Se non leggi correttamente questo messaggio, clicca qui     8 Aprile 2022 - 7 Nissan 5782
LE VITTIME DELL'ATTACCO TERRORISTICO PALESTINESE A TEL AVIV

Eytam e Tomer, vite spezzate dall’odio

Tomer Morad e Eytam Magini stavano aspettando altri amici al bar Ilka, nel pieno centro di Tel Aviv. Erano arrivati per primi e tenevano il tavolo per tutti. Attorno a loro, tanti giovani e i locali pieni. Una serata come tante da passare in compagnia. “Stavano aspettando che tutti arrivassero in quel dannato bar. – la testimonianza di un amico, Alon Grossman – Abbiamo saputo dell’attacco e non hanno risposto. Abbiamo provato in tutti i modi possibili a contattarli e non hanno risposto. Speravamo che non fosse questa cosa terribile”. I due amici di infanzia – stessa età, 27 anni – erano lì fuori dal bar quando un terrorista palestinese ha aperto il fuoco contro di loro, uccidendoli. “Il loro unico peccato era quello di voler passare una normale serata fuori”, ha commentato il presidente d’Israele Isaac Herzog, inviando il proprio cordoglio alla famiglia dei due ragazzi. Ultime vittime di un’ondata di attacchi terroristici che sta portando lutto e dolore nell’intero paese. In poche settimane, tredici vite sono state spezzate dal terrorismo. A Tel Aviv a premere il grilletto è stato un palestinese di Jenin, Ra’ad Hazem, che dopo aver ucciso Tomer e Eytam e aver ferito altre dieci persone è scappato. Dopo otto ore di caccia all’uomo, le forze di sicurezza, dispiegate in tutta la città, lo hanno trovato a Yafo e nello scontro a fuoco è stato ucciso.
“Sappiamo che si trattava di un terrorista di 29 anni, di Jenin, non affiliato a un gruppo terroristico, ma qualcuno lo ha aiutato a organizzare e ottenere le armi”, ha dichiarato il Primo ministro Naftali Bennett. “Ogni assassino sa che lo troveremo, chiunque aiuti un terrorista deve sapere che pagherà un prezzo pesante per questo”, ha aggiunto il Premier. “Abbiamo visto le celebrazioni a Jenin e Gaza, ecco con chi abbiamo a che fare”. Il capo del governo di Gerusalemme, in una situazione politicamente complicata, si è anche rivolto alla stampa. “Non seminate panico inutile nel pubblico, questo non è un reality show, ma la nostra vita”, le sue parole, in riferimento a come le telecamere hanno seguito le forze di sicurezza nella loro azione per catturare il terrorista.

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HASSEN CHALGHOUMI A PAGINE EBRAICHE

“Mi chiamano l’imam degli ebrei:
credono di offendermi, ma è un onore”

La fuga da un’aggressione che si sospetta di matrice antisemita, poi interrotta dal passaggio di un tram che finirà per travolgere e annientare chi la sta mettendo in atto. Una morte terribile quella di Jeremy Cohen, giovane ebreo parigino la cui vita spezzata ha lacerato non soltanto i suoi parenti e le istituzioni ebraiche ma ha finito anche per diventare un tema della campagna elettorale che va concludendosi proprio in queste ore. Domenica la Francia andrà al voto e tutti i principali candidati, a partire dal Presidente uscente Emmanuel Macron, hanno fatto sentire la loro voce (qualcuno in modo strumentale). Tra quanti hanno manifestato solidarietà e chiesto di andare a fondo c’è un religioso islamico che da anni conduce una battaglia senza sosta contro il radicalismo che attecchisce nella sua comunità di fede con risultati devastanti: Hassen Chalghoumi, imam di Drancy e presidente della conferenza degli imam di Francia. “È essenziale che sia fatta luce. Diciamo no all’odio, diciamo no all’antisemitismo”, l’appello di questo coraggioso imam che paga la sua scelta di “schierarsi” sempre e comunque con una esistenza sotto scorta. Senza, la sua incolumità fisica sarebbe in pericolo. “Libérons l’islam de l’islamisme” (Hugo Doc), il suo nuovo libro, suona come un campanello d’allarme che non si può non ascoltare. Un invito alla consapevolezza che è anche un invito ad agire per far sì che un altro Islam prenda il sopravvento rispetto a quello avvelenato dal fanatismo che, in Francia ma non solo, distrugge, brutalizza, uccide. Un Islam, sottolinea a Pagine Ebraiche l’imam, “repubblicano, amico della libertà, impegnato per la pace, in armonia con tutti i popoli”.

Imam Chalghoumi, appena pochi giorni fa lei ha partecipato alle iniziative organizzate a Tolosa nel decennale dell’attacco alla scuola ebraica. Cosa ha significato esserci, portare anche in quel contesto il suo messaggio?
Una scelta di coerenza, in continuità con quello che sto cercando di fare da vari anni. Per combattere davvero l’odio la mia convinzione è che non dobbiamo mai stancarci di esprimere il nostro più totale rifiuto di esso. Per farlo bisogna non solo parlare ma anche andare fisicamente nei luoghi, confrontarsi di persona, dire la verità. Serve del coraggio per affermarla, lo so bene, ma non c’è altra lettura rispetto a quella che segue: ciò che è avvenuto a Tolosa e purtroppo anche in molte altre città nei dieci anni che ci separano da quella strage è stato compiuto e rivendicato nel nome di un islamismo malato da rifiutare con la massima fermezza. Riconoscere il problema è il necessario punto di partenza per correggere questa stortura nel pensiero, questa indebita appropriazione di valori religiosi.

L’Islam francese ne è ancora contaminato?
Purtroppo sì, c’è un antisemitismo profondo che nasce da un odio viscerale nei confronti di Israele e che ha radici soprattutto nelle nuove generazioni. È un odio che pulsa, alimentato anche dall’effetto di velocizzazione portato da internet e dalle nuove tecnologie. Idee distorte, purtroppo, circolano in modo sempre più incontrollato. Sono le stesse che hanno ispirato l’attacco di Tolosa ma anche, per fare altri esempi, l’attentato contro Charlie Hebdo o l’assassinio di Samuel Paty.

Lei stesso è una delle prime vittime dell’odio. Nel libro racconta di un gruppo di invasati adepti dello sceicco Yassin, il fondatore del gruppo terroristico Hamas, che l’hanno minacciata più volte. Arrivando a mettere a repentaglio anche l’esistenza dei suoi cari.
Non è semplice questa mia vita sotto controllo h24, con la necessità di cambiare spesso anche alloggio, ma è il frutto di una scelta di cui vado fiero e dalla quale non ho intenzione di recedere. Mi danno forza le persone che ho accanto e in particolare il sostegno di mia moglie. “Prosegui la tua battaglia” mi ha detto un giorno, dopo che la nostra casa era stata violata. Ovviamente non si sono fermati lì.

Lei indica da tempo una strada. Tralasciando per un attimo le minacce degli estremisti, vede qualche seme germogliare?
Sì, è così, esiste un generale risveglio delle coscienze. Anche dentro l’Islam francese. Sono infatti testimone del fatto che un numero crescente di imam sta uscendo allo scoperto per esplicitare il proprio diniego del fondamentalismo e testimoniare una visione differente. Segnali importanti e in parte nuovi, almeno su un piano pubblico. Si inizia a reagire e questo è confortante.

C’è qualcosa di cui si sente particolarmente orgoglioso in questi suoi anni di impegno?
Del contributo dato al raggiungimento di quello che reputo un traguardo straordinario, l’inizio di una nuova era nei rapporti tra Israele e il mondo arabo. Sto parlando, naturalmente, degli Accordi di Abramo. È stato entusiasmante partecipare alla loro preparazione, soprattutto accompagnare personalmente varie delegazioni sia ebraiche che israeliane negli Emirati e in Bahrein.

Impossibile non chiederle, a questo punto, della deriva terroristica in atto contro Israele.
È evidente che c’è chi non vuole la pace e fa di tutto per destabilizzare la situazione. Ci sono grandi responsabilità, in quel che sta accadendo, in una parte del mondo arabo e della leadership palestinese. Purtroppo niente di nuovo e fin quando questo approccio deleterio non cambierà sarà difficile venirne a capo. È uno schema classico ahimè: si colpisce in un certo momento e in un certo modo, facendo sì che una reazione anche di tipo repressivo sia inevitabile. L’obiettivo è avere dei morti da piangere e “usare” al momento giusto, ad esempio il nostro sacro mese del Ramadan.

Cosa prova quando qualcuno, evidentemente in tono dispregiativo, la chiama “l’imam degli ebrei francesi”?
Per chi si esprime in questi termini tale locuzione rappresenta qualcosa di orrendo e inaudito. Non a caso, a pronunciarla, sono spesso dei fanatici antisemiti. Ma quella che per loro è un’offesa per me è, al contrario, una medaglia da appuntare al petto. Ritengo infatti un onore che mi si consideri “l’imam” dei miei amici ebrei e, assieme a loro, di qualunque altra persona nel mondo creda nella pace, nella tolleranza, nel rispetto dei valori umani.

Adam Smulevich twitter @asmulevichmoked

(Nell’immagine: l’imam Chalghoumi insieme al Presidente israeliano Isaac Herzog a Tolosa per i dieci anni dall’attacco alla scuola ebraica Ozar HaTorah; in mezzo a loro Marek Halter)

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SORGENTE DI VITA 

In fuga da Kharkiv

Si apre con la storia di una delle famiglie di ebrei ucraini accolte a Roma, la puntata di Sorgente di vita in onda su Rai Due domenica 10 aprile.
Serhii, Viktoria e i loro tre figli sono stati accolti a Roma grazie all’impegno dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, della Comunità Ebraica capitolina e del centro “Il Pitigliani”. Un supporto che l’ebraismo italiano ha messo in atto nei confronti di numerose famiglie ucraine, giunte in Italia e ospitate in alcune strutture delle Comunità e degli Enti ebraici.
Viktoria, Serhii e i loro tre figli sono riusciti a fuggire da Kharkiv, una delle città più colpite dal conflitto (nell'immagine, la loro casa bombardata dai russi). Con il sostegno dell’Agenzia Ebraica, hanno raggiunto prima Bucarest e poi Roma. 

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Alpini
Personalmente sono cresciuto con il mito degli alpini, un po’ come tutti i veneti. I loro canti, i racconti della grande guerra, e poi lo spirito di corpo dimostrato in molte occasioni, ben prima della nascita della protezione civile. Ricordo il terremoto in Friuli del 1976 e la grande efficienza e generosità dei volontari alpini che misero in sicurezza la popolazione civile. Naturalmente fa parte del mito degli alpini anche la tragica spedizione di Russia del 1942-43 (decine di migliaia di morti), e ancor prima il disastro militare sui monti di Grecia e Albania, episodi raccontati con grande passione umana da straordinari scrittori che furono protagonisti di quelle vicende. 
Gadi Luzzatto Voghera
Gesti di coraggio
Questo è l'ultimo Shabbat prima della festa di Pesach che è considerata l'inizio della nostra storia, ed è conosciuto come "Shabbat ha gadol". Il motivo dell'appellativo "ha gadol" lo si ritrova nel "grande" gesto di coraggio che gli ebrei, nonostante la schiavitù che voleva togliere loro la dignità oltre che umana anche ebraica, riuscirono a compiere davanti agli egizi.
Rav Alberto Sermoneta
La democrazia incolore
La democrazia non ha colori, non ha simboli, non ha bandiere sotto cui sfilare. Occasionalmente può prendere in prestito i colori di uno stato, di un partito, di un sindacato, ma solo in contesti specifici e per periodi limitati. In sé è incolore: quando non manca non infiamma i cuori più di tanto; infatti è raro che nei paesi democratici si scenda in piazza per la democrazia. 
Anna Segre
Silenzio e coerenza
Durante il programma “l’aria che tira” su La7, il sindacalista e leader di Potere al Popolo Giorgio Cremaschi in merito alla strage di Bucha risponde evasivamente che “sono i giudici terzi a stabilire i colpevoli durante un conflitto, e poiché la prima vittima della guerra è la verità, non si può credere preventivamente a nessuna delle opposte propagande di guerra”. 
Francesco Moises Bassano
Pagine Ebraiche 24, l'Unione Informa e Bokertov sono pubblicazioni edite dall'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. L'UCEI sviluppa mezzi di comunicazione che incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili. Le testate giornalistiche non sono il luogo idoneo per la definizione della Legge ebraica, ma costituiscono uno strumento di conoscenza di diverse problematiche e di diverse sensibilità. L’Assemblea dei rabbini italiani e i suoi singoli componenti sono gli unici titolati a esprimere risoluzioni normative ufficialmente riconosciute. Gli utenti che fossero interessati a offrire un proprio contributo possono rivolgersi all'indirizzo comunicazione@ucei.it Avete ricevuto questo messaggio perché avete trasmesso a Ucei l'autorizzazione a comunicare con voi. Se non desiderate ricevere ulteriori comunicazioni o se volete comunicare un nuovo indirizzo e-mail, scrivete a: comunicazione@ucei.it indicando nell'oggetto del messaggio "cancella" o "modifica". © UCEI - Tutti i diritti riservati - I testi possono essere riprodotti solo dopo aver ottenuto l'autorizzazione scritta della Direzione. l'Unione informa - notiziario quotidiano dell'ebraismo italiano - Reg. Tribunale di Roma 199/2009 - direttore responsabile: Guido Vitale.

IL RICORDO DELL'ECCIDIO DELLE FOSSE ARDEATINE

24 marzo 1944, Roma non dimentica

Quello del Capo dello Stato Sergio Mattarella con le Fosse Ardeatine è un legame profondo. Qui scelse di recarsi nel suo primo atto da Presidente della Repubblica, il 31 gennaio del 2015. La prima di una serie di visite tra cui, particolarmente significativa, quella del 2017 insieme al suo omologo tedesco Frank-Walter Steinmeier. Questo pomeriggio, come ogni 24 marzo, nell’anniversario dell’eccidio, percorrerà e sosterà in quei luoghi di morte ma anche di necessario impegno, per chi è venuto dopo, affinché simili orrori non si ripetono.
La giornata commemorativa si è aperta stamane davanti al Tempio Maggiore di Roma, con un momento di raccoglimento e con la deposizione delle corone insieme alla Regione Lazio e all’amministrazione capitolina. Tra i partecipanti il presidente della Regione Nicola Zingaretti, la presidente della Comunità ebraica di Roma Ruth Dureghello, il rabbino capo rav Riccardo Di Segni, il consigliere UCEI Davide Jona Falco.
Un anniversario, ha evidenziato la Comunità ebraica, “che ancora oggi ci impone una riflessione morale sui principi di libertà collettivi e individuali su cui si basa la nostra democrazia”.

DALL'ACCOGLIENZA ALLE RACCOLTE DI BENI PER I PROFUGHI

Dalla parte dell'Ucraina, l'impegno dell'Italia ebraica 

“Chi può apra le porte per dare accoglienza o per aiutare le persone in arrivo. Sarà sempre più importante coordinare i nostri sforzi”. Il mondo ebraico italiano in queste settimane si è mobilitato per dare il proprio contributo nell’aiutare la popolazione ucraina. Come raccontato su queste pagine, diverse realtà ebraiche si sono impegnate nel dare accoglienza o raccogliere i beni di prima necessità per aiutare i profughi del conflitto scatenato in Ucraina dalla Russia ormai un mese fa.
“C’è grande desiderio e impegno a fare, sarà importante però creare una rete tra le Comunità per collaborare, evitando così il rischio di disperdere energie e creare confusione”, spiega il vicepresidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Milo Hasbani, referente per le iniziative di accoglienza per UCEI e Comunità ebraica di Milano. “In queste settimane il lavoro è stato intenso. A Milano abbiamo trovato una sistemazione a una famiglia di cinque persone, accolta poco fuori città. Sono andato insieme a loro a presentare la famiglia ospitante, che ha dato un benvenuto veramente caloroso. Ha fatto dei doni ai ragazzi e cercato di mettere il più possibile a proprio agio queste persone che si portano dietro un carico emotivo veramente pesante. Avevano una vita in Ucraina, sono professionisti che lì avevano un lavoro, vogliono tornare appena possibile a casa loro”. Un sentimento, il desiderio di tornare in Ucraina, condiviso dalle altre persone incontrate fino a qui, aggiunge Hasbani. “Abbiamo trovato una sistemazione a una ragazza di 29 anni. La madre è andata in Israele, ma lei vorrebbe tornare in Ucraina”. Diverse persone della Comunità assieme a Lela Sadikario dell’American Jewish Joint Distribution Committee si sono prese cura di lei, aiutandola nelle questioni burocratiche, sanitarie, nel prendere un abbonamento ai mezzi. “Sono cose apparentemente semplici, ma serve organizzazione per fornirle e buona volontà”. In arrivo c’è anche un’altra giovane di 26 anni, così come una famiglia di quattro persone: madre, gemellini di undici mesi e nonna. “Stiamo sistemando un appartamento che può accogliere tre famiglie, ma servono i mobili. Stiamo recuperando letti, armadi, tavoli, e cosi via. Per questo è stata fatta una richiesta agli iscritti della comunità per avere aiuto”. Serve fornire l’immobile di tutto il necessario per essere abitabile, ma anche garantire altro. Da qui il lancio della raccolta organizzata alla Comunità per venerdì 24 marzo (8.30 – 15.30). Alimenti, beni per la prima infanzia, per l’igiene personale, ma anche posate e piatti di carta, nell’elenco di cosa si può donare. Un’altra raccolta, aperta a tutta la città è invece in programma domenica davanti al Memoriale della Shoah, con la partecipazione di diverse sigle cittadine e la collaborazione dei City Angels. “Dalla parte dell’Ucraina” l’emblematico titolo dell’iniziativa.
“Parte del materiale raccolto servirà per i prossimi arrivi. Dobbiamo essere consapevoli che siamo solo all’inizio. In Polonia e nelle altre realtà di confine hanno già superato i limiti”. Chi è appena tornato dal confine polacco è la delegazione dell’Hashomer Hatzair, con un furgone partito da Roma, con tappa a Milano, carico di beni di prima necessità da distribuire in un campo profughi e da spedire in Ucraina. “Siamo andati a Przemysl dove l’Hashomer assieme a un’altra ong israeliana, Natan, gestisce un asilo per bambini all’interno di un enorme centro commerciale ora adibito a luogo di accoglienza. Li abbiamo trovato la shlicha da Roma Shiry Caftori e il suo compagno Itai Ben Nun – ha raccontato a Pagine Ebraiche Riccardo Correggia, partito da Milano assieme a Tamar Fiano – L’impatto è stato forte. Ci sono persone ovunque perché il flusso degli arrivi è continuo. Le persone sono divise, più o meno, per le nazioni che poi le accoglieranno. Noi come Hashomer ci occupiamo dei più piccoli: ci sono bambini dai due-tre anni fino a dodici anni all’incirca”.

Il lavoro è diviso in turni con la presenza di volontari che sanno ucraino o russo e l’obiettivo è quello di alleggerire questi bambini dall’enorme stress. “Ovviamente comunicare senza sapere la lingua è difficile, ma ci sono altri modi. Io ho giocato con loro a calcio e ci sono tante attività: si disegna, si balla, si guardano film. Ho visto diversi bambini che con i lego hanno fatto la bandiera ucraina”. Tra le immagini rimaste impresse, il muro di disegni che continua a riempirsi e un piccolo addormentatosi su una pila di peluche.

(Nelle immagini, il centro per l'infanzia gestito dall'Hashomer Hatzair a Przemysl, sul confine tra Polonia e Ucraina, e i giovani dell'Hashomer Riccardo Correggia e Tamar Fiano)

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PAGINE EBRAICHE DI MARZO - DOSSIER LIBIA

Una storia di sofferenza e rinascita

Nel giugno 1940 l’Italia entra in guerra, Balbo muore in un incidente aereo e il maresciallo Graziani lo sostituisce come governatore della Libia. Graziani lancia la sua offensiva contro l’Egitto, rifiutando l’aiuto tedesco (e in tal modo prevenendo per il momento l’ingresso dei tedeschi nel Paese). Già nel settembre del 1940 Mussolini ordina l’internamento dei cittadini stranieri e di quelli considerati pericolosi nei campi di concentramento, ma solo alcuni ebrei vi vengono rinchiusi, prima a Tajura e poi a Buerat Al-Hsun.
Gli inglesi tra il dicembre 1940 e l’aprile 1941 avanzano in Cirenaica prendendosi Derna, Tobruk e Bengasi. Poi vengono respinti, si riprendono brevemente la Cirenaica, per essere poi nuovamente respinti da Rommel. Bengasi tra il 1941 e il 1942 cambia fronte ben cinque volte. Nel settembre 1941 Bastico, nominato governatore di Libia, chiede alle autorità della madrepatria l’autorizzazione allo sfollamento della popolazione straniera dalla Cirenaica. L’operazione è rivolta principalmente contro gli ebrei sospettati di aver collaborato con il nemico nel periodo in cui è la zona è stata sotto il suo controllo. Ma le vicende belliche impediscono che la manovra, pur approvata da Mussolini, si realizzi fino al 1942.
Alla fine di gennaio 1942 circa trecento ebrei di Tripoli con cittadinanza inglese sono inviati a Napoli su un cargo bestiame, per essere poi condotti in tre campi di concentramento: Arezzo, Civitella del Tronto e Bagno a Ripoli.
Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 i tedeschi assumono il controllo diretto dell’Italia e la situazione degli ebrei peggiora enormemente. Il 28 ottobre 1943 le SS inviano gli ebrei libici del campo di Civitella del Tronto a Crocetta, vicino Chieti, per lavorare sulla linea del fronte, lungo il fiume Sangro. Donne e bambini vengono lasciati indietro. 370 cittadini inglesi del campo di Civitella, in quattro trasporti, tra il gennaio e l’agosto 1944, vengono deportati a Bergen Belsen, il resto viene invece mandato al campo di Fossoli, vicino Carpi. Nel maggio del 1944 anche questo gruppo viene deportato in Germania.

Maurice Roumani

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Machshevet Israel - Sentieri in utopia
L’articolo giustamente allarmato di Borillo e Gabanelli sul Corriere della Sera del 21 marzo mette in evidenza i pericoli reali di una prossima carenza di derrate alimentari che finora venivano importate dall’Ucraina. Nulla da obiettare, però a mali estremi, estremi rimedi. Il motivo per cui si importavano era la convenienza commerciale: produrli in casa era troppo costoso ed era conveniente rivolgersi a mercati che praticassero prezzi più bassi. La guerra ha fatto “evaporare” la convenienza in poche ore. .
Roberto Jona
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