Se non leggi correttamente questo messaggio, clicca qui  29 Settembre 2022 - 4 Tishrì 5783

MY NEIGHBOR ADOLF - L'INTERVISTA

Dall’altra parte della Storia

”Non lo so. Non lo so se sono felice”. Eppure ne avrebbe motivo Leonid Prudovsky, che risponde guardandosi intorno quasi stranito. Dopo la presentazione alla stampa, anche la prima mondiale di My Neighbor Adolf al Festival del Cinema di Locarno, in quella Piazza Grande che è la più grande sala cinematografica all’aperto al mondo, è stata un successo.
“Forse non ne sono capace, forse semplicemente non so essere felice. È una possibilità. Potrebbe essere una caratteristica ebraica… Però nella famiglia di mia madre tutti sono sempre felici. Non lo so. In Piazza Grande mi guardavo intorno, erano entusiasti, hanno davvero amato il film. È stato devastante”.
Prudovsky dice devastating, che sarebbe da rendere con “sconvolgente”, ma in un colloquio che definire pirotecnico è poco, in cui anche solo portare a termine un argomento nella stessa lingua in cui lo si era iniziato è impossibile, qualche dubbio su cosa intendesse davvero questo regista nato nel 1978 a San Pietroburgo resta. “Già la reazione alla prima proiezione, in Israele, era andata meglio di quanto mi aspettassi… dajenu! Sarebbe bastato, davvero. Lì era la prima volta che guardavo il mio film in mezzo a un pubblico, ero tesissimo, scrutavo ogni minima reazione. Penso sia normale: ho dedicato dieci anni alla scrittura di questa storia, e sono un perfezionista, continuavo a vedere cose che avrei potuto fare meglio. E la risposta degli israeliani per me non era affatto ovvia”.
L’ebraico e lo yiddish li aveva studiati un poco alla scuola ebraica, a Leningrado, prima di fare l’alyà a tredici anni e trasferirsi con la sua famiglia in Israele, dove si è laureato in cinema e televisione. Il cortometraggio con cui si è diplomato, Dark Night, ha vinto numerosi premi, tra cui una menzione speciale a Venezia nel 2005, dove è stato scelto come miglior cortometraggio. Ha scritto e diretto film per le televisione – Like a Fish out of Water, la serie Troyka – mentre il suo primo lungometraggio, Hamesh Shaot me’Pariz, Five Hours from Paris, è stato selezionato dal Toronto Film Festival nel 2009. “Nei dieci anni che abbiamo impiegato a scrivere questo film Dmitry Malinsky e io siamo invecchiati. Siamo cresciuti, forse. E abbiamo cercato di dare alla storia più livelli di lettura, per arrivare a persone anche molto diverse tra di loro. È stato un processo così lungo che è strano ora pensare sia tuto finito”. È soprattutto molto felice di non poter più cambiare nulla. Il titolo, invece, ha accettato di modificarlo, anche se decisamente malvolentieri: “Avrei voluto si intitolasse My neighbour Hitler, ma me l’hanno sconsigliato con una tale veemenza e con una tale decisione che ho ceduto”.
Ambientato in un generico paese dell’America Latina negli anni Sessanta – è una coproduzione di Israele, Polonia e Colombia – il film racconta la storia di un incontro: Marek Polsky – interpretato dallo scozzese David Hayman – è un sopravvissuto alla Shoah, vive in una casa sperduta nel nulla e la sua unica consolazione pare essere una pianta di rose nere che cura con meticolosa ossessione, ricordando la famiglia scomparsa in Europa.

Ada Treves

(Nelle immagini: Udo Kier e David Hayman nei panni di Helmut Herzog e Marek Polsky)

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IL PROGETTO INTERNAZIONALE SUGLI ARCHITETTI EBREI E LE LEGGI RAZZISTE 

1938, l'architettura recupera la Memoria

“Cosa resta del lavoro e della memoria degli architetti ebrei che hanno lavorato in Italia durante il ventennio fascista e che hanno poi subito la cancellazione, o la sospensione dagli albi? Come recuperare la memoria di quei professionisti che hanno subito ingiusta persecuzione e la cui carriera e realizzazione è stata bruscamente troncata?”. Sono alcuni degli interrogativi, come ha spiegato la studiosa Eirene Campagna, che rappresentano il punto di inizio di un ampio progetto di ricerca. Un lavoro dedicato ad approfondire e raccontare l'impatto delle leggi razziste del 1938 in un ambito specifico: l'architettura. La ricerca, i cui primi risultati sono stati presentati in queste ore, è parte integrante di “Architecture and remembrance”, progetto culturale che vede coinvolti gli Ordini degli architetti di Milano, Bologna, Roma, Ferrara, insieme a Fondazione Cdec, Fondazione Maxxi e all'Università Comenius di Bratislava. Primo passo di questa iniziativa di ampio respiro, sostenuta con fondi europei, un convegno internazionale. “Con questo convegno - le parole di Marialisa Santi, presidente della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Milano - inizia il percorso che ci porterà a parlare di architettura e leggi razziali in diversi formati e linguaggi. Confidiamo che questa narrazione così articolata, costruita grazie al lavoro di tutti i membri del partenariato, ci permetta di coinvolgere non solo i colleghi ma anche un pubblico più ampio offrendo un’occasione di riflessione e di conoscenza di storie personali ma anche di opere del nostro Novecento”. 

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 IL CASO DELLA BARZELLETTA ANTISEMITA DISCUSSO IN CONSIGLIO COMUNALE

“Genova, la Comunità ebraica esige rispetto”

Negli scorsi giorni la barzelletta antisemita raccontata nella sinagoga di Genova da un assessore comunale ha suscitato molte reazioni a livello cittadino e nazionale. A una settimana e mezzo dall’accaduto, nel segno di una scelta che ha visto la convergenza di maggioranza e opposizione, il Consiglio comunale del capoluogo ligure ha votato un ordine del giorno in cui si esprime una netta condanna dell’episodio e si impegna l’amministrazione a “promuovere iniziative di formazione civica e culturale” sia in materia di contrasto all’odio antiebraico che di opposizione al razzismo nelle sue diverse sfumature. Un atto significativo, approvato all’unanimità, accompagnato da un momento di elaborazione a più voci. Molti gli spunti emersi. “Siamo soddisfatti, è stata un’occasione costruttiva di confronto” dice la presidente della Comunità ebraica cittadina Raffaella Petraroli Luzzati. Che non ha fatto sconti sulla gravità del fatto approfondito dal Consiglio, verificatosi nell’apertura dell’ultima Giornata Europea della Cultura Ebraica.

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 LA PROIEZIONE DEL DOCUMENTARIO A ROMA

9 ottobre 1982, il racconto dei testimoni

Il racconto di feriti e testimoni compone “Era un giorno di festa”, documentario a cura dell’associazione 9 ottobre 1982 che elabora la ferita dell’attentato palestinese al Tempio Maggiore di Roma da una pluralità di prospettive. Familiari, psicologiche, generazionali. Un contributo alla riflessione che arriva a ridosso del quarantesimo anniversario dall’attacco. Appuntamento di consapevolezza per tutta la città e per un Paese talvolta distratto che gli ebrei romani ricorderanno, anche nel segno della vita, attraverso l’ingresso di un nuovo Sefer Torà in sinagoga. Un’iniziativa, portata avanti dalle scuole e dal Benè Berith Giovani, nel nome di Stefano Gaj Taché. Il “bambino italiano” di appena due anni, richiamato da Mattarella nel suo discorso d’insediamento, che cadde vittima dei terroristi.
“Era un giorno di festa” è stato proiettato al teatro Palladium di Roma, alla presenza tra gli altri del procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Giovanni Melillo e con il patrocinio di Comunità ebraica, Centro di Cultura Ebraica e Dibac.

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 QUI TORINO – EZRA E IACOPO ACCOLTI IN COMUNITÀ

Il segno del Patto per due nuovi bimbi
Forte impulso di speranza e di fiducia

Una mattinata di gioia ed emozione, nella comunità ebraica di Torino, dove due nuovi nati sono stati accolti in queste ore con la cerimonia della Milà (circoncisione).
Al primo bimbo la mamma, Lea Cattaneo Treves, ha imposto il nome di Ezra.
Una grande gioia condivisa dai numerosi presenti, dall’intero ebraismo torinese, ma anche da tutti i colleghi della redazione giornalistica dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, che sono accanto alla collega Ada Treves, alla sua prima prova di nuova nonna.
Direttrice del giornale ebraico dei bambini DafDaf, coordinatrice con la Scuola superiore traduttori e interpreti del laboratorio di formazione professionale che sta alla base del notiziario multilingue Pagine Ebraiche International, giornalista professionista e componente della redazione UCEI, Ada è entrata nella sinagoga di piazzetta Primo Levi in questa mattina luminosa di settembre per la prima volta con il suo nipotino.
Alla nuova mamma, a Haim, Tuvia e Mia, fratelli di Lea, al nuovo nonno Enrico Cattaneo, a tutti i loro cari, i nostri auguri affettuosi assieme a quelli di tutti coloro che sono impegnati nel lavoro dell’Unione.
Nel corso della giornata a breve distanza è stato poi il momento di festeggiare con un’altra Milà la nascita e l’entrata in comunità di Iacopo Jacov Leon Goldesten, figlio di Diego e Luisa Albertini.
Ai suoi familiari e a tutti i loro cari un caloroso Mazal Tov.
Assieme al Mohel David Pavoncello, a condividere la gioia di questa giornata tutta speciale, i rabbini torinesi Alberto Moshe Somekh e Ariel Finzi e tantissimi amici del mondo ebraico torinese.
Un doppio, forte motivo per festeggiare incoraggiati da questi segni di speranza e di fiducia nel futuro e per guardare avanti, anche e soprattutto nei tempi difficili, lungo il cammino plurimillenario degli ebrei italiani.

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LA MOSTRA AL MUSEO EBRAICO DI LECCE

Da Israele alla Puglia, l'arte ponte tra identità

L'arte come racconto delle molte identità e lingue d'Israele: dall'ebraico all'arabo all'yiddish, dall'essere figli di sopravvissuti alla Shoah al condividere la sfida di emanciparsi come donne dai vincoli delle proprie comunità. Nell'esposizione "A very narrow bridge" del Museo ebraico di Lecce, spiega a Pagine Ebraiche la curatrice Fiammetta Martegani, l'obiettivo è quello di far percorrere ai visitatori i molti ponti ideali che collegano le opere e le storie dei quindici artisti israeliani in mostra. “Lo scopo del Museo ebraico di Lecce, che sorge dove un tempo c'era una sinagoga, è quello di far rivivere le radici ebraiche della città. È di creare ponti tra passato e presente, ma anche di costruirne di nuovi, in particolare con Israele”, sottolinea Martegani. A partire da questa idea, spiega la curatrice, è nata l'esposizione.

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Machshevet Israel - Doveri e/o diritti
Alla recente presentazione del libro Shabbat Shalom. Il rinnovamento dell’umanità a cura di Dario Coen edito da Gangemi, un volume ‘dialogato’ tra rav Riccardo Shmuel Di Segni e il professor David Meghnagi, illustrato da Micol Nacamulli, la giornalista Nathania Zevi ha chiesto al rabbino capo di Roma se il precetto del non-lavorare di sabato sia da considerarsi la prima proclamazione pubblica nella storia del “diritto al riposo”, un diritto pari ma di segno opposto al diritto al lavoro, entrambi finiti nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, emanata dalle Nazioni Unite nel dicembre del 1948 (ad oggi il testo etico-giuridico più importante a cui dovrebbero ispirarsi tutte le costituzioni politiche nazionali).   
Massimo Giuliani
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Era un giorno di festa
Ho partecipato all’anteprima della visione del documentario “Era un giorno di festa” sull’attentato del 9 ottobre 1982 alla sinagoga di Roma, compiuto dal terrorismo palestinese, che causò l’assassinio del piccolo Stefano Gaj Taché e il ferimento di quaranta persone.
Jonatan Della Rocca
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