Pagine Ebraiche – Dossier Libia
Una storia di sofferenza e rinascita

Nel giugno 1940 l’Italia entra in guerra, Balbo muore in un incidente aereo e il maresciallo Graziani lo sostituisce come governatore della Libia. Graziani lancia la sua offensiva contro l’Egitto, rifiutando l’aiuto tedesco (e in tal modo prevenendo per il momento l’ingresso dei tedeschi nel Paese). Già nel settembre del 1940 Mussolini ordina l’internamento dei cittadini stranieri e di quelli considerati pericolosi nei campi di concentramento, ma solo alcuni ebrei vi vengono rinchiusi, prima a Tajura e poi a Buerat Al-Hsun.
Gli inglesi tra il dicembre 1940 e l’aprile 1941 avanzano in Cirenaica prendendosi Derna, Tobruk e Bengasi. Poi vengono respinti, si riprendono brevemente la Cirenaica, per essere poi nuovamente respinti da Rommel. Bengasi tra il 1941 e il 1942 cambia fronte ben cinque volte. Nel settembre 1941 Bastico, nominato governatore di Libia, chiede alle autorità della madrepatria l’autorizzazione allo sfollamento della popolazione straniera dalla Cirenaica. L’operazione è rivolta principalmente contro gli ebrei sospettati di aver collaborato con il nemico nel periodo in cui è la zona è stata sotto il suo controllo. Ma le vicende belliche impediscono che la manovra, pur approvata da Mussolini, si realizzi fino al 1942.
Alla fine di gennaio 1942 circa trecento ebrei di Tripoli con cittadinanza inglese sono inviati a Napoli su un cargo bestiame, per essere poi condotti in tre campi di concentramento: Arezzo, Civitella del Tronto e Bagno a Ripoli.
Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 i tedeschi assumono il controllo diretto dell’Italia e la situazione degli ebrei peggiora enormemente. Il 28 ottobre 1943 le SS inviano gli ebrei libici del campo di Civitella del Tronto a Crocetta, vicino Chieti, per lavorare sulla linea del fronte, lungo il fiume Sangro. Donne e bambini vengono lasciati indietro. 370 cittadini inglesi del campo di Civitella, in quattro trasporti, tra il gennaio e l’agosto 1944, vengono deportati a Bergen Belsen, il resto viene invece mandato al campo di Fossoli, vicino Carpi. Nel maggio del 1944 anche questo gruppo viene deportato in Germania.
Quando i primi ebrei libici raggiungono Bergen Belsen, le condizioni dei prigionieri erano ancora sopportabili, ma peggiorano rapidamente fino a diventare un inferno. Nel novembre 1944 il campo viene liberato e la maggior parte dei prigionieri trasferiti nel campo di prigionia di Biberach-Riss nella Germania meridionale, al confine svizzero. Il 4 aprile 1945 il campo viene liberato dall’esercito francese e i prigionieri trasferiti a Bari, per essere rimpatriati verso Tripoli. Un altro gruppo di ebrei libici viene trasferito da Bergen Belsen nel gennaio 1945 e portato al campo di prigionia inglese di Wurzach, anch’esso nella Germania meridionale.
Tra luglio e agosto 1942 i cittadini francesi e tunisini (di cui circa 1.800 ebrei) vengono evacuati dalla Cirenaica e poi dalla Tripolitania per essere rimpatriati nei territori francesi del Nord Africa: Tunisia, Algeria e Marocco. In Tunisia durante l’occupazione diretta del paese da parte dei nazifascisti, tra novembre 1942 e maggio 1943, gli ebrei libici subiscono bombardamenti, vessazioni, discriminazioni e violenze al pari degli ebrei tunisini.
A causa anche dell’ostruzionismo del governo militare inglese che controlla la Libia dopo la fine della guerra, questi ebrei non possono far ritorno fino alla fine del 1944. Sempre nel 1942 gli ebrei con cittadinanza libica (2.537 persone) vengono trasferiti dalla Cirenaica nei campi di concentramento della Tripolitania: Giado, Yifren e Gharian.
Il campo di Giado, dove muoiono 562 persone di fame e tifo, viene liberato dagli inglesi il 24 gennaio 1943, ma i deportati non possono far subito rientro in Cirenaica, viste le precarie condizioni di salute.
Per gli ebrei di Tripolitania la situazione è diversa. Solo chi ha cittadinanza francese o inglese viene deportato dalla Libia assieme agli ebrei di Cirenaica. Gli altri ebrei con cittadinanza libica, nel caso specifico gli uomini tra i 18 e i 45 anni, vengono mobilitati e inviati ai campi di lavoro di Sidi Azaz (un migliaio), mentre 370 ebrei vengono mandati al fronte, al campo di Buq Buq, vicino Tobruk, per lavorare alle linee di comunicazione. Altri ebrei abbandonano Tripoli verso l’interno per sfuggire ai continui e distruttivi bombardamenti alleati.
La comunità ebraica libica si disgrega, le organizzazioni ebraiche vengono chiuse perché accusate di collaborazionismo. Il 17 dicembre del 1942 le leggi razziali del 1938 vengono completamente applicate in Libia. Ma è già tardi, la Cirenaica era già stata conquista dagli inglesi nel novembre 1942 e il 23 gennaio 1943 gli inglesi conquistano Tripoli.
Gli inglesi che liberano i campi di concentramento in Libia nel 1943 si trovano di fronte ad una popolazione malata e stremata. Si occupano di trasferire le persone nelle vicinanze dei campi per nutrirle e curarle, prima di riportarle a gruppi verso le loro case. L’American Jewish Joint Distribution Committee finanzia questa fase di assistenza. Il Joint si occupa anche del rimpatrio degli ebrei libici dai territori francesi del Nord Africa, finanziando l’intera operazione. L’occupazione inglese significa per gli ebrei libici la fine della guerra, ma anche dell’inferiorità morale e giuridica alla quale li avevano sottoposti le autorità italiane. La comunità ebraica si trova in condizioni economiche, sociali e psicologiche deplorevoli e saluta gli inglesi come liberatori.

I rapporti tra ebrei e musulmani in Libia invece si deteriorano dopo la guerra, almeno a partire dal 1944. Il peggioramento della situazione economica, una ripresa del nazionalismo libico (alcune figure ritornano dall’esilio in Egitto assieme alle truppe britanniche), l’aumento dell’inflazione
che contribuisce all’impoverimento, sono alcune delle cause del mutamento della situazione. Sicuramente l’amministrazione inglese si dimostra indifferente e poco sollecita ad intervenire su questi problemi. Le fonti arabe parlano di un crescente fastidio della popolazione nei confronti dell’attività sionista della comunità, in forte ripresa dopo la fine della guerra, e delle libertà che gli ebrei avevano goduto durante il colonialismo italiano. Niente di tutto questo lascia comunque presagire quel che si verifica tra il 4 e il 7 novembre del 1945. A Tripoli quello che sembra uno sporadico caso di violenza antiebraica si trasforma in un vero e proprio pogrom organizzato contro il quartiere ebraico. Gli arabi saccheggiano e uccidono senza che nessuno li fermi. Le autorità britanniche rimangono inerti per due giorni. Dopo il loro intervento, una volta cessate le violenze, si contano 130 persone uccise (uomini, donne, bambini). Il quartiere ebraico è devastato e saccheggiato. Le violenze si diffondono anche in altre località del paese. Anche lì saccheggi, morti e feriti.
Gli ebrei rimasti senza tetto ancora una volta sono costretti a vivere in campi per rifugiati, dipendendo completamente dagli inglesi e dalla comunità ebraica. La comunità a mesi di distanza dall’accaduto stenta a riprendersi, malgrado l’aiuto internazionale. Senza voler indagare i motivi dell’accaduto, se si sia trattato di inefficienza da parte dei britannici o di negligenza intenzionale, quel che ne risulta è la fine delle speranze degli ebrei nei confronti delle autorità di occupazione. Entrambe le autorità religiose, il mufti e il rabbino, sono scioccate da quello che è accaduto e dalla rottura dei rapporti tra ebrei e musulmani in Libia. Gli arabi da parte loro fin dal 9 novembre tentano di ricucire questi rapporti. Il mufti pronuncia una fatwa con cui condanna le atrocità commesse e chiede che si riprendano normali relazioni tra le due comunità. La comunità ebraica libica in duemila anni di storia non aveva mai vissuto atrocità del genere. Ma non è l’ultimo episodio. Il 12 giugno del 1948 la storia si ripete. Le cause sono più complesse: da un lato il nazionalismo arabo che prende piede, dall’altro la questione della Palestina che comincia ad aprirsi fin dalla risoluzione dell’Onu del 1947 (quella che sancisce la spartizione della regione) e infine il sionismo, che acquista sempre maggiore importanza nella comunità ebraica libica. L’apice si raggiunge con la creazione dello Stato di Israele il 14 maggio 1948. Il 12 e 13 giugno un pogrom devasta il quartiere ebraico di Tripoli. La polizia britannica interviene solo dopo due o tre ore e riesce a contenere lo spargimento di sangue. Ma questa volta sono gli ebrei stessi che organizzano l’autodifesa. Fin dal 1945 Israel Gur, emissario del Palmach in Libia, aveva addestrato gli ebrei usando le tattiche utilizzate in Palestina. Gli arabi che penetrano nel quartiere Bab el-Horria trovano ad accoglierli gruppi di ebrei armati e devono ripiegare verso quartieri più facilmente attaccabili.
Alla fine almeno 14 ebrei vengono uccisi; non si contano i danni, i feriti, 1.600 persone sono senza tetto. Gli ebrei perdono ogni speranza di ristabilire una relazione normale con la popolazione musulmana. Israele diventa l’unica soluzione. Molti emigrano illegalmente nei primi mesi che seguono il pogrom. Alla fine l’Inghilterra, sottoposta a varie pressioni, dal febbraio del 1949 autorizza l’emigrazione legale dalla Libia verso Israele. Il 5 aprile 1949 cadono tutte le restrizioni. Tra aprile e ottobre 1949, 8.457 ebrei emigrano verso Israele. Dal mese di ottobre 1949, il flusso di emigranti organizzati dall’American Jewish Joint Distribution Committee raggiunge le 3.000 persone al mese.
Gli ebrei della Cirenaica sono i primi a partire, seguono gli ebrei dell’interno. Nel 1950 l’unica grossa comunità a rimanere è quella della Tripolitania, che comincia a svuotarsi a partire dalle piccole comunità attorno a Tripoli, talune delle quali cessano di esistere. Alla fine di marzo 1950, 9.372 ebrei di Tripoli hanno già lasciato il paese. Il flusso continua a tal punto che, entro il 1951, 30.895 ebrei hanno abbandonato il paese. La paura, l’insicurezza, le violenze, ma soprattutto la povertà sono le cause di questa emigrazione di massa.
Tra il 1948 e il 1952, 32.000 ebrei abbandonano la Libia per Israele, partendo prima via Italia e Tunisia su battelli e in un secondo tempo su navi israeliane come Moledet, Herzl e via dicendo. L’Agenzia Ebraica manda in Libia degli emissari per organizzare l’immigrazione legale. Gli inglesi consentono alle navi isra-
eliane di attraccare nei porti libici e di far imbarcare gli ebrei che abbiano fatto richiesta di partire, con tutti i loro averi.
Nel 1952 la Libia raggiunge l’indipendenza e la situazione degli ebrei peggiora. Qualche esempio può illustrare la situazione. La Libia entra a far parte della Lega Araba nel marzo 1953 e la conseguenza è che su tutti i passaporti degli ebrei vengono stampate le lettere YL (ebreo libico). Nel 1954 non vengono più rilasciati passaporti agli ebrei, ma solo permessi di transito temporanei.
Nel 1953 viene chiuso il circolo Maccabi di Tripoli e nel 1954 è il turno degli uffici del rabbinato. Nel 1958 il governo scioglie il consiglio della comunità ebraica e lo sostituisce con un commissario arabo, che rimane in carica fino all’espulsione degli ebrei rimasti in Libia, nel 1967. Vorrei a questo punto abbozzare il quadro della comunità allo scoppio della Guerra dei Sei Giorni del 1967 che ha provocato l’esodo finale degli ebrei del Paese, interessando circa 5.000 persone, che sono state letteralmente evacuate verso l’Italia.
Le cause della loro evacuazione forzata nel 1967 sono radicate nel progressivo deterioramento dei rapporti tra ebrei e musulmani dopo la nascita dello stato indipendente di Libia nel 1952. Il nazionalismo arabo, l’adesione della Libia alla Lega Araba, un atteggiamento antiisraeliano molto marcato, raggiungono l’apice
con la Guerra dei Sei Giorni. Gli ebrei, sottoposti a minacce e violenze, vivono un clima irrespirabile. La situazione precipita rapidamente.
Nel giugno 1967, in un brevissimo lasso di tempo, vengono letteralmente prelevati dalle loro case e a bordo di aerei, di navi, con poco bagaglio e pochissimo denaro raggiungono l’Italia.
Gli ebrei libici giunti in Italia trovano numerose istituzioni ebraiche pronte ad assisterli. Non solo il Joint, ma anche l’Hias (Hebrew Immigrant Aid Society) e poi la Deputazione Ebraica di Assistenza e la Comunità ebraica romana si occupano di rispondere alle esigenze di persone che sono arrivate senza risorse. Bisogna trovare luoghi di accoglienza, quindi le istituzioni romane iniziano una trattativa con il governo italiano che sfocia nell’identificazione dei campi di Latina e Capua. Bisogna organizzare l’assistenza sanitaria, che viene fornita dall’OSE (Organizzazione Sanitaria Ebraica) con l’assistenza del Joint.
Dopo il primo periodo di emergenza, lasciati ormai i campi, i due maggiori problemi che la comunità ebraica libica deve affrontare sono quelli del recupero dei beni rimasti in Libia e dell’acquisizione della cittadinanza italiana. Se la cittadinanza è ormai un problema risolto, gli ebrei libici non hanno invece potuto recuperare i propri beni né ricevere alcun indennizzo.
Dei duemila ebrei libici che sono rimasti in Italia dopo gli anni Settanta, troviamo a Roma un gruppo molto vivace composto di persone di prima, seconda e terza generazione.
Pur non avendo a disposizione analisi statistiche che ci forniscano i dati numerici necessari per misurarne l’entità, mi sento comunque di dire che questo gruppo ha portato forze nuove alla comunità ebraica romana.

Maurice Roumani, Dossier Libia, Pagine Ebraiche Marzo 2022

(Questo brano è stato estratto dall’intervento del professor Roumani a un incontro organizzato da Astrel sul tema “La comunità ebraica libica: breve ricognizione storica fino al 1967”)