Mission
Simon & Schuster nel 1941 pubblica “Missione a Mosca” (ed. italiana Mondadori, 1946), opera dell’ambasciatore americano presso l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS) dal 1936 a 1938, dove l’autore (abbondantemente supportato da ghost writers) dà l’impressione di credere a tutto, compresa l’imparzialità dei processi di Mosca e delle purghe staliniane. Il libro è stato un best seller, mentre il film che ne fu tratto nel 1943, diretto dall’immortale Michael Curtiz, finì in perdita. Il film, la cui sceneggiatura fu strettamente controllata dallo stesso Davies, mirava a presentare le purghe staliniane come necessarie per difendersi da quinte colonne naziste (così, David Culbert, 1980).
Se l’opera di Davies mirava a convincere gli americani della bontà dell’alleanza con l’URSS, nel 1946 si fece largo l’esigenza opposta, che trovò espressione nel c.d. “lungo telegramma” che il diplomatico George Kennan inviò dall’URSS al Dipartimento di Stato e che rimase segreto a lungo, nel quale volle spiegare la politica sovietica non sulla base del comunismo bensì della mentalità russa: “Alla base della visione nevrotica del Cremlino degli affari mondiali c’è il tradizionale e istintivo senso di insicurezza russo. In origine, questa era l’insicurezza di un pacifico popolo agricolo che cercava di vivere in una vasta pianura esposta in prossimità di feroci popoli nomadi. A ciò si aggiunse, quando la Russia entrò in contatto con l’Occidente economicamente avanzato, il timore di società più competenti, più potenti e più altamente organizzate in quella zona. Ma quest’ultimo tipo di insicurezza affliggeva piuttosto i governanti russi che il popolo russo; perché i governanti russi hanno invariabilmente percepito che il loro governo era relativamente arcaico nella forma, fragile e artificiale nelle sue basi psicologiche, incapace di sopportare il confronto o il contatto con i sistemi politici dei paesi occidentali. Per questo motivo hanno sempre temuto la penetrazione straniera, temuto il contatto diretto tra il mondo occidentale e il loro, temuto cosa sarebbe successo se i russi avessero appreso la verità sul mondo esterno o se gli stranieri avessero appreso la verità sul mondo interiore. E hanno imparato a cercare sicurezza solo nella lotta paziente ma mortale per la distruzione totale del potere rivale, mai in patti e compromessi con esso”.
Dopo quasi un secolo e, soprattutto, dopo l’implosione dell’URSS, un inquietante gioco dell’oca ci riporta al punto di partenza. Sennonché, vi è una qualche differenza col passato, in quanto l’URSS aveva un’ideologia – il marxismo leninismo – che esportava e imponeva nei Paesi che erano sotto il suo controllo. Certo, l’URSS faceva un uso strumentale del marxismo; se avesse applicato gli insegnamenti marxisti, esposti ne “L’ideologia tedesca”, avrebbe preso atto che se “i rapporti fra nazioni diverse dipendono dalla misura in cui ciascuna di esse ha sviluppato le loro forze produttive, la divisione del lavoro e le relazioni interne” avrebbe dovuto prendere atto che i suoi mali erano figli legittimi delle proprie scelte. Infatti, nell’epoca post – moderna, priva di ideologie, la Russia non possiede più un modello di società da esportare.
Tuttavia, se per fine dell’ideologia s’intendesse, come sostenne Daniel Bell, la fine della retorica, l’ideologia che potrebbe tentar d’imporre all’esterno riguarderebbe l’autoritarismo di stampo etnico, mediato dalla c.d. ideologia panrussa, che però è troppo generica ed ha come punto forte la sola decadenza dell’Occidente, anche se a tal fine sarebbe bastato il solo Oswald Spengler. Rimarrebbe quindi il solo potere, rivestito però di giustificazioni non solide e, in ogni caso, di breve durata. Questo è il prezzo pagato dalla Russia per scongiurare i rischi che comporta una società aperta, come delineata da Karl Popper. Sostenere che si tratti di un problema culturale e psicologico è semplicistico, ma non necessariamente errato. All’alba del secolo breve, Rudyard Kipling (The White Man’s Burden) e Mark Twain (To the Person Sitting in Darkness) incrociarono le penne sui rapporti fra civiltà. Sarebbe stimolante leggerne un aggiornamento in cirillico.
Per ora, però, potremmo riflettere sul versante giuridico, perché la cessione del potenziale nucleare ucraino alla Russia era stata subordinata nel Memorandum di Budapest al rispetto della sua integrità territoriale. (cfr. Thomas D. Grant, The Budapest Memorandum of 5 December 1994: Political Engagement or Legal Obligation? (July 3, 2015), Polish Yearbook of International Law, Vol. 34 (2014), p. 89). Era un accordo cogente? Nel lontano 1972, Ada Sereni mi raccontò che, durante la vigenza del Mandato britannico, quando doveva far partire dall’Italia verso la Palestina una nave con superstiti dell’Olocausto, si recò a Firenze da un eminente internazionalista, il quale le spiegò in due parole la materia: “È soltanto la legge del più forte”.
Emanuele Calò, giurista
(19 aprile 2022)