Pesach di apprensione
e di resistenza

Sempre, nel corso della sua storia ultramillenaria, il popolo ebraico ha guardato con attenzione ai grandi sconvolgimenti della storia mondiale tentando di leggerli alla luce (ma spesso a partire da una condizione di profonda oscurità) della propria vicenda e della propria visione della realtà. Ciò soprattutto dall’inizio dei duemila anni di Golà, da quando cioè la convivenza con genti diverse ha reso per noi continua la partecipazione e il confronto con la storia “degli altri”, che è di fatto anche la nostra a tutti gli effetti.
Le solennità, per noi comunque “religiose” e nazionali insieme, sono state nei secoli un momento privilegiato per riflettere sulla nostra condizione coeva e confrontarla con la situazione generale del periodo o per esprimere giudizi ebraici su di essa. Pesach in particolare, per la sua centralità fondante (a livello di identità nazionale, di contenuti caratterizzanti, di costruzione della stessa dimensione storica) è da sempre la festa che ci impegna – a partire dalla narrazione ragionata e collettiva del Seder – in domande e considerazioni problematiche su noi stessi, sul nostro modo di essere in quanto ebrei, sulla nostra condizione di libertà nei confronti degli altri popoli o all’interno del nostro stesso orizzonte ebraico o nei rapporti con la dimensione divina (esiste un margine di autonomia umana nella Redenzione dalla schiavitù d’Egitto, e in che cosa consiste?). I giorni di Pesach sono dunque per noi la sede più consona per gettare uno sguardo complessivo sulle dinamiche del mondo, in sé e nella nostra più settoriale prospettiva.
Nel buio della tragedia, nel cuore della persecuzione e della Shoah per i nostri nonni e genitori braccati era forse Pesach più di altri giorni il momento degli angosciosi bilanci, troppo spesso nutriti di vuoti familiari o tentati in situazioni di pesante solitudine.
Dopo due Pesachim difficili in tempi di pandemia, quando le esigenze di isolamento precauzionale sembravano contraddire la socialità e la vicinanza peculiari della festa e della sua celebrazione attraverso la lettura comune della Haggadah, gli incontri e i riti di quest’anno – finalmente senza particolari vincoli – sono stati tormentati dal riaffacciarsi della guerra in Europa e dalla tragedia che sta vivendo il popolo ucraino. Se il presente è drammatico e violento, il futuro si preannuncia davvero minaccioso, gravido di ombre scure che paiono riportarci al clima aggressivo dell’età dei totalitarismi o a quello iperteso della guerra fredda. Soprattutto, è la conquista e il bene essenziale che ricordiamo a Pesach: la libertà nella sua accezione individuale e collettiva, a essere messa d’ora in poi fortemente in discussione. I programmi di espansione territoriale e di controllo politico della Russia di Putin, la pesante censura nel mondo dell’informazione e l’abbattimento sistematico di ogni pluralismo democratico all’interno del suo sistema recidono alla radice ogni speranza di vera libertà per le aree destinate a finire sotto il tallone della sua influenza.
Eppure, proprio a questo è risultata più preziosa che mai la celebrazione del Seder di quest’anno: a rinsaldare per contrasto, in un momento precario quanti altri mai, la condivisione del senso di libertà e la convinzione collettiva dell’essenzialità irrinunciabile di tale condizione. Convinti, come previsto nella Haggadah e come avvertiamo di fatto, di essere stati anche noi oggi liberati dalla schiavitù d’Egitto, possiamo formulare la nostra esigenza assoluta di libertà col ragionamento complesso del Chaham o con le parole ingenue del Tam; di fatto, il Seder e in genere Pesach costituiscono comunque un’arma formidabile per rafforzare la nostra resistenza spirituale davanti ai tempi burrascosi in arrivo.
David Sorani

(19 aprile 2022)