Abraham B. Yehoshua,
l’ultimo romanzo
e quegli spunti per l’Italia ebraica

Ho divorato in una notte l’ultimo romanzo di Abraham B. Yehoshua, La Figlia unica: straordinario!
La prima impressione è stata quella di uno spreco per le oltre diecimila battute dedicate alla ricopiatura di due estratti del romanzo Cuore di Edmondo De Amicis, pubblicato la prima volta a Torino nel 1886 dalla casa editrice Treves di Milano. Poi ho capito che il messaggio era l’utilizzo didattico di questo testo obsoleto nella scuola media italiana del Duemila: uno dei pochi messaggi situazionisti in un romanzo dove la fantasia trascende la realtà.
La seconda protagonista è la professoressa Emilia Gironi. Fino al suo ultimo giorno di lavoro, prima della pensione come supplente di un insegnante in maternità, vuole riversare sui suoi studenti lo spirito candido e umanitario di Edmondo De Amicis. Non si riesce ad interpretare la città dove è ambientato, ad un’ora e mezza dall’Alto Adige e la medesima distanza da una cittadina di mare dove si raggiunge in motoscafo la villa utilizzata come location. Le maschere di carnevale fanno pensare a Venezia ma Venezia non è. Si potrebbe ipotizzare Verona, ma il posto di mare sembra più ligure che adriatico. La distanza però non torna, quindi la fantasia supera la realtà.
La cosa straordinaria è il coté ebraico che lo scrittore di 85 anni sembra conoscere meglio di qualsiasi romanziere italiano.
Il milieu della borghesia ebraica assimilata attraverso i matrimoni misti è dipinto in modo iperrealista, in contraddittorio con le tradizioni religiose, in funzione del Bat Mitzvah della protagonista Rachele che ha dodici anni. La ragazza viene affidata dalla famiglia ad un trentenne rabbino israeliano per imparare l’ebraico e le preghiere, conoscere le regole della casherut che è obbligata ad osservare, mentre genitori e nonni non la rispettano. Il risultato è che il rabbino rimane affascinato da questo mondo, che lui incarna nella ragazza che ha 20 anni meno di lui, ma rimane un personaggio secondario che svanisce nel nulla.
Le contraddizioni si susseguono, contornati dal personale di servizio i cui membri si sostituiscono l’un l’altro, provenienti da paesi diversi. L’unico punto fermo è l’autista italiano, usato da tutti i protagonisti ma non ascoltato da nessuno. Il cane da caccia e il pappagallo sono parte della famiglia e allo stesso tempo uno status symbol borghese.
Questo mondo si sta estinguendo, e solo la tragedia dell’operazione al cervello, di un appendice che per pudore non viene chiamata tumore, riesce a riunire la famiglia di divorziati, conviventi e amanti non chiamati per quello che sono. Come ha fatto un grande scrittore israeliano a capire in modo così analitico un mondo complesso come la borghesia ebraica assimilata, quando i dirigenti comunitari e i rabbini anziché cercare di capire si voltano dall’altra parte? Questa è la domanda da non eludere.
Mi piacerebbe sapere chi ha collaborato alla preparazione del romanzo perché non venga sprecato questo patrimonio di conoscenze. Raccomando ai protagonisti della vita ebraica italiana di leggerlo, perché provoca più suggestioni di una ricerca sociologica.

Vittorio Ravà

(Nell’immagine: Abraham B. Yehoshua ospite del Meis nel 2018 – Foto di Marco Caselli Nirmal)

(18 novembre 2021)