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L'INTERVISTA AD HANNAH LIVNAT

"Heidi è la nostra storia"

Una fascinazione speciale quella di Israele per la figura di Heidi. Ad esplorarla in molte pieghe inaspettate la mostra Shadow and Light. Heidi’s success story in Israel – A search for traces a cura dello Heidimusem di Kilchberg. In esposizione anche al Museo ebraico di Monaco, propone al suo interno una carrellata delle edizioni in ebraico di Heidi negli ultimi 75 anni e attraverso una serie di materiali affonda lo sguardo nello sviluppo mediatico del personaggio. Il compito di supervisionarla è stato affidato alla professoressa Hannah Livnat, tra le massime esperte israeliane di storia della letteratura per bambini e ragazzi. Heidi, spiega a Pagine Ebraiche, “è la nostra storia”. 

Come tanti israeliani, Hannah Livnat ha scoperto i libri Heidi da bambina e se n’è subito innamorata. A conquistarla, l’amore della protagonista per la natura e la casa, gli animali e per la gente, la sua gioia di vivere. Heidi, sostiene, è un modello per chiunque. È giusta, buona, vuole fare del mondo un posto migliore. E per questo ancora parla ai lettori di oggi. È stato questo respiro universale a spingere la professoressa Livnat, una delle maggiori esperte in Israele di storia della letteratura per bambini e ragazzi, docente all’Università di Tel Aviv e al Beit Berl College, a completare nel 2019 la traduzione integrale in ebraico dei libri di Heidi. Livnat, che ha tradotto anche le favole dei fratelli Grimm, La storia infinita e Momo di Michael Ende, ha studiato il ruolo della letteratura per l’infanzia nella costruzione dell’identità ebraica nel periodo del Terzo Reich. Nella fortuna di Heidi in Israele rintraccia alcuni elementi analoghi.

Professoressa Livnat, ricorda qual è stato il suo primo incontro con Heidi?
Sono nata a Tel Aviv e ho lì vissuto fino ai 24 anni. Non mi è mai piaciuta, a differenza dei miei amici che amavano la vita di città. Per qualche misteriosa ragione ho sempre desiderato vivere nella natura, anche se non l’ho mai fatto davvero. Mi piacevano le visite annuali insieme a mio fratello agli zii nel moshav Nahalal, dove il paesaggio non somiglia affatto alle Alpi ma la sensazione è la stessa. Così, appena ho letto Heidi mi sono sentita emotivamente a casa, anche se era molto lontana dalla mia casa reale. Ero innamorata della gioia di vivere di Heidi e del potere della natura di guarire. Mi piaceva anche Peter e ancora adesso mi domando come Heidi, sempre così sensibile a chi la circonda, non abbia notato il suo malessere quando lo “abbandona” per gli ospiti che arrivano dalla grande città…

La storia di Heidi sembra lontana, addirittura esotica, per i bambini israeliani. Si svolge in alta montagna, fra edelweiss e nevi eterne, e anche le parti ambientate a Francoforte hanno assai poco in comune con la realtà urbana israeliana. Come spiega il loro incredibile impatto? 

Quando le storie di Heidi sono state per la prima volta tradotte in ebraico hanno offerto uno spazio per i complessi e talvolta contrastanti bisogni della gioventù d’Israele, negli anni della formazione dell’identità nazionale israeliana. Da un lato, le storie si adattavano agli aperti e dichiarati temi nazionali, dall’altro ai bisogni personali che al tempo non ricevevano legittimazione pubblica. Penso ad esempio alla relazione con la patria. L’ideologia sionista enfatizzava l’importanza della Terra d’Israele per gli ebrei della Diaspora. La descriveva con colori ideali e cercava di realizzare le aspirazioni verso Israele con l’Aliyah, l’immigrazione. È simile al modo in cui i paesaggi della Svizzera e delle Alpi sono descritti in Heidi: l’oggetto ideale dei desideri di Heidi e il lieto fine con il suo ritorno alle Alpi.


 

Quanto conta la vicenda personale di Heidi?
La si può paragonare alla storia del popolo d’Israele. Heidi viveva in Svizzera, è andata sulle Alpi, è stata deportata “a forza” nella grigia e brutta Francoforte ed è tornata con orgoglio alla casa del nonno sulle Alpi. Il popolo di Israele ha vissuto nella Terra di Israele, è stato esiliato in paesi che l’ideale sionista descriveva in modo negativo e ha orgogliosamente fatto ritorno alla propria terra. D’altra parte, molti immigrati ebrei in Eretz Israel a quel tempo sperimentavano una profonda crisi, sia personale sia culturale, come risultato dell’immigrazione. Molti provavano un’immensa nostalgia per la loro terra e per quei paesaggi, fossero in Europa o altrove. Heidi ha fornito loro una piattaforma per questi desideri.

E poi c’è il fascino di una vita nella natura.
Infatti. Un altro ideale sionista di quel tempo era la vita semplice e modesta, soprattutto nell’abbraccio della natura, insieme all’agricoltura e al lavoro della terra. La nuova identità ebraica era immaginata orgogliosa, produttiva, muscolosa, abbronzata e sana. Heidi celebra anche questi valori, inclusa la capacità della natura di sanare il corpo e la mente. Al tempo stesso, esprime situazioni personali e processi emotivi, soprattutto per le donne e le bambine, che non avevano posto e legittimità nell’agenda nazionale.

Heidi è stato tradotto per la prima volta in ebraico nel 1946. Un momento cruciale nella storia ebraica, subito dopo la guerra e la Shoah e prima della fondazione dello Stato. Che ruolo ha giocato sulla mentalità dei bambini di allora? Cosa ha fatto di lei un personaggio con cui identificarsi?
Oltre a rafforzare l’importanza del sionismo, la seconda guerra mondiale e la Shoah hanno purtroppo reso molti bambini orfani. Tanti bimbi e giovani sono immigrati in Israele dopo la Shoah senza i genitori e la nazione era descritta come la loro nuova famiglia. La storia di Heidi, anche lei orfana, ha fornito loro un personaggio con cui identificarsi, la speranza di un futuro migliore e la fiducia che le condizioni dure non corrompono necessariamente l’individuo.

Il successo di Heidi attraversa le generazioni. Come fa un personaggio nato alla fine dell’Ottocento a parlare ai bambini di oggi, che crescono in un mondo totalmente diverso?
Oltre alla storia, di per sé affascinante, molti dei temi nel libro oggi restano rilevanti. Ad esempio i diritti delle donne, con Heidi a rappresentare una nuova generazione di donne che non vogliono restare sedute a casa in silenzio, donne che sono sicure di sé e hanno iniziativa. Un altro aspetto è la cura degli animali. Il gregge che Peter porta al pascolo, le capre del nonno e i gattini che Heidi adotta hanno un ruolo importante nelle storie. Allo stesso modo, il buon trattamento degli animali era importante per i nuovi sionisti e oggi la percentuale di vegani in Israele è tra le più alte del mondo.

Lei ha di recente completato una nuova traduzione in ebraico dei libri di Heidi. Quali sono state le sfide principali? 
La sfida principale è stata la lingua originale. È unica nell’ambito del tedesco, perché è Schweizerdeutsch (svizzero – tedesco). Per di più è naturalmente arcaica, perché i libri sono stati scritti nel XIX secolo. Ho cercato di tradurla in un linguaggio più contemporaneo, mantenendo per una certa misura lo stile originale così da restare fedele al testo originale, al suo spirito, al’ambiente e alla cultura del tempo. Il testo originale era composto da frasi molto lunghe e complicate, che spesso occupavano interi paragrafi. È lo stile che conferisce al libro il suo tono particolare ma temevo non sarebbe stato accettato dai giovani lettori di oggi, senz’altro non in ebraico. Ho dunque suddiviso le frasi lunghe ovunque è stato possibile, senza cambiare lo stile generale e il significato del testo originale.

Ci sono state parole o espressioni particolarmente difficili da tradurre?
Una delle più difficili è stata “Alm – Ohi”, il nomignolo del nonno di Heidi. Forse il significato era chiaro per i lettori dell’originale tedesco, ma non esiste una traduzione. Ho guardato le prime traduzioni in ebraico e quelle in altre lingue ma è stato impossibile trovarne una accurata e chiara per i lettori. Alla fine l’ho semplicemente tradotta come lo “Zio dell’Alpe”.

Daniela Gross

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DECINE DI MIGLIAIA I KIT CON PRODOTTI CASHER DISTRIBUITI NEL PAESE

La matzah spezzata nel bunker,
il Pesach "per la vita" di Zelensky

Nonostante la minaccia delle bombe russe, in molte città d’Ucraina si sono celebrate regolarmente le funzioni di Pesach e famiglie e intere comunità si sono riunite alle tavole per la lettura dell’Haggadah. Anche il presidente Zelensky non avrebbe mancato l’appuntamento, festeggiando l’inizio di questa Pasqua ebraica in tempo di guerra all’interno di un bunker, con una dotazione di pane azzimo e di altri prodotti casher recapitati in quella sede dalla Federazione delle Comunità Ebraiche d’Ucraina. Tra i destinatari di migliaia di pacchi analoghi anche il sindaco di Kiev Vitali Klitschko, la cui nonna è sopravvissuta alla Shoah, oltre ai soldati ebrei impegnati nella difesa del Paese dall’attacco di Mosca. A loro si era rivolto il presidente ucraino in un messaggio diffuso alla vigilia di Pesach, enfatizzando il significato “di libertà e vita” associato alla festa e auspicando che non solo in Ucraina ma in tutto il mondo si possa arrivare presto alla pace “e a una vittoria contro il male che oggi minaccia libertà e vita sulla terra”. Nel fare ciò Zelensky ha espresso la propria gratitudine “a tutti gli uomini e a tutte le donne che ci stanno proteggendo”. Poche ore prima del primo Seder il rav Moshe Azman, uno dei due rabbini capo d’Ucraina, ha officiato il funerale di un uomo ucciso e forse anche torturato dai russi. 

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L'ACCUSA DEL PRIMO MINISTRO ISRAELIANO BENNETT

"Hamas dietro le nuove violenze"

Ci sarebbe il coinvolgimento diretto di Hamas nelle violenze degli ultimi giorni a Gerusalemme, a partire dai tumulti verificatisi nell’area della Spianata delle Moschee (Monte del Tempio) venerdì mattina. È quanto sostiene il Primo ministro d’Israele Naftali Bennett, alle prese da varie settimane con una recrudescenza di ostilità e purtroppo anche di attentati che ha riproposto con urgenza il tema della sicurezza nazionale al centro in queste ore anche di un aspro diverbio con il suo predecessore Benjamin Netanyahu. L’attuale premier, costretto a confrontarsi anche con una crisi politica che rischia di sottrargli a breve il governo del Paese, ha accusato il gruppo terroristico che governa la Striscia di Gaza di attuare “una violenta campagna di incitazione all’odio”, per poi ribadire l’impegno delle istituzioni israeliane affinché “tutti possano celebrare in piena sicurezza le proprie festività: ebrei, musulmani e cristiani”.

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IL NUOVO DOCUMENTARIO DELLA FONDAZIONE MUSEO DELLA SHOAH

Persecuzione in Italia, le storie dei complici

Vicende drammatiche e tragiche, spesso squallide. Ma il cui racconto “è indispensabile per conoscere finalmente la storia per intero, tutta la storia, senza reticenze” spiegano gli storici Amedeo Osti Guerrazzi e Isabella Insolvibile nel presentare il documentario “Storie della Shoah in Italia. I complici” di cui sono i curatori. Prodotto dalla Fondazione Museo della Shoah di Roma con la regia di Alessandro Arangio Ruiz, racconta le storie di alcuni collaborazionisti italiani che aiutarono di loro spontanea volontà le autorità nazifasciste nella ricerca e nell’arresto dei loro concittadini ebrei. Quattro le città prese in esame: Roma, Firenze, Milano e Trieste.
Per ognuna il documentario, che sarà presentato giovedì mattina alla Casina dei Vallati in un incontro riservato alla stampa, analizza una storia di “tradimento” attraverso la quale sarà possibile conoscere “il meccanismo della deportazione e le motivazioni personali di chi voleva un’Europa ‘libera da ebrei'”.

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L'Haggadah di Shakespeare
Credo sia il sogno di ogni anglofilo ebreo provare che William Shakespeare era in realtà un marrano, o un ebreo di origine marrana, o addirittura un italo-inglese di non lontana discendenza ebraica mimetizzatosi per convenienza, per poter senza problemi frequentare la corte di Elisabetta. Quasi a togliere qualsiasi illusione di poter aggiungere alla lista del genio ebraico il Bardo di Avon si è formata nel tempo una studiata pletora di interpretazioni che hanno radicato l’idea di uno Shakespeare antisemita, creatore del più famoso stereotipo dell’antisemitismo letterario. Antisemitismo, non antigiudaismo. 
 
Dario Calimani
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Mission
Simon & Schuster nel 1941 pubblica “Missione a Mosca” (ed. italiana Mondadori, 1946), opera dell’ambasciatore americano presso l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS) dal 1936 a 1938, dove l’autore (abbondantemente supportato da ghost writers) dà l’impressione di credere a tutto, compresa l’imparzialità dei processi di Mosca e delle purghe staliniane. 
Emanuele Calò
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Pesach di apprensione e resistenza
Sempre, nel corso della sua storia ultramillenaria, il popolo ebraico ha guardato con attenzione ai grandi sconvolgimenti della storia mondiale tentando di leggerli alla luce (ma spesso a partire da una condizione di profonda oscurità) della propria vicenda e della propria visione della realtà. Ciò soprattutto dall’inizio dei duemila anni di Golà, da quando cioè la convivenza con genti diverse ha reso per noi continua la partecipazione e il confronto con la storia “degli altri”, che è di fatto anche la nostra a tutti gli effetti.
David Sorani
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