerata A.M.R.I. Il tema della ‘compassione’ è la chiave interpretativa più corretta per comprendere il Quaderno e tutta quanta l’opera del Voghera autogestito, non quello che si fa ombra con la figura paterna. Nel Mondo come volontà e come rappresentazione, libro molto diffuso nella Trieste di Saba e di Svevo, Schopenhauer dice che l’amore puro è per essenza compassione. Il termine tedesco è mitleiden. Voghera traduce con «conoscenza della sofferenza altrui», Svevo aveva già adoperato questo vocabolo per descrivere l’amore coniugale di Zeno per Augusta. Il mitleiden, secondo Schopenhauer, è uno dei gradi superiori dell’umanità, dopo la giustizia e dopo la bontà. Voghera mescola questo concetto con la devozione amorosa che i chassidim nel mondo yiddish chiamano devekùt. Claudio Magris nella prefazione alla prima edizione del Quaderno osserva questa predilezione verso il mondo dell’ebraismo orientale. È uno sguardo ‘compassionevole’ quello con cui Voghera osserva la realtà del mondo circostante. Uno sguardo che lo tiene lontano dall’odio e dal rancore. Ogni volta che s’appresta a descrivere la nascita di un sentimento amoroso – l’innamoramento è sempre la prima scintilla di scrittura, lo è anche nel Quaderno per la figura di Havazzèlet – fa capolino la medesima parola: ‘compassione’. La storia di Jaffa, orfana bambina, la confessione di Ester felice di essersi sacrificata per amore. Sul triste esito della storia con Havazzèlet il Quaderno si chiude con la frase «il mondo è buono», che è l’adattamento ‘compassionevole’, riferito a una storia d’amore, della citazione biblica di Gen. 1,31, lo stesso versetto di cui si serve Primo Levi nell’ultimo capitolo di Se questo è un uomo. Anche gli incubi nel Quaderno sono compassionevoli, come si legge nella scena dell’aggressione: «Forse pensavano che era stato nel loro diritto, che avevano fatto bene a pestarmi, perché proprio li avevo tirati per i capelli; ma lo stesso avevano una certa compassione per me». Una lezione di saggezza, che Voghera esporta nel fuoco del conflitto arabo-ebraico senza lasciarsi trasportare dalle ideologie, senza schierarsi per partito preso. La sua è una testimonianza del disincanto, equilibrata e armonica, un invito a guardare alle origini del conflitto senza pregiudizi, com’è chiarito nell’articolo Perché ho pubblicato il ‘Quaderno d’Israele’, dove si riporta una frase resa più solenne dal fatto di essere messa in bocca al padre: «D’altro canto, se uno scrittore ha troppa paura di essere noioso e di non essere abbastanza originale, vuol dire che non dà abbastanza importanza a quello che dice e non gli preme veramente di dirlo: e allora è meglio che non scriva affatto».

Alberto Cavaglion – Dall’introduzione a “Quaderno d’Israele”

(18 novembre 2021)